Messa crismale

Messa crismale

Carissimi sacerdoti, care sorelle cari fratelli,


 


abbiamo iniziato questa celebrazione con la benedizione della nuova porta centrale della cattedrale che reca, incise nel bronzo, le parole di Gesù: “Io sono la porta, chi passerà per me sarà salvo”. E’ la porta che ricorda il Grande Giubileo. Attraverso di  essa, potremmo dire, siamo entrati nel nuovo millennio. Non l’abbiamo chiusa, infatti, terminato il Giubileo; al contrario, l’abbiamo fatta nuova come per indicare una rinnovata decisione da parte nostra e dell’intera diocesi di entrare nel nuovo tempo a partire da Gesù. Egli ci appare, nella porta, come un’energia di amore, come una forza che spacca anche la durezza del ferro.


Questa porta ci conduce a disporci attorno all’altare, come attorno a Gesù. E’ una disposizione nuova, sebbene non ancora definitiva. Mentre la porta è definitiva, qui invece siamo in una vera e propria ricerca. E’ la ricerca di un centro verso cui orientarci e attorno a cui stringerci. Lo spazio sacro, infatti, non è neutrale, non è senza una direzione: tutto converge verso Gesù. L’antica invocazione pronunciata all’inizio dell’eucarestia: “Conversi ad Dominum”, “rivolgetevi al Signore”, torna ad essere un invito pressante per tutti  noi. Tutti: vescovo, sacerdoti, diaconi, fedeli, tutti dobbiamo rivolgerci al Signore e stringerci attorno a Lui. Ecco perché tutto converge nell’altare che sta nel centro della cattedrale. La sede, l’ambone, i fedeli, tutto e tutti siamo come diretti verso Cristo. E’ quasi una obbligazione fisica, una sorta di costrizione a superare il ripiegamento su di sé. E’ facile, infatti, estremamente facile, ripiegarci sul nostro egocentrismo; è facile cedere alla tentazione di mettere o imporre se stessi al centro di tutto. Qui no. Al centro c’è solo Gesù. Lui è la pietra angolare su cui costruire saldamente la nostra fraternità. Giovanni Paolo II, nella sua lettera “Novo Millennio Ineunte”, ci ricorda che “non si tratta di inventare un nuovo programma. Il programma già c’é… Esso si incentra, in ultima analisi, in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia…”. Dobbiamo “ripartire da Cristo”, ripartire da questo altare. Ed è significativo che questo nuovo altare della cattedrale sorga quasi esattamente sulla tomba del primo vescovo di questa Chiesa, Anastasio, come a volerci legare alle origini stesse della Diocesi. Dalla testimonianza dell’origine, la nostra preghiera sale in alto verso la cupola sino all’altare del cielo. E con evidenza quasi fisica facciamo nostra l’antica preghiera: “Salga a te Signore la nostra preghiera come incenso e tu ascolta e perdona”.


La liturgia di questa sera, anche attraverso i segni della nuova porta e del nuovo ordine dell’area presbiterale, sottolinea l’unità del vescovo con i sacerdoti e i diaconi attorno a Gesù. E’ una celebrazione tutta piena di intimità. E per me si aggiunge, carissimi sacerdoti e cari diaconi, il ricordo commosso della celebrazione dello scorso anno. Vi dissi quel giorno che uno dei motivi principali che mi aveva spinto a scegliere la Settimana Santa per l’ingresso in Diocesi era stato proprio quello di iniziare il mio ministero episcopale assieme a voi, nella Liturgia crismale, quasi a voler entrare in Diocesi non da solo ma con tutti i sacerdoti; entrare non in modo isolato ma in comunione piena con tutto il presbiterio. E ricordo l’abbraccio con ciascuno di voi. E come non ricordare quello con don Giovanni Zanellato e con don Giovanni Federici? Oggi, è passato un anno, il clima è ancor più intenso, e per me ancor più pieno di comunione. Sì, è cresciuta la comunione. E benedico e ringrazio il Signore. Ci siamo conosciuti, abbiamo percorso un buon tratto di strada. L’anno giubilare è stato una benedizione per noi e per l’intera nostra diocesi. Non posso qui ripercorrere il cammino che abbiamo fatto. Voglio però ricordare che si sono aggiunti a noi nel sacerdozio anche don Stefano e don Claudio, e anche don Riccardo che ha scelto di incardinarsi nella nostra Diocesi. Questa sera li sentiamo particolarmente vicini a noi, com’era vicino a Gesù quella sera dell’ultima cena il giovane discepolo che egli amava. Si aggiungerà a noi anche don Stefano Mazzotti che sarà ordinato diacono nella domenica in albis. Assieme a loro vorrei ricordare anche don Edmund e don Leopoldo, lontani nello spazio, non certo dal nostro cuore. Un ricordo particolare vorrei fare per don Antonio Marconi, don Gaetano Zandonà, don Giuseppe De Santis, don Francesco Lombardi e il carissimo don Antonio Conti che non possono essere tra noi per questa celebrazione. Li ricordiamo tutti al Signore, qui, nella cattedrale, che sempre più diviene la sala addobbata del piano superiore, quella sala bella di cui parla il Vangelo, sì davvero bella, da cui nessuno è escluso e nella quale tutti sono attesi e accolti.


Cari sacerdoti, cari diaconi,


ebbene, vorrei ripartire da questa “sala bella” con tutti voi, con ciascuno di voi, per riprendere con maggior forza il cammino che il Signore ci prepara nel tempo che viene. Avete lavorato molto nell’anno trascorso. E voglio dirvi tutto il mio affetto e tutta la mia gratitudine. Sì, grazie di cuore a tutti voi, a ciascuno di voi, cari sacerdoti e cari diaconi, iniziando da don Antonio Maniero che mi è vicino nel portare la responsabilità dolce e grave del governo di questa Chiesa. Il Vangelo che ci è stato annunciato ci riporta a Nazareth, quando Gesù iniziò il suo ministero. Quel giorno anche lui “prese il largo”, dispiegò le sue vele al vento dello Spirito per annunciare il Vangelo ai poveri, per portare la liberazione ai prigionieri e ai ciechi la vista. Lasciò la vita di sempre, abbandonò le abitudini consolidate da trenta anni, abitudini certamente buone e sante, ma era giunto un nuovo momento, un momento opportuno, per rispondere alle nuove domande e alle nuove attese del mondo. E’ un invito pressante anche a ciascuno di noi e all’intera Diocesi. Oggi, non stiamo compiendo un rito stanco. Si tratta piuttosto di aprire anche le nostre vele al vento dello Spirito e  prendere il largo, come il Papa ci ha esortato a fare, con le parole che Gesù disse a Pietro quando lo esortò a gettare nuovamente le reti. Ma cosa vuol dire per noi “prendere il largo”? Vuol dire andare incontro all’uomo, andare incontro a tutti, andare incontro ai poveri e ai deboli, senza porsi nessun confine. Ecco il senso anche della nuova mensa dei poveri che apriremo nei giorni prossimi. Andare incontro a tutti, perché nessuno resti senza amore. C’è bisogno di gettare ancora le reti al largo delle nostre città e dei nostri paesi. C’è bisogno che il Vangelo sia annunciato con più vigore, particolarmente alle giovani generazioni; c’è bisogno che un nuovo anno di grazia sia predicato. Sono tanti ancora i prigionieri e numerosi sono coloro che badano solo a  stessi senza preoccuparsi di altro. Eppure credo che un impegno rinnovato possa farci gustare frutti ancor più abbondanti. Sono evidenti i segni di una piccola, nuova primavera. Vari sacerdoti tra voi – per fare un solo esempio – mi hanno parlato di una crescita di partecipazione alla Messa domenicale. E comunque tutti siamo testimoni della grande domanda di vita nuova che sale dalla nostra gente. La seminagione, antica e nuova, ha fatto germogliare la messe. E sento vere per noi le parole di Gesù ai discepoli: “Levate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura”(Gv 4,36). Non possiamo, cari sacerdoti, lasciarci cogliere dal sonno in cui caddero i tre discepoli di Gesù nell’orto degli ulivi. Oggi, il Signore si avvicina a noi, a ciascuno di noi, certo anche per svegliarci dal sonno delle nostre abitudini che talora ci rendono più funzionari che pastori, ma egli si avvicina soprattutto per chiederci, come a Pietro: “Mi vuoi bene tu, più di costoro?” E’ una domanda d’amore, prima che d’impegno. La nostra risposta diamola ora con generosità rinnovando le promesse fatte davanti al vescovo nel giorno della nostra ordinazione sacerdotale: “Signore, tu lo sai che rivoglio bene!”