Stare insieme è difficile ma inevitabile

Stare insieme è difficile ma inevitabile

Valori e regole del dialogo interreligioso, vera scommessa del XXI secolo

Il tema è tra quelli cruciali di questo inizio di millennio. E, senza alcun dubbio, è necessario che il dialogo trovi più ampio spazio nella riflessione e nel dibattito. Tutti i campi ne sono coinvolti, da quello culturale a quello religioso e a quello politico. Se solo si considera l’accelerazione che stanno subendo le relazioni tra gli uomini, tra i popoli, tra le culture, tra le fedi, il dialogo appare non solo auspicabile ma addirittura indispensabile. Anche solo un superficiale sguardo ai conflitti che tormentano lo scenario internazionale, i quali peraltro vanno di pari passo con l’acuirsi delle chiusure e dei ripiegamenti delle diverse identità su se stesse, spinge ad accelerare il passo nella direzione del dialogo. L’alternativa al dialogo appare essere quel “conflitto di civiltà” che uno studioso come Samuel P. Huntington prospetta come l’orizzonte verso il quale ci stiamo dirigendo. In ogni caso, la dialettica tra identità e dialogo resta una delle frontiere cruciali del Ventunesimo secolo. E si deve riconoscere che anche in questo campo Giovanni Paolo II ha offerto un contributo del tutto peculiare. Ricordo solo uno dei suoi ultimi, sorprendenti gesti: dopo essere stato il primo Papa della storia entrato in una sinagoga (a Roma) è anche il primo che è entrato in una moschea (a Damasco). La brevità dello spazio non permette un’analisi più dettagliata di questa complessa problematica; mi limiterò a qualche spunto di riflessione. Esistenza dialogale. Premetto anzitutto che il dialogo non va inteso come una tattica o una strategia di comportamento. Il dialogo di cui c’è bisogno è uno stile di vita, un modo di concepire l’esistenza sino a farla divenire tutt’intera una “esistenza dialogale”. Solo in questa prospettiva è possibile far crescere la convivenza tra gli uomini e forse farla sopravvivere. Tornano drammaticamente attuali le parole pronunciate da Martin Buber nel 1929: “In Palestina, noi non abbiamo mai vissuto con gli arabi, ma accanto a loro. La coabitazione di due popoli sulla stessa terra diviene fatalmente opposizione, se non si sviluppa nella direzione di un essere-assieme. Nessun cammino permette di tornare a una pura e semplice coabitazione. È invece ancora possibile incamminarsi verso lo “stare assieme”, anche se numerosi ostacoli si sono accumulati su questa via”. Queste parole le pronunciò davanti a un uditorio di personalità sioniste, a Berlino, pochi giorni dopo che decine di ebrei erano stati barbaramente massacrati da alcuni arabi a Hébron. Ma si possono applicare anche ai Balcani, all’Irlanda del Nord, alla Turchia, al Ruanda e al Burundi, e a tante altre regioni del mondo. Il dialogo inteso non semplicemente come un metodo nel rapportarsi tra le persone, tra i popoli e tra le nazioni, ma come un modo di vivere e quindi di relazionarsi, ha una forza indiscutibile. Si potrebbe dire che sprigiona da sé un’energia virtuosa perché sgorga dal di dentro del cuore degli uomini. Con grande sapienza Buber notava: “I sentimenti si hanno, l’amore è un fatto che si produce”. Il dialogo così inteso fa crescere l’amore e quindi la comprensione tra i diversi. Ed è ovvio che si tratta di una dimensione o, se si vuole, di un’opera che richiede pazienza e saggezza, fermezza e tolleranza, curiosità e ricerca.
Verità dialogica. La prospettiva di una “esistenza dialogica” invita a pensare in modo più ricco la stessa verità. Non mi addentro nel dibattito teorico sulla verità, che traversa l’intero pensiero occidentale. Ma forse proprio questa complessa e feconda tradizione filosofica, che alcuni indicano con il riferimento ad Atene per sottolinearne l’origine ellenica, può essere arricchita dall’incontro con la tradizione semita, che già Lewit legava idealmente a Gerusalemme. L’invito è quello di arricchire Atene con l’apporto di Gerusalemme. Il “sentire” semita, infatti, con la sottolineatura del versante dinamico, può arricchire la sponda ellenica della concezione della verità. Per la tradizione semita la verità non è solamente lo svelamento dell’essere, ma anche il farsi dell’essere nella storia. Michel de Certeau, a tale proposito, scrive: “La verità cambia statuto, cessa poco a poco di essere ciò che si manifesta, per divenire ciò che si produce, e acquisisce così una forma scritturistica”. Si potrebbe perciò parlare non solo di “esistenza dialogica” ma anche di “verità dialogica”, ossia di una verità che è assieme ferma e flessibile, una e plurale, che fa emergere la sua complessità, i suoi variegati volti, attraverso il dialogo. Ogni singola identità, pertanto, deve riconoscersi plurale fin nelle proprie radici. E questo comporta accettarsi come esseri abitati da una vita di cui lo scambio è la manifestazione primaria. La stessa parola è sempre dia-logale. Una parola mono-logale, che non entra in relazione con le altre, si isterilisce e perde il suo stesso statuto relazionale. Al contrario, la parola dia-logale, anche se rischia di perdere i suoi confini essendo tirata da molte parti, non si dissolve, anzi si arricchisce. Le diverse identità sono perciò costrette a una complementarietà ricca e fruttuosa perché l’apertura all’altro obbliga a ridefinirsi costantemente. Lo stesso cristianesimo, ad esempio, in certo modo, cresce come pensiero interreligioso, proprio perché la sua delimitazione richiede il riconoscimento dei confini altrui. Insomma, nessuna identità è possibile senza il confronto e il dialogo con le altre.
Dialogo a ogni costo? Da quanto detto appare evidente che non c’è alternativa al dialogo. Ma questo non significa un appiattimento generale. Credo, tuttavia, che il dialogo è la via (l’unica?) che può far passare indenni tra il fondamentalismo e l’irenismo. Nel dialogo c’è, ovviamente, l’attitudine a sottolineare ciò che unisce, come amava ripetere Giovanni XXIII. Ma questo non significa dimenticare le differenze; le quali vanno fatte emergere, ma anche comprese. Tale attitudine dialogica permette di sentire la propria identità non “contro” ma in un rapporto positivo con gli altri. Del resto, sappiamo bene che ogni totalitarismo religioso trova la sua radice nel cuore di chi si sente talmente gratificato della pienezza della verità da non avere più il bisogno dell’altro o comunque da non avvertirne la mancanza. In questi casi il dialogo non solo non viene praticato ma è addirittura sentito come un pericolo e quindi, da parte di costoro, assolutamente escluso. Dialogare è necessario, ma non al di fuori di regole che vanno rispettate. Thomas Merton, un monaco che ha vissuto gli ultimi anni della sua vita sulla frontiera del dialogo interreligioso, parla provocatoriamente di peccati capitali nel dialogo interreligioso e tra le “cattive strade” ne indicava le seguenti: l’accettazione di un facile sincretismo, l’assenza di uno scrupoloso rispetto delle differenze, e dare più peso di quello che hanno alle questioni culturali e istituzionali. Un dialogo ben condotto è a un tempo riconoscimento e presa di distanza dalla pluralità del mondo. Merton, il giorno stesso della sua morte, diceva: “Noi accettiamo la divisione, collaboriamo con la divisione e superiamo la divisione”. Conosceva bene le difficoltà di tale cammino e aggiungeva: “Sono convinto che un’atmosfera di pazienza orientale debba prevalere sull’impaziente passione occidentale di ottenere risultati immediati e visibili”.
Identità e dialogo. Il dialogo non è rinuncia alle proprie convinzioni e tanto meno tolleranza acritica al male e alle ingiustizie. La fede religiosa sa, e deve, combattere e contrastare i sepolcri imbiancati e coloro che contrabbandano le loro opinioni personali come parole rivelate. Per il credente il dialogo si fonda sulla convinzione che in ogni uomo vi è il “sigillo” di Dio e il suo animo è ben più complesso e ricco della sua ideologia di riferimento. Uno dei punti più innovativi dell’enciclica Pacem in Terris di Giovanni XXIII fu appunto la distinzione tra l’errore e l’errante. E proprio su questo passaggio del testo papale si basarono i tentativi di incontro tra appartenenti a diverse ideologie. L’uomo non cade mai totalmente nell’abisso dell’errore totale ed è perciò sempre possibile un suo recupero. Su tale convinzione, ad esempio, si basa l’avversione alla pena di morte. E forse qualcosa di analogo è possibile dire anche sulla presunta ineluttabilità della guerra. Non mi addentro nell’analisi teorica sulla guerra giusta o ingiusta. Giovanni Paolo II ammette che c’è stata nella Chiesa una maturazione in questo campo: “Oggi dobbiamo essere grati allo spirito di Dio, che ci ha portati a capire sempre più chiaramente che il modo appropriato e insieme più consono al Vangelo, per affrontare i problemi che possono nascere tra i popoli, religioni e culture, è quello di un paziente, fermo quanto rispettoso dialogo”. Qui forse c’è uno scarto tra fede laica e fede religiosa. L’accenno appena. Per la ragione laica a volte la guerra è l’unico mezzo a disposizione e va quindi usato senza tentennamenti. Per la fede vi è sempre una risorsa in più, un supplemento di fiducia nell’uomo, in qualsiasi uomo, in qualsiasi popolo. La divaricazione nasce dalla diversa concezione dell’uomo e quindi dai diversi modi di risolvere gli eventuali problemi che sorgono nella convivenza tra gli uomini. È in questa dinamica che Paolo VI scrisse la sua prima enciclica (Ecclesiam suam) per mettere in rapporto diretto la Chiesa con tutti, con le altre confessioni cristiane, con le altre religioni e con i non credenti. La Chiesa cattolica contemporanea, con la svolta “dialogica” del Vaticano II, ha posto se stessa, e in modo ormai irreversibile, sulla frontiera del dialogo. La Chiesa preserva la sua identità non rinchiudendosi nei propri confini, ma aprendosi alle complesse frontiere della storia. In tale contesto, ad esempio, l’annuncio (strettamente legato alla propria identità) e il dialogo vanno tenuti assieme. L’uno non esclude l’altro. Al contrario, essi si intrecciano e in certo modo si contengono a vicenda. Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris Missio scrive: “Il dialogo inter-religioso fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa. Inteso come metodo e mezzo per una conoscenza e un arricchimento reciproco, esso non è in contrapposizione con la missione ad gentes, anzi ha speciali legami con essa e ne è un’espressione”. E aggiunge: “Questi due elementi debbono mantenere il loro legame intimo e, al tempo stesso, la loro distinzione, per cui non vanno né confusi, né strumentalizzati, né giudicati equivalenti come se fossero interscambiabili”. In ogni caso il dialogo appare come uno degli elementi integranti della missione evangelizzatrice della Chiesa cattolica. Tra le “icone” più chiare di questa dimensione si può porre l’incontro interreligioso di Assisi del 26 ottobre 1986. In quella occasione Giovanni Paolo II radunò tutti i responsabili delle grandi religioni mondiali per pregare per la pace. La Comunità di sant’Egidio ne ha come raccolto l’eredità riproponendolo ogni anno come momento di confronto e di crescita reciproca. È apparso sempre evidente in questi incontri che un dialogo vero è possibile solo attraverso il riconoscimento profondo della propria e dell’altrui identità.

da “Liberal”