Seconda catechesi a Colonia
Vivere nel mondo come veri adoratori di Dio
“Per un’altra strada fecero ritorno al loro paese”(Mt 2,12)
Cari amici,
scrive l’evangelista Matteo: “Avvertiti poi in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese”(Mt 2, 12). Dopo l’incontro con Gesù, se questo è autentico, non si è più come prima. Per questo si percorrono strade diverse. A volte si tratta di strade e di impegni davvero altri rispetto a quelli che si avevano prima. Accadde a Paolo, a san Benedetto, a San Francesco e a tanti altri. E comunque anche se si percorrono le stesse strade è diverso il modo di percorrerle perché si hanno occhi nuovi, sì ha un cuore nuovo si hanno sentimenti nuovi. È questo il senso del “tornare per un’altra strada”. L’avvertimento dato ai magi non riguardava però la loro tranquillità; non era un avvertimento per loro ma ne avevano ugualmente bisogno. A Gerusalemme infatti sarebbero stati accolti con tutte le attenzioni. L’avvertimento di “Tornare per un’altra strada” per loro significava salvare quel bambino dalla violenza di Erode. Per noi vuol dire salvare i tanti piccoli, i tanti poveri che sono minacciati dalla violenza degli Erode di questo mondo. Potremmo dire che l’altra strada che furono esortati a percorrere i magi è la stessa che percorreva il buon samaritano della parabola evangelica. Essi assieme a Gesù dicono oggi a ciascuno di noi “Va, e anche tu fa lo stesso”.
La disumanità della guerra
In effetti in quel bambino di Betlemme sono raccolti tutti i poveri e i deboli lasciati mezzi morti ai bordi delle strade di questo mondo dalla violenza degli Erode di turno: sono gli anziani soli, i malati, i carcerati, i bambini violentati, i profughi, i condannati a morte, i malati di AIDS, gli affamati, i senza casa, gli immigrati, e la lista potrebbe continuare a lungo. Non possiamo ora descrivere la drammatica situazione in cui il mondo si trova, ma un cenno almeno dobbiamo farlo per evitare di essere come quel sacerdote e quel levita che passano oltre i drammi che colpiscono tanta gente, tanti popoli e che si possono facilmente evitare, magari facendo zapping… Come possiamo non pensare all’alto numero di guerre ancora aperte nel mondo? E sappiamo anzi che la guerra rende poveri tutti, anche i ricchi: davvero è la madre di tutte le povertà e la scuola di tutte le disumanità. Pensate che nel decennio tra il 1990 e il 2000 le guerre hanno provocato cinque milioni di morti e sei milioni di feriti. E dei cinque milioni di morti, due milioni erano bambini. Altro che Erode! È una triste realtà che continua a avvelenare la vita di tanti popoli sino a renderli disumani. Oggi si calcolano ben 28 guerre aperte e 14 congelate.
Con l’aiuto di armi terribili, tanti possono fare la guerra o servirsi della violenza. E’ una caratteristica del nostro tempo: gruppi, etnie, mafie, singoli associati… tanti possono fare la guerra, divenuta ormai uno strumento normale per risolvere le controversie. E si fa troppo poco per bloccarle e per scongiurarne altre. Questo, cari amici, manifesta quanto sia basso il livello di umanità. E sappiamo che la violenza genera sempre violenza sino a che non diventa una stabile compagna della vita sociale. La mentalità di Erode oggi si può identificare anche con la facilità con cui si accetta la guerra come un’inevitabile compagna della vita umana. E per costoro il problema non è la pace, ma come difendersi o, magari, come attaccare preventivamente. Si cambia anche il nome e si parla di “guerra preventiva” e persino di “guerra umanitaria”, come se ci potesse essere umanità nell’uccidere i fratelli. Proprio nel cuore degli anni Novanta si è affermata la teoria dello scontro di civiltà e di religione. Si ritiene che tale scontro sia inevitabile. In verità i conflitti del nostro mondo sono più complicati che quelli tra civiltà o religioni: spesso sono all’interno della stessa civiltà. E le semplificazioni sono comode per chi non vuol pensare, per chi vuol vedere nemici al di là delle frontiere: utili a chi coltiva la violenza. E si accusa di ingenuità chi parla di umanesimo, di dialogo, di amore, di amicizia, di pace. Quante volte Giovanni Paolo II è stato giudicato ingenuo dai potenti della terra perché cercava di bloccare la guerra!
La globalizzazione non ha creato un mondo cosmopolita in cui le differenze sono annullate, anzi ha fatto riemergere le identità nazionali, etniche, religiose, le quali spesso si contrappongono le une alle altre. Ed ecco nascere il fondamentalismo, un fenomeno tipico del ristrutturarsi delle identità nel clima della globalizzazione. La rinascita delle identità forti ha portato a nuovi razzismi, a nuovi etnicismi e nazionalismi. Ma è anche vero che gli uomini della globalizzazione si assomigliano sempre più. Nonostante i nostri conflitti, le nostre inimicizie secolari, ogni giorno che passa riduce sempre più le nostre differenze e accresce un pò di più le affinità tra i diversi continenti. Un manifesto tedesco qualche tempo fa ironizzava: “Il tuo Cristo è ebreo. La tua macchina è giapponese. La tua pizza è italiana. La tua democrazia è greca. Il tuo caffè è brasiliano. La tua vacanza è turca. I tuoi numeri sono arabi. Il tuo alfabeto è latino. Solo il tuo vicino è straniero…”. La globalizzazione certamente annulla tante differenze, ma rafforza anche il senso dello straniero e del nemico. E la teoria del conflitto di civiltà finisce per essere una comoda e facile giustificazione dei conflitti e della stessa guerra. E la maggioranza si rassegna ad un mondo che vive in un conflitto permanente.
In questi molti anni si è aggiunto poi il drammatico fenomeno del terrorismo e della violenza di ogni tipo. Il ricorso alla violenza e al terrorismo è divenuto un modo abituale per far valere i propri diritti o far sentire la propria esistenza. Con l’11 settembre 2001 e i successivi attentati, tutti siamo minacciati dal “cancro” del terrorismo internazionale, un fenomeno che si fonda sul disprezzo della vita dell’uomo e che si presenta come una rete organizzata di connivenze politiche, economiche e finanziarie che travalica i confini nazionali e si allarga al mondo intero. Tutti sperimentiamo con intensità nuova la consapevolezza della vulnerabilità personale e guardiamo al futuro con un senso di forte incertezza e paura. E’ ovvio che il terrorismo deve essere stroncato, con decisione e alla radice. Ma come si può cambiare strada? C’è bisogno di un sogno, e il sogno si chiama: vangelo della pace. C’è bisogno di una nuova visione del mondo, di una nuova volontà di pace, di un impegno a non pensare solo ai propri destini nazionali, sapendo che il destino personale di ciascuno è ormai legato a quello dell’intero pianeta. Ecco perché alla disumanità della guerra e del conflitto – l’antico Erode non ha pochi eredi! – i cristiani debbono rispondere con un altro linguaggio, quello della pace. E’ qui il modo di vivere che esprime il tornare per un’altra strada. Noi cristiani l’abbiamo ricevuta dal vangelo siamo chiamati a percorrerla e ad indicarla anche agli altri.
Il Vangelo della pace
Cari amici la nostra risposta ai conflitti e alle guerre sta nel proclamare e nel vivere il Vangelo della pace. Alla comunità cristiana infatti è stata data un’eredità di pace; gliel’ha data il Signore Gesù quando disse ai suoi discepoli: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo io la do a voi” (Gv 14, 27). E’ il Vangelo della pace, quel Vangelo che spesso viene umiliato dagli stessi discepoli quando soccombono alla paura, o quando si lasciano sorprendere dalla violenza o dai disegni di guerra o dalle sapienze strategiche di questo mondo. La pace di cui parla il Vangelo è certamente assenza di guerra, assenza di violenza e di sopraffazione; ma è molto di più: è Gesù stesso. Egli è la nostra pace, come scrive l’apostolo Paolo agli efesini: “Egli infatti è la nostra pace” (2, 14). La pace, per i cristiani, non è anzitutto una scelta politica, è una dimensione personale, del proprio cuore, della propria vita, delle proprie relazioni con gli altri. E’ la pace con Dio, prima di tutto, che viene a noi dalla sua compagnia e dal suo perdono. Chiedere perdono a Dio per i nostri e anche per gli altrui peccati è trovare la pace, è ricevere pace. E’ la pace con i fratelli e le sorelle, pace che vuol dire mitezza e amore.
Violenza e Vangelo non si incontrano tra di loro. Infatti, il Signore è mite e umile di cuore; non odia chi lo perseguita, anzi chiama amico chi congiura contro di lui e lo tradisce. Gesù non accetta di essere difeso con la spada in un momento in cui la difesa sarebbe stata legittima. Rimprovera i discepoli che gli portano due spade dicendo con forza: “basta!” Il cristiano è chiamato ad essere un uomo pacifico, indipendentemente dai tempi in cui vive. Le beatitudini indicano la via della felicità e della serenità anche in situazioni difficili, di povertà, di guerra, d’ingiustizia, di persecuzione. Tra i molteplici esempi vi è quello del vescovo Oscar Romero: a tutti, ai violenti di ogni parte, chiedeva la cessazione della lotta armata per percorrere la via del dialogo e della giustizia. La resistenza alla violenza, alla guerra, all’odio, si radicano nel profondo della stessa identità del cristiano: ossia nella imitazione del Signore pacifico, mite e umile di cuore. Per questo i discepoli di Gesù sono operatori e comunicatori di pace. Noi cristiani siamo chiamati ad essere uomini di pace per irradiarla nel mondo.
Il cristiano non deve usare un linguaggio violento, non deve considerare gli altri come nemici, non deve lasciarsi andare a odi e vendette, magari sotto il finto nome della giustizia. La custodia della pace è decisiva all’inizio di questo nuovo secolo. Tutto, infatti, sembra concorrere a lasciarsi travolgere dalle passioni, dagli etnicismi, dai nazionalismi, dai bellicismi, sprecando miseramente e tragicamente il grande dono della pace. Giovanni di Kronstadt, un santo prete russo morto all’inizio del Novecento, diceva: “Acquisisci la pace e la riceveranno migliaia attorno a te”. Aveva ragione: la pace va acquisita e custodita. Sappiamo bene, infatti, che essere cristiani non immunizza dall’intossicazione delle passioni del mondo. Molto spesso si è prigionieri della paura e di ragionamenti egocentrici che mettono all’ultimo posto la testimonianza di pace. Dovremmo chiederci tutti: quanto i cristiani sono educati a considerare la pace come qualcosa di sostanziale per la loro vita, come qualcosa di imprescindibile nel loro comportamento, come qualcosa a cui non possono rinunciare?
Il Vangelo della pace non è la moda di un momento. Deve radicarsi nel cuore di ogni discepolo e nei fondamenti della stessa comunità cristiana. La Chiesa è un luogo di pace. E le comunità cristiane dovrebbero costituire uno spazio di aria pulita, non inquinata, non intossicata dall’odio; dovrebbero essere l’ossigeno della pace in un contesto troppo inquinato dal bellicismo o dalla violenza. In ogni situazione i cristiani sono chiamati a custodire nei loro cuori, nella loro vita, nelle loro comunità, la pace. Tutti debbono testimoniare che niente è più grande della pace, e niente è peggiore della follia della guerra e della violenza. Il Vangelo custodisce il segreto della pace, e ogni volta che viene comunicato, un cuore si apre alle ragioni della pace. Insomma, per un cristiano mai la guerra è inevitabile e sempre la pace è possibile. Cari amici, questo è un punto decisivo. All’inizio di questo XXI secolo la testimonianza dei cristiani sulla pace è di grandissima importanza. Noi cristiani siamo chiamati ad essere pacifici e a vivere da pacificatori. Se non lo facciamo noi chi lo farà? Essere pacificatori vuol dire anzitutto avere un senso generoso della propria vita. In un mondo ove tutto si calcola e dove l’amore gratuito può apparire inutile, essere uomini e donne di pace vuol dire vivere con passione e con generosità la vita di ogni giorno, logorando quel senso di contrapposizione, di odio, di rancore, presente nei meccanismi della vita sociale comune. Il cristiano, uomo pacifico, è generoso con tutti e particolarmente con i poveri perché quest’ultimi non hanno niente da dare in cambio.
Le terre della disperazione
I poveri. Non è tanto di moda parlare dei poveri oggi. Eppure “l’altra strada” che i magi ci invitano a percorrere è proprio quella dove li incontriamo. Sappiamo tutti quanto sia grande il dramma della povertà nel mondo. La povertà, come la guerra, è l’espressione chiara della disumanità del nostro mondo. Gandhi diceva che “la povertà è la peggiore violenza fatta ai poveri”. E se la povertà è uno scandalo, oggi lo è in maniera non più sopportabile. Nella storia umana infatti non ci sono mai stati tanti poveri come oggi; eppure mai il mondo è stato così ricco come oggi e i popoli così vicini come ora! E’ una situazione insostenibile. L’allargarsi delle disuguaglianze economiche e sociali, sia all’interno dei singoli stati che tra aree del mondo, dovrebbe preoccupare se non per ragioni morali almeno per egoismo collettivo. Sta crescendo sempre più un’area di emarginazione e di esclusione dalla vita che diventa tragica e pericolosissima per l’equilibro della convivenza umana e per la stessa pace del mondo. Il mondo si sta riempiendo di esclusi. I poveri non sono più semplicemente gli sfruttati, sono gli esclusi: sono di troppo e quindi possono (o forse debbono) essere dimenticati. Non servono neanche più ad essere sfruttati e quindi ad entrare, almeno in tal senso, nella vita, come talora avveniva in passato.
Si potrebbe dire che si è creato un popolo di poveri che traversa tutti i continenti: non si è globalizzato solo il mercato ma anche la povertà. E’ inutile sottolineare che tale situazione diviene forzosamente un esteso focolaio di conflitti, oltre che bacino di potenziali terroristi. “Un miliardo di persone che vive in assoluta povertà, accanto a un miliardo che gode di un crescente splendore su un pianeta che diventa sempre più piccolo e sempre più integrato, rappresenta uno scenario non sostenibile”(International Herald Tribune, 2 febbraio 1999). Ed è inutile alzare barriere per isolarsi; è inutile bloccare il drammatico fenomeno delle migrazioni. L’isolazionismo, anche dei forti, non protegge più: nessuno può salvarsi dai problemi del mondo costruendo muri dietro cui nascondersi. Stabilità e pace, o sono globali o non saranno per nessuno.
E si sta creando come una nuova civiltà, una sorta di nuovo “impero” a cui tutti, compresa la politica, debbono soggiacere. E’ l’impero del mercato che rischia di trasformare ogni cosa in merce e in competitività. L’uomo e la donna sono condannati a vivere solo per avere e per consumare, per cui si stanno creando i consumatori, da una parte, ossia quelli che hanno la possibilità di acquistare e di consumare, e tutti gli “altri”, dall’altra, ossia i poveri, coloro che continuano ad essere oppressi e sfruttati, e soprattutto esclusi dalla società senza possibilità di integrazione. Si formano, infatti, sia a Nord che a Sud zone di ricchezza e zone di esclusione, una sorta di apartheid mondiale tra ricchi e poveri che traversa tutte le società. Non sto qui a recitare il rosario delle cifre. Basti dire che il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo dei paesi del Terzo Mondo, redatto nel 1990, si apriva con questi numeri: “Più di un miliardo di uomini, ancora oggi, vivono nella povertà assoluta; quasi 900 milioni di adulti sono analfabeti; circa 1 miliardo e 75 milioni di persone non hanno acqua potabile; quasi 100 milioni sono senza riparo; 800 milioni sono alla fame; 150 milioni di bambini sotto i cinque anni sono denutriti e ogni anno ne muoiono 14 milioni”. Questi dati confermano quelli già rilevati nel 1985 dal rapporto della Banca Mondiale. Da essi risultava che i poveri nei paesi in via di sviluppo erano un miliardo e 115 milioni (la soglia di povertà era calcolata nella somma di 370 dollari l’anno), di cui 630 milioni (il 18% del totale della popolazione mondiale) in povertà estrema. Ma anche nei paesi del Nord ricco le cifre relative al numero dei poveri non sono meno preoccupanti.
I poveri, comunque, non diventano tali per caso, o per un cieco e amaro destino. Se il 20% della popolazione mondiale, quasi totalmente residente nel Nord ricco del mondo, detiene l’80% delle risorse del pianeta, com’è possibile un reale equilibrio? E come se questo non bastasse, si registra, ormai da anni, la tendenza costante al divaricarsi della forbice tra paesi ricchi e paesi poveri. Dati dell’ONU mostrano che dal 1960 al 1991 la distanza tra i paesi ricchi e i paesi poveri è cresciuta e continua a crescere. Se poi si mettono a confronto la crescita economica e quella demografica nel pianeta si registra che la prima avviene unicamente nei paesi ricchi e la seconda unicamente nei paesi poveri. Ne emerge una disuguaglianza che diviene forzosamente un esteso focolaio di conflitti regionali quando non di più larga estensione.
Il “sacramento del povero”
Per i cristiani, un mondo così è inaccettabile. E noi siamo chiamati a percorrere presto un’altra strada convincendo tanti a percorrerla con noi. Il Vangelo ce la indica perentoriamente. E la indica a noi discepoli di Gesù come anche a chi discepolo non è. Se leggiamo il brano evangelico di Matteo al capitolo 25 vediamo che il giudizio di Cristo, anche su chi non crede, si poggia su questa semplice affermazione: “Avevo fame e mi hai dato da mangiare”. Per tutti, per i credenti come per i non credenti, la salvezza si gioca sull’amore per i poveri. È la stessa Eucarestia, ossia il “sacramento dell’altare” che ci spinge verso il “sacramento del fratello”, ossia i poveri. Sì, dopo esserci inginocchiati davanti all’Eucarestia dobbiamo chinarci anche davanti ai poveri. Ce lo ricorda con parole chiare san Giovanni Crisostomo: “Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non trascurarlo quando si trova nudo. Non onorare il Cristo eucaristico con paramenti di seta, mentre fuori del tempio trascuri quest’altro Cristo che è afflitto dal freddo e dalla nudità. Colui che ha detto: ‘Questo è il mio corpo’, è il medesimo che ha detto: ‘Voi mi avete visto affamato e non mi avete nutrito’ e ‘Quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli l’avete fatto a me’…A che serve che la tavola eucaristica sia sovraccarica di calici d’oro, quando lui muore di fame? Comincia a saziare l’affamato e poi, con quello
che resterà, potrai onorare anche l’altare”. Benedetto XVI, in un piccolo libretto che scrisse nel lontano 1958, notava che non è a caso che Gesù usi il termine “fratello” solamente per indicare due “categorie” di persone: i discepoli e i poveri.
Nella identificazione Gesù-discepoli-poveri si fonda quel rapporto
inscindibile tra il Signore, la Chiesa e i poveri; un rapporto che mai nessuno potrà incrinare e che faceva dire al beato Giovanni XXIII: “La Chiesa è di tutti e particolarmente dei poveri”. I poveri, cari amici, sono nel cuore del mistero stesso della Chiesa. Il cardinale Congar scriveva: “I poveri sono cosa della Chiesa. Non sono soltanto la sua clientela o beneficiari delle sue sostanze: la Chiesa non vive appieno il suo mistero se ne sono assenti i poveri… La cura dei poveri, degli sradicati, dei deboli, degli umili, degli oppressi, è un obbligo che ha le sue radici nel cuore stesso del cristianesimo inteso come comunione. Non può più esistere comunità cristiana senza ‘diaconia’, cioè servizio di carità, che a sua volta non può esistere senza celebrazione dell’Eucarestia. Le tre realtà sono legate tra di loro: comunità, Eucarestia, diaconia dei poveri e degli umili. L’esperienza dimostra che esse vivono o languono insieme; ma spesso fanno difetto l’immaginazione che rende inventiva la carità, e l’audacia, il coraggio per superare ogni esitazione e prendere l’iniziativa”.
L’identificazione di Gesù con i poveri è una di quelle dimensioni sorprendenti del Vangelo. E si tratta di un legame che è ben più profondo di qualsiasi altro legame sociale, umanitario o politico. Il pensiero sociale e la politica passano, ma il legame tra Gesù e i poveri non passa. Nella lunga storia della Chiesa, il Vangelo e l’amore per i poveri sono stati sempre legati, anzi hanno dato luogo a un genio cristiano della carità lungo i secoli. C’è una permanente vicinanza della Chiesa ai poveri, in forme diverse a seconda dei tempi, ma con una continuità sorprendente. Si potrebbe dire che i poveri e la Chiesa “o si reggono assieme o assieme cadono”. Ogni volta che la Chiesa ha voluto riprendere la forma del Vangelo, sempre ha riscoperto l’amore per i poveri. Pensiamo al tempo di san Francesco, quando la Chiesa aveva come smarrito la forza evangelica. Ebbene Francesco di Assisi, assieme al Vangelo riscoprì l’amore e la vicinanza per i poveri. L’episodio del lebbroso è emblematico. I lebbrosi erano allontanati dalla città perché ritenuti pericolosi per la salute pubblica. Nessuno aveva il coraggio di avvicinarsi a loro, figuriamoci di abbracciarli. Francesco, quel giorno, dopo aver ascoltato il Vangelo, al vedere un lebbroso, scese da cavallo e lo baciò. Non fu un gesto facile. Dovette superare la forza dell’istinto naturale che lo allontanava da quel lebbroso. Ma Francesco “sognò” l’amore e, come i magi, percorse un’altra strada: quella dell’incontro. Scese da cavallo e abbracciò il lebbroso. Raccontando questo episodio, Francesco disse: “Da quel momento quel che mi pareva amaro mi parve dolce”. Quell’abbraccio gli aveva cambiato il gusto della vita. È questo l’uomo nuovo che nasce dall’incontro con Gesù. Potremmo dire che la Messa e quel lebbroso avevano creato un nuovo Francesco. E uomini così cambiano la storia, quella loro, quella dei poveri e quella del mondo. E fra dio essi è significativo l’esempio di Frère Roger che con la sua testimonianza di mitezza e preghiera ha costruito una strada di pace e amore per tanti giovani.
Purtroppo, oggi non è più tanto di moda parlare dei poveri. Non lo è certamente sul piano politico. Ovunque si nota una spinta ad una sorta di divorzio dai poveri. E questo avviene ovunque, nel Nord ricco e nel Sud povero; vi è come una spinta politica ed esistenziale a dimenticarli e spesso ad allontanarli anche dalla vista. Ma, e questo dovrebbe preoccuparci ancor più, anche nella Chiesa si corre il rischio di non comprendere il senso e il valore dei poveri. Che posto hanno i poveri nella cosiddetta programmazione pastorale delle nostre parrocchie, delle nostre diocesi? Spesso sono assenti. Eppure Gesù ha detto: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”(Mt 25,40). Il Vangelo offre il giusto sguardo da avere con i poveri, non uno sguardo sociologico o politico o assistenziale, ma religioso. E avere uno sguardo religioso verso i poveri significa vedere in loro il volto stesso di Gesù. Cari amici, la vita del discepolo come non può svolgersi lontana dall’Eucarestia così non può svolgersi lontano dai poveri; infatti saremo giudicati sulla vicinanza a loro: “ero malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi”(Mt 25,36). Questa parola evangelica chiede ad ogni discepolo, anzi ad ogni uomo di buona volontà, un rapporto personale con il povero. E avere un rapporto personale significa che ci si accosta ai poveri certo per portare aiuto, ma anzitutto per portare a lui l’amicizia.
Talora si negano ai poveri sia l’amicizia che il Vangelo. Non dobbiamo dimenticare che l’amore per i poveri è il segno dato da Gesù per manifestare la sua venuta del regno. Quando i discepoli del Battista chiesero a Gesù se lui fosse o no il Messia, Gesù rispose: “Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: I ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti resuscitano, ai poveri è predicata la buona novella…”(Mt 11,5). La vicinanza ai poveri è la prova della venuta di Dio sulla terra. Ma lo crediamo? Spesso ci affanniamo a trovare strategie pastorali, a elaborare piani pastorali, e magari tralasciamo quei segni che Gesù stesso ha indicato essere il suo sacramento. E Gesù li ha indicati non solo con le parole ma con la sua stessa vita: ha infatti preso su di sé i problemi dei deboli e dei poveri, dei malati e dei disperati. È bella l’immagine evangelica che descrive quella sera a Cafarnao quando portarono a Gesù gli indemoniati ed i malati. È una scena che dovrebbe interrogare molto di più le nostre Diocesi e le nostre parrocchie oltre che ciascuno di noi personalmente. Le nostre chiese sono come quella casa di Cafarnao?
Gesù ci chiede di rivivere quella scena evangelica. E ci ha dato lo stesso potere che diede ai discepoli, quello di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni malattia e infermità. Ecco perché la via dei cristiani deve essere intessuta di comunicazione del Vangelo e di amore per i poveri. I poveri sono soli e abbandonati? Ebbene, la comunità di Gesù diventa la loro famiglia adottiva. I poveri vanno trattati come familiari, come parenti. Dio stesso ce ne da un esempio, direbbe Gregorio Magno. Infatti Dio conosce i poveri per nome, come si vede dalla parabola del ricco epulone: “Perché dunque – si chiede Gregorio – il Signore narrando di un povero e di un ricco, dice il nome del primo e tace quello dell’altro, se non per dimostrare che Dio conosce gli umili ed è vicino a loro, mentre non riconosce i superbi?” E ribadisce: “i poveri hanno bisogno della parola e non solo di aiuto: date col pane la vostra parola… II povero dunque, quando sbaglia, va ammonito, non disprezzato, e se in lui non riscontriamo difetto alcuno, deve essere venerato”. Sì, c’è bisogno di parole e di amicizia. E così il povero lo sentiremo nostro familiare. E la parentela porta sempre ad assumersi aspetti concreti di solidarietà e di aiuto, come si farebbe appunto con un amico caro o con un familiare che si trova in necessità. E dare una mano ad un amico o ad un parente vuol dire non renderlo un cliente. È invece normale, anche nelle Caritas, parlare dei poveri come di “utenti”. No, cari amici, i poveri sono fratelli, non utenti. Ecco perché è bello pensare al cristiano come a colui che ha un povero per amico. Sì, essere cristiano vuol dire avere anche un povero per amico.
I poveri per amici
La nostra attenzione di cristiani difende i poveri in quegli ambienti e in quelle strade da cui li si vorrebbe scacciare. Talvolta si vogliono città linde e senza poveri o dove i deboli sono nascosti. E questo accade ormai sempre più spesso. Non accada a noi di comportarci come i politici! Anche perché è facile allontanarli persino dalle chiese, magari con la scusa che si vuole aiutarli con più razionalità. Ricordiamo che, al Nord e al Sud, spesso le chiese sono l’unico riferimento per i poveri; gli unici ambienti aperti nelle città dove tutte le porte si chiudono; gli unici luoghi accoglienti nelle società dove manca di tutto. Negli ambienti cristiani è doveroso incontrare i poveri. Giovanni Crisostomo ricorda come i palazzi del potere siano frequentati solo da personaggi ragguardevoli, mentre “nelle vere regge, parlo della chiesa e dei santuari dei martiri, si trovano gli indemoniati, i mutilati, i poveri, i vecchi, i ciechi, gli storpi.”. Per questo, nella vita della Chiesa, gli ambienti dei poveri sono stati sempre vicini a quelli della preghiera. Paolino di Nola, un ricco romano convertito dalla cultura classica alla Bibbia, monaco tra il III e il IV secolo e poi vescovo nel Sud Italia, aveva costruito il suo monastero al secondo piano dopo aver messo i poveri al primo piano, per significare che i poveri sono alla base della comunità. Paolino loda un senatore romano, Pammacchio, che aveva introdotto i poveri nella basilica di San Pietro per un grande pranzo in loro onore: “Tu radunasti nella basilica dell’apostolo una moltitudine di poveri, i patroni delle anime nostre, che per tutta la città di Roma chiedono l’elemosina per vivere”. Quando era parroco a santa Maria in Trastevere, riprendendo questa antica tradizione, una volta all’anno, feci un grande pranzo per i poveri. Oggi è divenuta una bella tradizione che si è diffusa in tante altre parti. Quel giorno i poveri sono nel cuore della Chiesa e della festa del Natale.
I poveri per amici: diventando amici di Dio, ci si ritrova amici dei poveri. E mentre quelli che aiutano i poveri credono di essere angeli per chi soffre, si trovano a vivere una vita riempita dai bisognosi, veri angeli di senso e di affetto. Ho visto anziani che riempiono la vita di persone che si sentivano svuotate, proprio quando cominciano ad aiutarli. Si comincia con il dare, ma si continua ricevendo. Una vita, lontano dai poveri, non è garanzia di felicità: una vita negata alla compassione non è garanzia di serenità. Ed anche nell’educazione dei più giovani, la conoscenza dei poveri e l’esperienza di essere con loro è una via di crescita. Non c’è contraddizione tra una vera spiritualità, tra l’ascolto di Dio, e l’amore per i poveri. Senza l’ascolto della Parola di Dio, l’amore si raffredda o diventa un’ideologia. Quanti slanci di volontariato anche nella Chiesa si sono spenti o si sono perduti nei gorghi dell’istituzione! È la storia di uno slancio sociale che, nel recente passato, è stato forte tra i cristiani, ma che si è come impigrito, istituzionalizzato, politicizzato, burocratizzato. Al povero si è sostituito l’idolo di un’idea, di un metodo, di una teoria.
L’amore per i poveri è il banco di prova della sensibilità evangelica delle nostre Chiese e della sua forza umanizzatrice. Dio ha disposto che i credenti siano una grande riserva d’amore per i poveri del mondo. Certo i poveri non sono attraenti, anzi normalmente imbarazzano. E spesso accade che, come il levita o il sacerdote, anche noi allunghiamo il passo quando vediamo un povero per evitalo. Ma Gregorio Magno ammoniva così i romani: “Ogni giorno troviamo Lazzaro se lo cerchiamo e, anche senza cercarlo, ogni giorno ci imbattiamo in lui. I poveri si presentano a noi, anche importunandoci, chiedono, ma potranno intercedere per noi nell’ultimo giorno… Non sciupate dunque il tempo della misericordia e non disprezzate i rimedi che vi offrono”. La carità verso i poveri è un tempo di misericordia, è un tempo salvato. La carità infatti salva i poveri perché li aiuta, ma salva anche noi. Sì, mentre i poveri sono sostenuti da noi, essi ci sostengono e ci evangelizzano. In che senso? Anzitutto ci ricordano la nostra debolezza. L’anziano, ad esempio, con la debolezza del suo corpo, ci ricorda la nostra fragilità, che in genere cerchiamo di nascondere sotto il benessere del corpo o il ben vestire. I poveri ci parlano della vanità di quell’orgoglio aggressivo che è invece una nostra naturale difesa di fronte alla durezza della vita e all’anonimato. Sì, i poveri ci ricordano che siamo deboli e fragili, ci ricordano che davanti a Dio dobbiamo essere come loro: mendicanti, mendicanti di amore e di salvezza.
Cari amici, c’è bisogno urgente di ridare vigore nelle nostre comunità cristiane all’amore per i poveri. È il Vangelo a chiedercelo. Sì, il Vangelo si fa difensore dei poveri presso noi stessi, contro la nostra avarizia e pigrizia. Il Vangelo afferma il primato del cuore e non dell’interesse per sé. E non c’è solidarietà durevole e fedele senza spiritualità, senza fede vissuta, senza amore evangelico. Se non ci si nutre dell’Eucarestia anche l’amore per i poveri langue. Il sacramento dell’altare non è mai separato dal sacramento del fratello, vorrei dire si sostengono a vicenda, l’uno rimanda all’altro, ambedue si sostanziano di amore.