Seconda meditazione per la Quaresima a Santa Maria Maggiore

Seconda meditazione per la Quaresima a Santa Maria Maggiore

Il Vangelo dell’amore


 


 


Dio è amore


 


Quando l’apostolo Giovanni scrive che “Dio è amore” non usa un linguaggio filosofico astratto, intende invece descrivere  l’essere e l’agire di Dio per affermare che è Colui che ama. E il Papa Benedetto, nell’enciclica, accenna a questa dimensione personale di Dio che ama e anche al modo con cui lo attua. Scrive il Papa: “L’unico Dio in cui Israele crede, ama personalmente. Il suo amore, inoltre, è un amore elettivo: fra tutti i popoli Egli sceglie Israele e lo ama, con lo scopo però di guarire, proprio in tal modo, l’intera umanità. Egli ama, e questo suo amore può essere qualificato senz’altro come eros, che tuttavia è anche e totalmente agape”(n.9). La volta scorsa ci siamo fermati a considerare l’originalità dell’agape, l’amore evangelico, che salva anche l’amore umano, l’eros. Questa sera vorrei mostrare, per grandi cenni, la storia di questo amore di Dio per l’uomo come appare dalle Scritture. Ovviamente non possiamo ripercorrere per intero le pagine della Bibbia, le quali tutte mostrano la larghezza e la profondità di questo amore. Ma credo sia importante fermarci su un altro aspetto che qualifica in maniera originale l’amore di Dio, ossia il particolare legame che Dio stabilisce con i più poveri.


C’è una premessa da fare che riguarda l’amore appassionato di Dio per l’uomo che nell’enciclica viene delineato attraverso la compresenza in Dio stesso sia dell’agape che dell’eros. Tale unione – sottolinea il Papa – appare evidente già nei profeti del Primo Testamento. E tra emerge il profeta Osea che ne è il cantore per eccellenza. Egli è il primo a descrivere in maniera esplicita l’amore gratuito e appassionato di Dio per Israele. Un amore che è del tutto inspiegabile. La descrizione che ne fa il profeta mostra un Dio che non può fare a meno di amare il suo popolo, Israele, nonostante che quest’ultimo continui a tradirlo con altri dei. E l’ingiunzione di Dio che costringe il profeta a sposare una prostituta per mostrare visivamente com’è l’amore di Dio per il suo polo, appare davvero incredibile. Ed è struggente l’altra pagina che descrive lo sfogo dello stesso Signore: “Come posso abbandonarti, Efraim, e tradirti, Israele? Il mio cuore vi ripugna e tutto brucia dentro di me! Io non voglio sfogare il furore della mia collera e non voglio annientare nuovamente Efraim. Poiché io sono Dio, non uomo, il Santo in mezzo a te”(11, 7-9). Con queste parole il Primo Testamento raggiunge davvero il vertice dell’idea di amore. Anche di fronte al tradimento di Israele Dio non riesce a tirarsi indietro perché se lo facesse recederebbe dal suo stesso essere. Sì, Dio non può fare a meno di amare gli uomini. Questa è la conclusione che si trae non solo dalle pagine di Osea ma dall’intera Scrittura.


In ogni pagina biblica si mostra il Dio di Israele che “ha tempo” da perdere con l’uomo… tanto che il suo curriculum vitae, per riprendere una frase di Hegel, è appunto il suo pellegrinare nella storia degli uomini quasi che, senza il completamento di questa storia, il suo stesso essere sia “incompleto”. La via amoris, la via dell’amore, la via che sostanzia la storia dell’umanità, prima ancora di essere quella percorsa in salita dagli uomini verso Dio, è quella che Dio stesso percorre in discesa verso gli uomini. Sì, cari amici, la via che Dio percorre è sempre in discesa verso l’uomo. Quella via che da Gerusalemme scende verso Gerico, che l’evangelista luca, farà percorrere dal Buon Samaritano, è in verità la parabola della storia universale: è Dio che scende dalla città del cielo verso quella degli uomini per raccogliere l’uomo mezzo morto lasciato ai margini della vita. Ma questo lo vedremo. Quel che rimane costante è la “inevitabile” discesa di Dio verso l’uomo. Il rabbino Heschel scrive: “Questo è il misterioso paradosso della fede biblica: Dio insegue l’uomo. È come se Dio non volesse rimanere solo e avesse scelto l’uomo per servirlo. La nostra ricerca di lui non riguarda soltanto l’uomo ma anche Dio e perciò non deve essere una questione esclusivamente umana. Il suo volere è coinvolto nei nostri aneliti. Tutta la storia umana, come è descritta nella Bibbia, può sintetizzarsi in una frase: Dio è alla ricerca dell’uomo”(A.J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, Roma 1983, pp. 156-157).


 


Jahve ama tutti a partire dai poveri


 


E li ricerca a partire dagli ultimi proprio perché “Dio è amore”. In effetti, tutte le pagine bibliche mostrano questa predilezione di Dio per i poveri, fin dalla vicenda di Caino e Abele. La preferenza per Abele non nasce da un capriccio di Dio ma, appunto, da questa predilezione per i deboli. Abel infatti vuol dire soffio, debolezza assoluta; più che un nome proprio indica una condizione, appunto, la debolezza, o meglio i deboli. Dio è l’essere perfettissimo nel senso di un amore pieno che non consoce limiti. L’amore comporta la scelta anzitutto dei poveri. Del resto una mamma che certamente ama tutti i figli, non starà più attenta verso quello più debole che ha maggiore bisogno di aiuto? Questo non vuol dire che Dio non è giusto. Al contrario, la vera giustizia nel linguaggio biblico conduce all’amore. E lo si vede fin da quando il popolo d’Israele entrò nella terra Promessa. Dio volle che le famiglie israelitiche avessero tutte parti uguali di terra da coltivare perché non ci fosse tra loro sperequazione. E fu stabilito anche l’obbligo di assistenza reciproca. Il comandamento: “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lev 19,18) va inteso in questa prospettiva. Lo potremmo tradurre così: “ti sentirai responsabile del prossimo, hai dei doveri nei suoi confronti, particolarmente quello di condividere i tuoi beni, perché non ci sia nessun povero nel popolo d’Israele”. L’obbligo della solidarietà non nasceva da una legge astratta ma dalla disposizione divina che non si ripetessero più le ingiustizie patite durante la schiavitù in Egitto. E in effetti al momento dell’insediamento a Canaan non si conosceva la distinzione tra ricchi e poveri.


E quando iniziarono le prime forti diseguaglianze Dio intervenne. Furono promulgate in Israele un numero di leggi (Es capitoli 20-23) per scongiurare la povertà. Al povero si doveva prestare dena­ro senza interesse e se aveva dovuto dare in pegno il suo mantello glielo si doveva restituire prima del tramonto perché non rimanesse esposto ai rigori della notte (Es 22,24-27). Ogni settimo anno inoltre i campi non dovevano più essere arati, né raccolte le olive, né potate le viti, affinché i poveri potessero liberamente nutrirsi dell’intero raccolto di quel­l’anno «sabbatico» (Es 23,10-11). E chi, a causa dei debi­ti, si era venduto come schiavo doveva ritrovare la libertà entro sei anni senza dover pagare alcun compenso. In ogni caso il Signore si presentava come il difensore dei deboli e dei poveri. Il salmista cantava: “Dio rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati; il Signore libera i prigionieri, il Signore ridona la vista ai ciechi, il Signore rialza quanti sono caduti, il Signore ama i giusti. Il Signore custodisce gli stranieri, sostiene l’orfano e la vedova, mentre sconvolge la via degli empi”(Sl 146, 7-9).

L’ungo tutta la storia d’Israele Dio appare come il giudice giusto e per questo difensore dei deboli. Quando verso la fine del secondo millennio a.C. crebbe ancor più il numero dei poveri senza che alcuno li difendesse furono i profeti ad alzare la loro voce contro i ricchi oppressori. Basti pensare al profeta Amos che fu tra i critici più risoluti contro la dissolutezza dei benestanti che dimenticavano i poveri o peggio ancora li opprimevano. Note sono le sue invettive contro i costumi rilassati dei ricchi insensibili alle sofferenze dei poveri: «Ascoltate queste parole, o vacche di Basàn, che siete sul monte di Samaria, che opprimete i deboli e schiacciate i poveri»(Am 4,1). Durissimo l’attacco contro la frode negli affari: «Ascoltate questo voi che calpestate il povero e sterminate gli umili del paese, voi che dite: quando sarà passato il novilunio e si potrà vendere il grano? E il sabato, perché si possa smerciare il frumento, diminuendo le misure e aumentando il siclo e usando bilan­ce false, per comprare con denaro gli indigenti e il povero per un paio di sandali?»(Am 8,4-5). Violentissime furono le accuse contro un culto che non andava di pari passo con la giusti­zia sociale. Il denaro guadagnato a danno dei poveri e degli indifesi e l’ostentazione del lusso avevano fatto perdere a Israele il significato stesso del servizio di Dio e del culto: «Io odio le vostre feste, non mi fanno piacere le vostre solen­nità» (Am 5,21).


Molte altre disposizioni vennero prese anche in seguito. E l’intento era sempre lo stesso: instaurare in Israele una vera fraternità. La terra infatti era di Dio e Dio l’aveva data al suo popolo in maniera che non ci fossero sperequazioni. La terra era distribuita in maniera sufficiente per tutti. La povertà che via via si manifestava era quindi non solo ingiustificata ma soprattutto violava l’intenzione stessa di Dio che liberando Israele dall’Egitto voleva abolire ogni sperequazione. Pertanto, non condividere con il povero quello che si possedeva costituiva un’ingiu­ria a Dio stesso prima ancora che una ingiustizia contro il povero. Non a caso un antico rituale ebraico riporta questa esortazione: «Ri­cordati che tu hai mangiato il pane della miseria che i nostri padri hanno mangiato quando hanno lasciato l’Egitto! Che tutti quelli che hanno fame vengano e mangino, e che ognu­no di quelli che hanno bisogno celebri la Pasqua con noi!».


 


Gesù e i poveri


 


La predilezione di Jahvè per i poveri e i deboli trova in Gesù di Nazareth la sua piena realizzazione. E appare evidente sin dall’inizio del suo ministero pubblico nella sua prima predica nella sinagoga di Nazaret. Gesù lesse il passo della profezia della Consolazione di Isaia (61, 1): “lo Spirito del Signore è sopra di me… e mi ha mandato ad annunziare ai poveri un lieto messaggio,per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista,per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore”. E aggiunse: “oggi, si è adempiuta questa Scrittura” (Lc 4,16-21). L’amore di Dio giungeva al suo culmine. E il culmine si manifestava a partire dall’attenzione ai più deboli. Il Regno dei cieli è reso visibile attraverso l’amore per i poveri. Gesù lo ripete agli inviati del Battista: “Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella” (Lc 7, 22). Non è una notizia astratta, non è una nuova dottrina. È la realtà di prigionieri che sono liberati, di ciechi che sono guariti, di storpi che vengono risollevati. E questo appare in tutte le pagine evangeliche: Gesù è sempre attorniato da poveri e da malati. E gli evangelisti notano la festa che questi facevano quando incontravano Gesù. Sì, facevano festa. Erano “felici”, “beati”. Ma ditemi? Erano felici perché erano poveri? Erano beati perché piangevano? No, erano beati perché il Messia si era messo dalla loro parte: li accoglieva, li guariva, li amava. Essi che sino ad allora dovevano ricorrere all’accattonaggio e che per di più sentivano la vergogna sociale derivante dalla concezione che legava la malattia e la povertà al peccato personale, finalmente avevano trovato l’amico, il salvatore. Le beatitudini vanno intese in questo contesto: i poveri sono beati non perché sono poveri o perché hanno dei meriti particolari, ma perché Dio si è messo dalla loro parte per porre fine ad ogni tipo di povertà, di malattia, di debolezza. E Gesù, che curava e guariva i malati, che aiutava i poveri e li sosteneva, ne era la manifestazione.


 


L’amore di Dio e del prossimo 


 


Nel Vangelo dell’amore Dio e il prossimo si incontrano. Gesù, rispondendo alla domanda del dottore della legge su quale fosse il primo dei comandamenti, rispose: “Il primo è: Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l’unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c’è altro comandamento più importante di questo” (Mc 12, 28-31). Gesù fa dei due comandamenti uno solo, tanto da dire al termine della sua esposizione: “non c’è altro comandamento più importante di questo”. La novità evangelica sta quindi nel “completare” in maniera piena quel che era già suggerito nel Primo Testamento, ossia l’identificazione tra l’amore per Dio e l’amore per il prossimo, e nel porre tale comandamento al di sopra di tutta la Legge.


Tale identificazione non sminuisce ovviamente l’uno o l’altro dei due termini, ma li vede interdipendenti. L’amore per il prossimo nasce da quello di Dio, come scrive Paolo: “L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo che ci è stato dato” (Rm 5,5). E Maksim, uno spirituale russo, diceva: «Il discepolo di Cristo deve vivere unicamente per il Cristo. Quando amerà Cristo a tal punto, non potrà fare a meno di amare anche tutte le creature di Dio. Gli uomini credono che bisogna amare prima gli uomini e poi Dio. Ho fatto così anch’io, ma non serve a niente. Quando invece ho cominciato ad amare Dio in primo luogo, in questo amore ho trovato il mio prossimo, in questo amore anche i nemici sono diventati miei amici e creature divine». Le parole di questo russo chiariscono bene la gerarchia dell’amore. Quello verso Dio ha il primo posto, perché è la fonte da cui tutto deriva. Il credente deve rivolgere a Dio il suo cuore, la sua mente e il suo sguardo, e abbeverarsi continuamente alle Sacre Scritture per apprendere il succo buono dell’amore. Chi ha il cuore pieno di Dio si innamora immediatamente dell’uomo: è la lezione che Gesù stesso ha mostrato con le sue parole e con la sua stessa vita. Chi ama Dio Padre non può non amare i suoi figli, privilegiando i più poveri e i più deboli.


Se è inequivocabile il primato di Dio nell’insegnamento di Gesù, tuttavia appare anche evidente che non si può amare Dio senza amare anche il prossimo. La dimensione verticale infatti contiene al suo stesso interno quella orizzontale, senza che si confondano. L’amore per Dio e l’amore per il prossimo si richiamano vicendevolmente: l’uno autentica l’altro. L’amore per il prossimo è la prova concreta della autenticità dell’amore per Dio, come scrive l’apostolo Giovanni: “Nessuno ha mai visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi… Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1Gv 4,12-16). Sono due amori distinti ma non separabili. Del resto, la fraternità è riconoscibile solo se si comprende una precedente paternità, come scriveva Simone Weil: “L’amore per il prossimo è l’amore che scende da Dio verso l’uomo. E’ anteriore di quello che sale dall’uomo verso Dio. Dio è ansioso di scendere verso gli sventurati. Non appena un’anima, fosse anche l’ultima, la più miserabile, la più deforme, è disposta ad acconsentire, Dio si precipita in lei per poter guardare e ascoltare gli sventurati tramite suo. Solo col tempo l’anima si accorge di questa presenza. Ma, anche se non trovasse la parola per esprimerla, Dio è presente ovunque gli sventurati sono amati per se stessi” (Simone Weil, L’amore di Dio, Borla, Roma 1979).


 


È l’ora dell’amore


 


Con questa enciclica Benedetto XVI vuole richiamare il primato dell’amore nella vita della Chiesa. Quel primato che già Paolo VI reclamava nella sua prima enciclica Ecclesiam suam, con le cui parole vorrei chiudere questa riflessione. Scriveva Paolo VI nella sua appassionata enciclica programmatica: “Noi pensiamo, con i Nostri Predecessori, con la corona di Santi che l’età nostra ha dato alla Chiesa celeste e terrestre, e con l’istinto devoto del popolo fedele, che la carità debba oggi assumere il posto che le compete, il primo, il sommo, nella scala dei valori religiosi e morali, non solo nella teorica estimazione, ma altresì nella pratica attuazione della vita cristiana. Ciò sia detto della carità verso Dio, che la sua carità riversò sopra di noi, come della carità che di riflesso dobbiamo effondere verso il nostro prossimo, vale a dire il genere umano. La carità tutto spiega. La carità tutto ispira. La carità tutto rende possibile. La carità tutto rinnova. La carità tollera tutto, crede tutto, spera tutto, tutto sopporta. Chi di noi ignora queste cose? E se le sappiamo, non è forse questa l’ora della carità?” (n.58).