Terza meditazione di Quaresima a Santa Maria Maggiore

Terza meditazione di Quaresima a Santa Maria Maggiore


La carità si fa storia


 


Nelle due precedenti meditazioni, aiutati dall’enciclica di Benedetto XVI, abbiamo fermato la nostra attenzione sull’amore di Dio come ci viene rivelato dalla Scrittura. Vorremmo ora contemplare questo amore come si è incarnato nella vicenda storica. Il Papa accenna a questo tema nella seconda parte dell’enciclica ove tratta, appunto, della carità della Chiesa. E apre le sue riflessioni con una illuminate frase di sant’Agostino: “Se vedi la carità, vedi la Trinità”. In effetti, nella carità della Chiesa appare la realizzazione storica dell’amore di Dio. Benedetto XVI parte da una affermazione basilare che riguarda i singoli credenti e la Chiesa come tale: “L’amore del prossimo radicato nell’amore di Dio è anzitutto un compito per ogni singolo fedele, ma è anche un compito per l’intera comunità ecclesiale, e questo a tutti i livelli: dalla comunità locale alla Chiesa particolare fino alla Chiesa universale nella sua globalità. Anche la Chiesa in quanto comunità deve praticare l’amore”(20). Ciascun credente quindi è chiamato all’amore. Ma anche la comunità cristiana come tale deve manifestare l’amore di Dio. Ed è stato così sin dall’inizio; potremmo dire che sin dal giorno dopo la Pentecoste, data di nascita della Chiesa.


L‘apostolo Pietro, assieme a Giovanni, mentre sta alla Porta Bella si ferma davanti allo storpio che chiedeva l’elemosina e gli dice: “Non possiedo né oro né argento, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù, il Nazareno, cammina! E presolo per la mano destra lo sollevò”(At 3,6). In questa icona possiamo leggere l’intera vicenda della carità cristiana: la Chiesa, ogni singolo credente, come Pietro deve prendere per mano l’uomo storpio seduto ai margini della vita e, nel nome di Gesù, aiutarlo a rialzarsi. Questa è la via della Chiesa. E venti secoli di storia – a me è capitato di studiarli in questa prospettiva – mostrano che ogni qualvolta i cristiani si sono allontanati dal Vangelo hanno anche dimenticato i poveri. Al contrario, nei grandi momenti di ri-forma della Chiesa (quando cioè le comunità cristiane hanno voluto riprendere con più chiarezza la forma del Vangelo) sempre vi è stata una vigorosa riscoperta dei poveri. È a dire che la Comunità dei credenti e l’amore per i poveri sono inscindibili. E c’è una ragione profonda che il giovane teologo Ratzinger, già nel lontano 1968, aveva individuato. Nel piccolo volume La fraternità cristiana egli notava che Gesù, nei Vangeli, usa il termine “fratello” (adelphòs) per indicare solo due categorie di persone: i discepoli e ipoveri. L’intento è chiaro: Gesù li unisce assieme in una stessa famiglia. C’è insomma un’alleanza tra dei cristiani con i poveri che qualifica evangelicamente, sino a poter definire il cristiano colui che ha i poveri per amici.


 


La prima comunità cristiana


 


E in effetti l’amore per poveri fu uno dei cardini della vita della prima comunità apostolica. In uno dei noti “sommari” degli Atti si scrive: «La moltitudine dei credenti aveva un cuor solo e un’anima sola, né vi era chi dicesse suo quello che possedeva, ma tutto era fra loro in comune… Nessuno tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, por­tavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponeva­no ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno» (At 4,32-35). Intendiamoci, non era intenzione delle prime comunità cristiane trasformare le strutture sociali ed economiche delle società elleniche. Tuttavia, al loro interno, davano vita ad una sorta di nuova società, dove anche le differenze discriminanti tra l’uomo e la donna, tra l’ebreo e il non ebreo, tra lo schiavo e il libero, tra il povero e il ricco, erano radicalmente intaccate. L’amore annullava le distanze e rendeva vicini coloro che la vita aveva reso distanti. L’amore abbatte quel muro di divisione che separa gli uomini gli uni dagli altri.


Uno dei frutti più singolari di questa «unione fraterna» è l’ agàpe, intesa nel senso più tecnico di cena del Si­gnore. L’agàpe, per la quale ognuno portava il suo contributo, esprimeva l’avvento della comunità messianica attraverso la testimonianza della vita in comune dei discepoli (lo spezzare il pane insieme era un chiaro segno della loro unione). Non c’era allora una distinzione netta tra la Cena del Si­gnore e il pasto preso in comune; vi era anzi una stretta connessione tra i due momenti: «ogni gior­no, di comune accordo, assidui al tempio e spezzando il pa­ne di casa in casa, prendevano cibo con gioia e semplicità di cuore» (At 2,46). E senza dubbio molti poveri di Gerusalemme trovavano in questi pasti il loro principale mezzo di sostentamento. L’amore della prima comunità di Gerusalemme si effondeva come appare dalla prima crisi che ha dovuto affrontare quando, come si scrive in Atti 6,1-6, venivano trascurate nella distribuzione degli aiuti le vedove di Gerusalemme per favorire quelle provenienti dalla diaspora. Questa discriminazione provocò la prima grande crisi. E gli apostoli decisero di riorganizzare l’intera attività assistenziale della comunità scegliendo un gruppo di sette diaco­ni a cui affidarono la responsabilità degli aiuti. Potremmo dire che l’assistenza ricevette una sua prima organizzazione. Siamo attorno agli anni 30-36 ed è singolare che, per l’autore degli Atti, la prima crisi nella comunità cristiana non riguardi la dottrina e neppure la morale, ma il servizio ai poveri.


 


I Padri orientali


 


Ma furono i vescovi delle grandi città dell’Oriente cristiano i primi organizzatori del servizio ai poveri offrendone un’alta elaborazione teologica. Alla fine del IV secolo, in effetti,  è già stato detto quasi tutto sulla carità. San Basilio, vescovo di Costantinopoli, fu l’iniziatore. La sua azione in difesa dei poveri fu immediata e diretta su vari fronti: combattendo i giudici ingiusti e prepotenti, vendendo i propri beni dando il rica­vato ai poveri, chiedendo ai ricchi di dare il super­fluo ai poveri, lottando contro gli usurai, e soprattutto con la costruzione della cittadella Basiliade, un grande centro di carità a Costantinopoli. I cardini del suo pensiero sulla povertà e la ricchezza sono chiari: tutti gli uomini sono uguali e tutto è di tutti. Basilio giunge a dire che capitalizzare è sinonimo di derubare. E la ricchezza e la potenza non determinano privilegi, piuttosto creano doveri. Ma non si rivolge solo ai ricchi:ç tutti debbono fare la carità, anche i poveri, come a dire che non c’è nessuno tanto povero da non poter aiutare un altro più povero di lui. Nell’Omelia VIII, composta in occasione di una grave carestia, scrive: «Sei povero? C’è un altro più povero di te. Tu hai cibo per dieci giorni, lui per un giorno solo. Da per­sona generosa dividi in parti uguali con l’indigente quanto ti avanza; non esitare a dare quel poco che hai, non anteporre il tuo interesse al pericolo comune. Anche se sei ridotto ad avere un solo pane e c’è alla porta un mendico, tira fuori dalla dispensa quell’unico pane, mettilo nelle tue mani, sol­levale al cielo e dì queste parole piene al tempo stesso di pietà e generosità. Quello che vedi, Signore, è il solo pane che mi resta e incombe il pericolo, ma antepongo il tuo comandamento al mio interesse e do quel poco che ho al mio fratello affamato: dà anche tu al tuo servo in pericolo. Conosco la tua bontà, confido anche nella tua potenza: tu non differisci nel tempo i tuoi benefici, ma spargi, quando vuoi, i tuoi doni». Basilio giunge a dire che non contano digiuni, preghiere, penitenze e tante altre pratiche pie, se non si è attenti ai poveri: per chi si comporta in questo modo è chiusa la stessa via al regno dei cieli. Ma chi dà con generosità è salvo: «la carità verso i poveri can­cella il peccato originale elargendo i mezzi di sostentamento a chi ne è privo. Come infatti Adamo, mangiando colpevol­mente, trasmise il peccato, così noi distruggiamo quel perfi­do cibo se ci prendiamo cura di sfamare i fratelli indigenti»(Om.VIII).

Gregorio, fratello minore di Basilio, nominato vescovo di Nissa tenne due famosi discorsi «Sull’amore ai poveri». Radicale il suo insegnamento: «il mio e il tuo, queste parole funeste, non esistevano all’origine; ogni cosa appartiene a Dio, padre comune di tutti». E spiegava: «Il rispetto e l’amore che si devono a questi uomini disgraziati (i poveri) sono fondati ontologicamente nell’essere, moralmente nella giustizia e spiritualmente nella carità, non in una compassione che concede ad essi il minimo di sopravvivenza». La ricchezza, per Gregorio, è frutto di latrocinio e di usurpazione del po­vero. Severissime sono le sue parole contro gli usurai, che attacca anche se fanno elemosine: «se il povero scoprisse l’origine dell’elemosina che gli porgi, non l’accetterebbe in quanto penserebbe di nutrirsi delle carni dei suoi fratelli e del sangue dei propri simili; ti direbbe con misurata fran­chezza: non nutrirmi con le lacrime dei fratelli». Il terzo grande Padre della Cappadocia è Gregorio Nazian­zeno. Nel suo noto Discorso sull’amore dei poveri, pronun­ciato a Cesare a di Cappadocia richiama la presenza di Cristo nei poveri: «Visitiamo Cristo, curia­mo Cristo, nutriamo Cristo, ospitiamo Cristo, onoriamo Cri­sto, non con la mensa soltanto… perché vuole misericordia non sacrifici, il Signore di tutti, e la misericordia va al di là di migliaia di pingui agnelli».


Altro grande difensore dei poveri fu Giovanni Crisostomo. Egli pagò con l’esilio la sua difesa dei poveri. Incredibilmente attuale questo suo passaggio: “Appena sentiamo un uomo che si lamenta e grida e guarda il cielo, con la barba lunga e con le vesti sdrucite, diciamo subito che è un impostore. Non ti vergogni? …Ma egli ha da vivere e simula miseria. Questo è un disonore più per te che per lui: sa che ha da fare con gente senza cuore, più belve che uomini e che se si limita a dire parole commoventi non ottiene nulla; per questo è costretto a presentarsi con un aspetto più miserando, per spezzare il tuo cuore di pietra… Ma perché scoprono i loro moncherini? Per te. Se fossimo misericordiosi non avrebbero bisogno di ricorrere a questi mezzi. Non sono queste cose anche peggiori della miseria? Eppure per queste cose non solo non trovano compassione, ma addirittura li accusiamo… Che cosa c’è di più umiliante di mendicare?… Diventiamo misericordiosi, ma non in modo qualsiasi, bensì come il Padre nostro che sta nei cieli che dà da mangiare ai poveri, alle prostitute, ai miseri, a quelli che hanno compiuto ogni sorta di cose brutte…”(Sugli Ebrei, XI,3). Ed è particolarmente efficace il parallelismo che fa tra l’onore che si deve all’Eucarestia e quello che si deve ai poveri:


 


I Padri occidentali


 


Anche in Occidente i grandi vescovi non mancarono di far sentire la loro voce in difesa dei deboli. Ambrogio fu tra i più coraggiosi. E poi Agostino che in un suo passaggio scrive: «Hai accolto un povero presso di te. Ma esiti, non è vero? Potrebbe essere un impostore, un ipocrita. Dagli ugualmente tutto. Se è cattivo, il tuo gesto potrebbe farlo cambiare». Altrove è anche più incisivo: «Tieni il povero con te; tu che sei ricco, non sei che un mendicante alla porta di Dio». Ma è su Gregorio Magno (590-604) che vorrei fermarmi almeno un poco. Anche lui pone a fonda­mento del suo pensiero sociale la destinazione uni­versale dei beni: «La terra è un bene comune per tutti gli uomini e, di conseguenza, gli alimenti che essa fornisce, li produce per tutti comunemente». E conclude affermando che i possessori di beni debbono procurare il necessario per coloro che non li hanno. È un dovere di giustizia, sostiene Gregorio; dimenticarlo equivale a un omicidio. Potremmo dire che siamo agli esordi di una vera e propria enciclica sociale. Gregorio era un pastore profondamente legato alla Scrittura e alla vita quotidiana del suo popolo. Fu infaticabile nel soccorrere i bisognosi. Dai suoi granai uscivano tanti soccorsi da far dire a Giovanni Diacono che «la Chiesa era ritenuta un magazzino co­mune a tutti» (Gregorii Magni Vita, 2,26). Nel riscattare i prigionieri Gregorio non solo era sollecito personalmente ma esortava i vescovi autorizzandoli a vendere anche i vasi sacri per salvare i poveri. Nel suo monastero a San Gregorio al Celio aveva costruito una mensa per i poveri perché stessero con lui. Resta illuminante, in proposito, un noto episodio. Un giorno – era già Papa – gli fu annunciato che in città era morto un uomo per fame. Quel giorno Gre­gorio non volle celebrare la Messa: «Oggi è venerdì santo – disse – ­perché in quell’uomo povero è morto Gesù». E se ne fece una colpa personale «come se lo avesse ucciso lui con le sue mani», scrive Giovanni Diacono (Gregorii Magni Vita, 2, 29). Ed è bello quel che racconta un narratore a proposito di un uomo che, entrato in una cittadina medievale e che chiede ove fosse la casa del vescovo, si sentì rispondere: “Segui la fila dei poveri e troverai la casa del vescovo”. Davvero sembra di vedere il Vangelo quando scrive che a Cafarnao tutti portavano davanti alla casa di Gesù poveri, malati, bisognosi. I vescovi si meritavano davvero il titolo di “padre dei poveri”.


 


La carità e la ri-forma la Chiesa nel secondo millennio


 


All’inizio del secondo millennio fu proprio la carità a ridare vigore ad un cristianesimo infiacchito. I vescovi della regione di Reims lamentavano: “Il paese è ridotto a un deserto. Come i primi uomini, così adesso ciascuno fa ciò che gli piace… Il potente opprime il debole, il paese non conosce che la violenza contro il povero”. Tuttavia, né i vescovi né i monaci mostravano adeguata attenzione al crescente numero dei poveri che talora morivano di fame persino nei pressi delle porte dei monasteri. E un concilio in Francia gridava: “Vergogna! I cani dei vescovi sono più nutriti dei poveri!” Crebbe, anzi, il disprezzo verso i poveri, giustificato anche con l’antica concezione della miseria intesa come castigo di Dio per le colpe commesse. Ma un fremito di riforma traversò la Chiesa in tutta l’Europa con l’apparire dei nuovi ordini monastici, degli eremiti, dei preti di vita comune, e di molti laici che abbracciavano l’ideale della povertà, rifiutando possedimenti e privilegi. In quell’epoca il povero ricevette il titolo di vicarius Christi (solo successivamente fu dato anche al Papa). Francesco d’Assisi resta l’esempio più alto di questo nuovo volto del cristianesimo d’inizio millennio. Di fronte al mutismo di tanti ecclesiastici, si mise lui, laico, a dire il Vangelo e scelse i minores, gli emarginati del tempo, come suoi fratelli. La carità, unitasi strettamente alla povertà, fu all’origine della riforma della Chiesa d’inizio millennio. La crescita costante del numero dei poveri raggiunse livelli molto alti. E cambiò anche l’atteggiamento verso di loro. Il povero non è più il vicarius Christi, ma un delinquente e facilmente un malfattore. I poveri venivano distinti in “buoni” (vecchi, vedove, orfani) e “cattivi” (oziosi, parassiti, vagabondi). La carità, stretta tra il dibattito contro l’idealizzazione della povertà e l’urgenza di controllare l’afflusso dei poveri, cercò il suo spazio e lo trovò nel farsi “misericordia”: le strade e le città dell’Europa si riempirono di ospizi, di ospedali e di lebbrosari e un numero crescente di uomini e di donne, appartenenti ai ceti della nuova borghesia, si organizzarono per portare aiuto ai malati, ai condannati a morte, agli abbandonati, ai pellegrini, ai carcerati, ai poveri vergognosi, e così via. E’ l’epoca delle confraternite. Non c’è paese o città in Europa che non ne abbia una o più per far fronte ai bisogni dei poveri, compresa la prevenzione alla povertà con la creazione dei Monte di Pietà.


La povertà perse l’aura sacrale e divenne una questione di ordine pubblico. Se gli umanisti, come Erasmo, Tommaso Moro e Bartolomeo La Casas, cercarono di immaginare un nuovo ordine sociale ove la carità era legata alla giustizia, gli amministratori pubblici iniziarono a emanare leggi per controllare la mendicità. La gestione dell’assistenza passò quasi totalmente alle autorità civili, mentre al sacerdote si affidava la “cappellania” spirituale. Vincenzo de’ Paoli fu il primo a distaccarsene rifiutando di mandare i preti della Missione all’ospedale generale di Parigi per l’assistenza spirituale: “Non so bene – disse – se il buon Dio lo vuole”. Scelse per sé e per i suoi di occuparsi dei poveri andando direttamente nelle loro case. La carità tornava per strada e i poveri erano nuovamente visti come “membra di Cristo” da soccorrere. 


Il Settecento cambiò profondamente lo scenario. Di fronte alla persistenza della povertà, nonostante il grande impegno delle autorità civili per debellarla, si intensificò la riflessione per aggiornare la legislazione. Il Muratori con il volume Della carità cristiana come amore del prossimo, cercò di riproporre al centro dell’assistenza la carità evangelica, ma il termine era ormai ritenuto troppo connotato religiosamente, sebbene Voltaire, annotasse: “Là dove manca la carità, la legge è sempre crudele”. Si iniziò a parlare di “beneficenza” e di “solidarietà”, basandoli sul principio laico della filantropia. Restò famoso il detto: “Al povero che domanda l’elemosina, don Giovanni dona un luigi d’oro non per l’amore di Dio ma per amore dell’umanità”. E Charles Gide chiariva: “Non veniamo a fare il lavoro della carità, ma della solidarietà; la carità degrada, la solidarietà eleva”. La rivoluzione francese proclamò l’inviolabile diritto del cittadino all’assistenza da parte dello Stato e il corrispettivo dovere della società di gestirla con mezzi opportuni. Tuttavia, con l’andare degli anni, l’inefficacia delle istituzioni di beneficenza pubblica fece riemergere la carità cristiana come “la sola diga potente all’invasione del pauperismo”(Armand de Melun). Il dibattito sulla beneficenza e sulla carità si estese ovunque; si pubblicarono 10.000 volumi, nella sola Francia. Frédéric Ozanam fu tra i primi a “riabilitare la carità” come il modo più efficace per risanare la società malata: “Noi, poveri samaritani… osiamo accostarci a questo grande malato (la società)… per ridargli la speranza di un mondo migliore”. “Il nostro aiuto principale – disse ricordando gli inizi dell’opera – non fu quello di soccorrere il povero. No! Questo fu il mezzo soltanto. Il nostro fine fu quello di mantenerci puri nella fede cattolica, e di propagarla negli altri mediante la carità”. Per questo poteva parlare anche del ruolo pacificatore della carità nelle lotte sociali. Nell’Ottocento la carità divenne “sociale”: si concentrò sul mondo operaio ma senza dimenticare quei poveri che operai non erano. Infatti, l’ideologia marxista che fece coincidere i poveri con gli operai portò all’oblio totale dei più poveri. E nacquero per quest’ultimi quattrocento istituti di suore, con più di 200.000 religiose. E poi vennero don Bosco, Cottolengo, Murialdo, don Orione, don Calabria, mons. Scalabrini, Balbo. Con loro la “carità” si specializza. All’assistenza generica (pane e vestititi) si aggiunge quella particolare per i nuovi poveri di allora: ex carcerati, prostitute, alcolizzati, minorati psichici, sordomuti, malati cronici, ragazzi orfani, anziani, emigrati, accattoni.


 


Globalizzare la carità


 


La carità, entrata nel Novecento con un eccezionale dinamismo, allarga immediatamente i suoi confini. Il primo conflitto mondiale se da una parte vede i cristiani, per la prima volta in modo così ampio, stare sui due fronti opposti, dall’altra trova nella carità quell’energia che fa superare i confini per tessere un reticolo di assistenza tra chiunque sia colpito. Iniziano in quest’epoca i primi organismi nazionali e poi internazionali della carità. Essa, nei modi più diversi, fu l’unico fronte ad opporsi alla crescita abnorme dell’anti-carità o quantomeno ad alleviare i drammi provocati dall’affermarsi dei totalitarismi. Una creativa e rischiosa solidarietà unì uomini e donne nei campi di sterminio, nei gulag e ovunque ci fosse persecuzione. Milioni di martiri e di testimoni, noti e ignoti, sostenuti dalla carità hanno opposto resistenza alle degradazioni del nazismo e del comunismo. Nelle innumerevoli tragedie del Novecento, la carità ha scritto, e continua a scrivere, la sua pagina più bella. I confini si sono allargati dall’Europa al mondo intero. I poveri del Terzo Mondo sono ormai nel cuore delle Chiese e di tante altre istituzioni nazionali e internazionali. Giovanni XXIII, affermando che “la Chiesa è di tutti ma particolarmente dei poveri” mostra qual è la scelta preferenziale della comunità cristiana. Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II, su questa linea, divengono i difensori più forti dei poveri e dei loro diritti. La scelta dei poveri si realizza attraverso un esteso reticolo di carità che si estende in ogni parte del mondo. Forse è stata la prima vera globalizzazione, ancor prima di quella del mercato. In ogni caso, questa globalizzazione della carità è la riserva più fresca di energie che l’umanità possa oggi accampare in questo inizio di millennio per contrastare la crescita smisurata degli egoismi e dei particolarismi che continuano a creare violenze e conflitti. La carità, forza che travalica il cristianesimo stesso, come anche le religioni e persino la non credenza, obbliga ad uscire da sé, a scavalcare qualsiasi muro, per andare dove nessuno va e per vivere dove non si vive. La carità non divide i buoni dai cattivi, ma chi vede da chi non vede; chi decide di fermarsi da chi sceglie di continuare sulla propria strada.


L’enciclica di Benedetto XVI riporta l’amore nel cuore della vita dei credenti e della loro testimonianza. Scrive il Papa: “Ad un mondo migliore si contribuisce soltanto facendo il bene adesso ed in prima persona, con passione e ovunque ce ne sia la possibilità”. Ciascuno di noi trova in queste una indicazione chiara e forte per poter testimoniare quell’amore che il Signore ha deposto nel cuore dei suoi figli.