Venerdì santo

Venerdì santo

abbiamo iniziato questa santa liturgia, in silenzio, prostrati a terra come lo era Gesù nell’orto degli Ulivi, per unirci almeno un poco alla sua angoscia ed anche all’angoscia dei tanti uomini e delle tante donne che ancora oggi sono prostrati dal male e dalla violenza. Sono passati poco meno di duemila anni da quel venerdì santo, da quel pomeriggio che divenne buio per la morte di quel giovane di appena 33 anni. Fu una storia di morte a suo modo semplice: c’era un uomo buono che parlava del Vangelo; e in tanti accorrevano ad ascoltarlo. Ad un certo punto i potenti decisero che aveva parlato troppo e che in troppi stavano a sentirlo; presero quindi la decisione di farlo tacere; trovarono un suo amico che indicò loro con precisione il luogo dove abitualmente si ritirava: un orto alle porte di Gerusalemme. Quella sera stava lì con i suoi, lo presero e lo portarono davanti alle più grosse autorità: Pilato, il rappresentante del più grande impero del mondo, ed Erode, il re furbo. Ma ambedue non si vollero prendere nessuna responsabilità per quell’uomo. La folla, che solo cinque giorni prima aveva gridato “osanna”, si mise ora ad urlare “sia crocifisso, sia crocifisso!” e Pilato non seppe resistere. Quell’uomo, dopo essere stato rivestito per burla con gli abiti di re, fu torturato, schiaffeggiato, coronato di spine; poi fu condotto fuori dalla città (anche per nascere dovette trovare una stalla fuori Betlemme) verso una collinetta, chiamata Golgota, e fu inchiodato su di una croce, con due ladri, uno alla sua destra e l’altro alla sua sinistra. Su quella croce, quell’uomo buono, morì. Si chiamava Gesù e veniva da Nazareth. Ed è singolare per noi di Terni che fu proprio un nostro antico concittadino, Tacito, a darne testimonianza per primo tra i non cristiani.
Non ci vuole molto a dire che quella morte fu ingiusta. La morte, del resto, non è mai giusta, nemmeno dopo i crimini più brutti; ma davvero è facile dire che la morte di quell’uomo fu veramente ingiusta. Non aveva fatto niente di male, anzi “aveva fatto bene ogni cosa” (Mc 7, 37), notò una volta la gente. Chi ascolta il racconto di questa morte, con un poco di cuore, resta commosso e dispiaciuto: quell’uomo buono ha dovuto soffrire tanto e morire sulla croce, solo perché aveva parlato del Vangelo e aveva detto di essere il Figlio di Dio. Ciascuno di noi al termine della lettura del “Passio”, prova un senso di afflizione e di rammarico ed è tentato di dire: “io non lo avrei fatto”, oppure di giustificarsi: “non sono Pilato, non sono Erode, non sono nemmeno Giuda…”; e si può, inoltre, confessare la propria impotenza di fronte alla viltà di Pilato e alla crudeltà dei sommi sacerdoti. Ma c’è anche Pietro; non è il peggiore dei discepoli; anzi, se non è il migliore, è certamente il più importante, quello a cui Gesù ha affidato la maggiore responsabilità. Pietro ha una grande idea di sé, è orgoglioso, persino permaloso. Si offende quando Gesù gli dice che lo tradirà: “Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte”, risponde. Eppure basta una donna per far crollare tutto. Fu l’incontro con lo sguardo di Gesù che sconvolse Pietro: “Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto” (Lc 22, 62). Noi, care sorelle e cari fratelli, non siamo degli eroi; siamo come tutti; siamo almeno come Pietro. Ma se i nostri occhi questa sera incrociano gli occhi di quell’uomo che va a morire, anche noi ricorderemo le parole del Signore e saremo liberati dai nostri tradimenti e dalle nostre paure. E’ la grazia di questo giorno: poter stare sotto la croce.
Questa santa Liturgia cerca in ogni modo di toccarci il cuore, di spingerci alle lacrime davanti a questa morte, con la sua austerità, il suo silenzio, l’assenza dei fiori e delle immagini. La Chiesa, davanti a questa morte non celebra neppure la Santa Messa, e al vescovo è chiesto persino di togliersi l’anello, segno dello sposalizio con la diocesi, per fargli sentire quasi fisicamente la morte dello sposo. E’ come dirci: non vi dimenticate di questa morte. In genere, infatti, Gesù muore nel disinteresse generale e nello smarrimento dei suoi. Forse c’è solo uno che piange: Dio Padre. Ascolteremo il Suo pianto, tra poco, mentre ci avvicineremo per baciare la croce, nelle antiche parole delle “Lamentazioni”. Sì, sentiremo il lamento di Dio; un lamento insistente e sconsolato. Lasciamoci toccare da questo pianto del Signore! Non lo dimenticheremo più e nulla sentiremo mai di maggiormente grande e triste. “Popolo mio, che cosa ti ho fatto, perché tu mi mettessi in croce”? Così piange Dio, davanti a noi, come nessuna donna ha pianto sopra il suo sposo o sopra i suoi figli. “Popolo mio, che cosa ti ho fatto? In che ti ho contristato? Dammi una risposta!” E, sgomento, il Signore continua a non darsi pace: “Io davanti a te ho squarciato il mare, e tu con la lancia mi hai squarciato il petto. Io ti ho fatto strada con la nube, e tu mi hai trascinato al pretorio di Pilato. Io ti ho dissetato con acqua dalla rupe nel deserto, e tu mi hai dissetato con fiele e aceto. Io ti ho dato lo scettro regale, e tu mi hai dato sul capo una corona di spine”. Non si dà pace il Signore: “che altro avrei dovuto fare e non l’ho fatto?”

Questo pianto, tante volte è inascoltato. Noi, presi come siamo da noi stessi, non lo sentiamo più. Ecco perché la nostra vita è spesso così arida e triste, e le nostre città sono così crudeli, soprattutto con i più deboli. Ognuno sembra come rinchiuso nel versare le lacrime solo su sé stesso, sui propri guai, sul proprio destino. Lacrime sterili, perché non scendono in un terreno che dà frutti buoni, ma in quello dell’amore per sé che genera solo amarezza e violenza. Quel giorno, come oggi, Gesù, non guarda se stesso, non piange su se stesso e sui propri guai. Egli, dall’alto della croce, guarda quel giovane discepolo e l’anziana madre. Avrebbe avuto tutto il diritto di chiedere aiuto e di pretendere consolazione per sé. Al contrario, Egli non si preoccupò di se stesso ma della madre e del giovane discepolo. Che ne sarebbe stato di loro? E Gesù disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio”, e al giovane discepolo: “Ecco tua madre”. E da quel giorno – nota l’evangelista – Giovanni la prese con sé.


Care sorelle e cari fratelli, da un amore come quello di Gesù nasce la vita, sgorga l’amicizia, spunta la solidarietà. E’ un amore grande, che sconfigge ogni limite, che abbatte ogni tristezza; è un amore che apre le porte del paradiso al ladrone, che apre le porte del cuore a Maria e a Giovanni, che apre i nostri cuori all’amore universale. Oggi, come Gesù sulla croce, da questa cattedrale, come da ogni chiesa del mondo, i cristiani non pregheranno solo per se stessi, non pregheremo solo per noi, come in genere facciamo, ma per il mondo intero, per tutti i popoli, per chi crede e per chi non crede, per gli ebrei e per i credenti di altre religioni, per i poveri e per chi è angosciato. E’ la grande preghiera universale, una preghiera che abbraccia il mondo intero come ha fatto Gesù allargando le sue braccia sulla croce.