La Pentecoste
La Pentecoste – in genere poco considerata anche tra i cristiani – segna in verità l’inizio della Chiesa. In quel giorno (ne erano passati 50 dalla Pasqua) i discepoli di Gesù diedero inizio ufficiale, se così si può dire, alla predicazione del Vangelo nel mondo. L’autore degli Atti degli Apostoli, infatti, nel riportare l’episodio nota che davanti la porta del cenacolo vi erano persone provenienti da “ogni nazione che sta sotto il cielo”. Tra le numerose le riflessioni che si possono trarre da questo singolarissimo evento, una mi pare importante: il rapporto tra la comunità cristiana (la Chiesa) e la città degli uomini. E’ noto il dibattito che più volte in Italia è stato sollevato circa la compatibilità tra federe religiosa e democrazia, quasi che la prima debba escludere la seconda. Tra i laici più attenti, ad esempio, parte il suggerimento ai credenti di comportarsi nella società “etsi Deus non daretur” (come se Dio non ci fosse). Lascio ad un altro momento l’approfondimento di questo aspetto, per fermarmi solamente a qualche riflessione più generale. Lo spunto lo prendo dal grande vescovo di Costatinopoli, Giovanni Crisostomo il quale aprendo l’omelia di Pentecoste diceva: “Eccoci, oggi, arrivati alla pienezza di tutti i beni, eccoci giunti alla metropoli delle solennità”. E’ significativa l’espressione di “metropoli” riferita alla Pentecoste, o meglio alla Gerusalemme del giorno di Pentecoste. E’ comune, nella tradizione spirituale cristiana, contrapporre Gerusalemme all’altra metropoli veterotestamentaria, Babilonia. In quest’ultima, narra il libro della Genesi, gli uomini pur parlando la stessa lingua e pur avendo lo stesso progetto, non si compresero più e la città divenne luogo di divisioni, di opposizioni e di violenze. Una “Babele”, appunto. A Gerusalemme, invece, nel giorno di Pentecoste accadde il contrario: gli uomini, pur provenendo “da ogni nazione che sta sotto il cielo”, compresero lo stesso Vangelo annunciato nelle diverse lingue. Per questo Gerusalemme è divenuta il simbolo della città futura, la città dell’armonia e della pace. E’ ovvio chiedersi quale sia il rapporto tra Babele e Gerusalemme, tra la città del presente e la città del futuro. La risposta sintesi potrebbe essere: né identità, né esclusione, bensì feconda tensione. Credo che all’interno di questa dialettica debba esser posto il dibattito tra fede cristiana e impegno per la città degli uomini. Oggi la tensione tra le due città o, se si vuole, tra fede e politica (ma non solo), chiede di essere riaffrontata. E le narrazioni bibliche almeno qualche spunto lo offrono. Come, ad esempio, non vedere in Babele l’immagine della condizione caotica del mondo contemporaneo che non riesce a darsi un nuovo ordine mondiale, al punto da ricadere in pericolosi frazionismi? E, dall’altra, come non scorgere nella Pentecoste quel futuro di unità e pluralità che potrebbe definire le linee dell’impegno per una nuova organizzazione della società? Il futuro del mondo non somiglia a quella immagine di convivenza e di tolleranza tra diversi? A Babele un progetto comune e un’unica lingua diventarono principio di divisione; a Gerusalemme lo Spirito donato agli apostoli realizzò un’unità che non annullava la pluralità delle lingue e delle nazioni. Nella storia del Novecento l’idea di un nuovo ordine mondiale ha rappresentato un motivo ricorrente che ha appassionato gli spiriti più attenti. Purtroppo gli venti di fine secolo hanno come neutralizzato le possibilità di influenza delle grandi organizzazioni sopranazionali. All’inizio di questo nuovo secolo le ragioni delle singole nazioni o delle singole etnie (e così oltre) sembrano prevalere anche a costo di immani tragedie. La globalizzazione appare relegata al solo mercato, e l’unica superpotenza non trova contrappesi adeguati. La situazione, che per un verso si è semplificata, dall’altra è divenuta più complessa e non priva di pericoli. In tale contesto il compito dei cristiani si è fatto anch’esso complesso. Essi debbono rifuggire dalla tentazione di presentare un programma organico per l’edificazione di un nuovo ordine mondiale, come pure di progetti univoci per la costruzione della città terrestre. Se come cittadini, i cristiani non possono e non debbono disinteressarsi dei programmi e delle proposte che nella “polis” vengono formulate, riuniti nella comunità dei discepoli del Signore, loro responsabilità primaria appare quella di farsi espressione della voce dello Spirito, ossia portatori di una energia spirituale che, appunto, ispira e sorregge senza pretese dogmatiche nel campo civile. Questo porta a dire che i cristiani debbono abbandonare arroccamenti e chiusure, e immergersi nella vita della “polis” anche rischiando scelte e mediazioni parziali, ritrovando però, almeno in alcuni ambiti, unità di ispirazione e di intenti che offrano un’anima alla società. Le città moderne, necessariamente pluraliste, debbono trovare nei cristiani operatori di pace e di giustizia che sanno seminare l’utopia della Gerusalemme di Pentecoste. La festa della Pentecoste spinge perciò i cristiani a riscoprire la necessità e l’urgenza dell’impegno per la costruzione della società terrena, avendo tuttavia presente il sogno di quella futura.