Messa a Colonia

Messa a Colonia

Care sorelle e cari fratelli,


 


il Vangelo che abbiamo ascoltato ci porta nella  sinagoga di Cafarnao ove Gesù sta tenendo il suo noto discorso dopo la moltiplicazione dei pani. L’evangelista Giovanni all’inizio del capitolo narra che la gente, dopo aver assistito alla moltiplicazione dei pani, voleva fare re Gesù. Ma egli era fuggito, prima sul monte e poi a Cafarnao. Non vedendolo più in mezzo a loro, tutti si misero a cercarlo: salirono sulle barche e si diressero all’altra sponda. Erano stati sfamati e non volevano perdere il contatto con quel profeta. Ed in effetti lo ritrovano “al di là del mare”. Appena lo videro, un po’ risentiti, gli dissero: “Maestro, quando sei venuto qui?”. Gesù sapeva bene che lo cercavano per interesse, ma non si scandalizzò per questo; del resto, era venuto per salvarli, non per cercare il loro consenso, tanto meno la loro adulazione. Infatti Egli non seguiva le folle, non correva dietro i loro desideri, le loro mode, le loro richieste, come a volte noi rischiamo di fare pensando così di rendere più appetibile il Vangelo. Gesù restava il maestro che guida, che ammaestra e, se necessario, che rimprovera. Per questo non smise di parlare, di esortare e correggere.


Con chiarezza perciò si rivolse alla folla e rispose alla loro domanda dicendo: “Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato pane sino a saziarvi”. In effetti, erano andati alla ricerca di Gesù perché si erano saziati del pane da lui miracolosamente moltiplicato. Potremmo dire che il problema di quella folla era la sazietà, il benessere, la tranquillità. E avendo finalmente trovato uno che poteva saziarli non volevano perderlo, anche se bisognava traversare il mare. Corsero verso di lui perché poteva sfamarli. Erano interessati al suo potere più che al suo cuore. In tutta questa storia mancava insomma l’affetto, mancava l’amore per quel Maestro. Ebbene, questa cecità affettiva andava rimossa, questa mancanza di amore era come una malattia grave e andava guarita. Era appunto quel che Gesù si apprestava a fare. Disse loro: “Datevi da fare non per il cibo che perisce, ma per il cibo che dura per la vita eterna”. Gesù li esortava a superare l’angusto orizzonte della sazietà, il pressante desiderio di soddisfare se stessi. Il mondo va male proprio per questo, proprio perché ciascuno è preoccupato del proprio benessere. Gesù invece voleva che andassero oltre la soddisfazione immediata dei propri bisogni.


C’è un ordine di vita più alto, una dimensione dell’esistenza che va oltre le preoccupazioni del mangiare, del vestire, del fare carriera, dell’essere tranquilli a qualsiasi prezzo. Tutte queste cose non ci sfamano, anzi lasciano dentro di noi una inquietudine, una spinta a cercare nuovi bisogni e nuove soddisfazioni, in una corsa senza fine. Ed infatti rischiamo di essere perennemente insoddisfatti, infelici. Ma non è questo quel che Gesù vuole. Egli vuole mostrarci un cibo che non si consuma, che resta e che non si deteriora. E per ottenerlo – dice Gesù – bisogna industriarsi in ogni modo. Gesù sembra fare loro questo ragionamento: “Se avete preso le barche e siete venuti al di qua del mare per trovare il pane del corpo, quanto più dovete adoperarvi per trovare il cibo del cuore che non perisce?”. In verità, quegli ascoltatori, erano talmente preoccupati per soddisfare se stessi che non capirono quel che Gesù diceva loro e pensarono che chiedesse l’osservanza di altri precetti. E gli dicono: “Cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?”. Purtroppo erano duri a comprendere, come spesso accade anche a noi.


In verità, Gesù esige una sola opera: credere il lui. In un’altra parte del Vangelo dice: “Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato”. Non si tratta né di un precetto né di un’ulteriore azione da compiere ma solo di lasciarsi travolgere dall’amore di Gesù, di lasciarsi coinvolgere dal Vangelo. Insomma, di innamorarsi. Ma innamorarsi di Gesù non è né spontaneo né naturale. Innamorarsi di Gesù – questa è la fede – è un vero e proprio “lavoro”. Lo sa bene chi si innamora. L’innamoramento richiede passione, decisione, continuità, applicazione, creatività, fatica, scelte, abbandono. Sì, la fede è una passione che travolge, è un’energia di amore che trasforma noi e chi ci sta attorno. La gente che stava ascoltando, comincia a capire che Gesù parlava di qualcosa che esigeva il coinvolgimento personale. E ha paura, perché non si fida. Ed ecco che chiede una prova: “Ma tu che segno fai, perché noi possiamo vedere e credere in te?” Non gli era bastato il miracolo del giorno prima. Quando si tratta del coinvolgimento personale chiediamo garanzie su garanzie. Ma queste, possibili sul piano dei contratti commerciali, non lo sono su quello dell’amore. L’amore, e con esso la fede, è sempre un rischio, sebbene i “segni” compiuti da Gesù siano numerosi e incredibili. Noi siamo talora così presi dalla sazietà o comunque siamo a tal punto egocentrici da non riuscire a vedere oltre se stessi, e quindi non lasciare le sponde della propria tranquilla sicurezza per affidarsi al Signore che sempre porta in mare aperto.


Gesù comunque non manca di darci il pane per irrobustirci nel cammino dell’amore. Lo spiega dicendo che il vero pane viene dal cielo, anzi il vero pane è “colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo”. La folla che ha capito solo a metà, ribatte: “Dacci sempre di questo pane!” E’ una richiesta spontanea e, a prima vista, anche bella. Magari fosse la domanda di ciascuno di noi! Ma essa deve partire dal cuore, più che dallo stomaco. E Gesù, come avviene nei momenti decisivi, risponde con chiarezza: “Io  sono il pane della vita. Chi viene a me non avrà più fame”. Si capisce ora il senso pieno della manna nel deserto e il senso stesso di quel pane moltiplicato per i cinquemila. C’è un pane – ed è Gesù stesso – messo a disposizione di tutti; viene da Dio, ma non è lontano da noi, tutti lo possiamo gratuitamente ricevere. Per noi, uomini e donne del ricco mondo dell’Occidente, non c’è spazio per “mormorare” contro Mosé, come fecero gli ebrei nel deserto, e neppure siamo nella condizione di quei cinquemila rimasti senza pane perché presi dall’ascolto di Gesù. Forse dobbiamo sì “mormorare”, ma contro noi stessi, contro i nostri ritardi e le nostre lentezze perché, pur avendo lo stomaco pieno e il “pane della vita” a portata di mano, non sappiamo accoglierlo e gustarlo. Care sorelle e cari fratelli, avviciniamoci al “pane della vita” e, come dice l’apostolo Paolo, “rinnoveremo il nostro spirito e rivestiremo l’uomo nuovo”.