Sulla tragedia di Arrone
Hanno voluto provare l’ebbrezza del salto nel vuoto. Era questo il ritornello che scandiva le prime pagine dei giornali nazionali di venerdì scorso nel narrare la vicenda dei due giovani fidanzati che hanno trovato la morte con il “bungee jumping”. Per una tragica ironia, la morte è avvenuta proprio a Terni, la città di san Valentino, patrono degli innamorati. E davvero tutti ci sentiamo stringere il cuore pensando ai due giovani i quali dopo essersi abbracciati e baciati sono andati, ignari, incontro alla morte. So che qualcuno potrebbe dire che se la son voluta. Per di più – potrebbe continuare il freddo e crudele ragionatore – hanno insistito per effettuare il volo anche dopo la chiusura. Ma basta dire questo? Non è, ancora una volta, un inaccettabile tranquillizzante delle nostre coscienze per continuare indisturbati la nostra vita tranquillamente dopo questo incidente di percorso? E giusto che la magistratura indaghi e verifichi le responsabilità. Ma c’è un aspetto di questa tragica vicenda che ci riguarda tutti. Se è vero che i due giovani hanno insistito, è anche vero che decine e decine di giovani prima di loro hanno voluto provare la stessa emozione. Eccolo il problema: provare l’emozione. E se si pensa all’aumento dei cosiddetti “sport estremi” la domanda sul senso di queste emozioni forti si fa ancor più seria. Anzi si trasforma in un interrogativo pressante: che tipo di società è questa che spinge giovani normali, normali come tanti, a scegliere situazioni pericolose, estreme, pur di avere emozioni forti? E ancora: è possibile che per avere sentimenti forti si debba ricorrere a forme così estreme? Agli “sport estremi” sono poi da aggiungere lo “sballo” del sabato sera, l’alta velocità fuori dei circuiti appositamente attrezzati, e così oltre. Insomma, non possiamo non chiederci: la società nella quale viviamo non ha altro modo per suscitare emozioni o per dare felicità? Forse dobbiamo riconoscere che stiamo rischiando di costruire una vita piatta e senza più emozioni vere, e che la felicità è divenuta solo la ricerca ossessiva della propria privata soddisfazione. Insomma si vive tutto al ribasso, compresi i sentimenti e le passioni. La vita è come senza colori. C’è un grigio che si diffonde su tutto, anche sulla felicità. Ecco perché si può sentire il bisogno di cercare altrove qualche brivido o almeno uno “sballo”. In una società ricca, tranquilla e consumista, com’è la nostra, ove è bandito lo spazio mentale per l’altro e per quanto va oltre se stessi e le proprie preoccupazioni, la felicità diviene un’aspirazione rassegnata, mediocre, come del resto la gran parte dei sentimenti. La felicità viene scambiata per tranquillità e benessere per sé, da ottenere subito e a qualsiasi costo, fosse anche quello di distruggere chi ostacola il cammino. Qualsiasi altra idea di felicità che non sia il benessere per sé fa paura, fa timore. Tutti la fuggono. Per questo mi chiedo se da questo nostro mondo, nel quale prevale l’esaltazione di se stessi, la felicità non sia scomparsa dall’orizzonte comune, e non resti solo il fascino dell’estremo. Ma l’unico estremo che può fermentare la nostra società è il Vangelo. Per il Vangelo la felicità è il contrario del benessere individuale, della filautia, ossia dell’amore per se stessi. Essa si misura non su di sé, sulla propria soddisfazione o sul proprio benessere, ma sull’utopia dell’amore. In un tempo così scarico di tensioni, la felicità evangelica diventa una proposta piena, eccessiva. Ma forse è di questo eccesso che c’è bisogno.