Se si sposano individuo e persona
Come conciliare la morale cristiana, le esigenze della modernità e i “bisogni collettivi” del pianeta
Il processo al pensiero laicista promosso dalla rivista coglie senza dubbio uno dei nodi centrali della cultura e, direi, della vita stessa della società contemporanea. Chiama in causa pensiero laico e pensiero cattolico, ma, in tempi di globalizzazione, sarebbe interessante misurarsi anche con prospettive non solo europee o eurocentriche. Da più parti – come ha osservato Belardinelli nel numero precedente di liberal – c’è la sensazione che una esasperazione della dimensione individuale a lungo andare logora lo stesso principio di libertà sul quale si è fondata la civiltà occidentale. Già Hans Jonas nel 1979 si chiedeva: «È giusta la strada che abbiamo raggiunto con questa combinazione di progresso tecnico-scientifico e aumento della libertà individuale?». Se si guarda a quanto è accaduto nel campo dell’ambiente e dello stato di salute del pianeta verrebbe da dire di no. C’è davvero il problema di avere un’etica per la civiltà tecnologica. Di fronte all’incombente pericolo di distruzione dell’ambiente, e quindi dell’umanità, è un dovere primario riproporre costantemente la domanda sulla responsabilità collettiva per prevenire danni irreparabili. È una domanda che spesso, invece, viene avvertita come un fastidio e una fatica da evitare da parte di una moderna cultura del godimento e da un uomo tecnologico che si pensa come «macchina desiderante». Questo carpe diem che ripropone il benessere individuale come legge suprema di comportamento, non mi sembra né particolarmente nuovo e adatto ai tempi nuovi, né privo di ambiguità. Questo primato del benessere individuale troppo spesso non coincide con il benessere collettivo, mette a rischio la continuità stessa del pianeta e, alla fine, mi sembra minato da una impossibilità intrinseca di risposte soddisfacenti al principio di soddisfazione senza limiti.
Principio di responsabilità e comportamenti eco-solidali non possono essere disgiunti. La questione è di tali proporzioni che Jonas, tra i primi a porre il problema del rapporto tra uomo e natura, ritiene debba essere chiamata in causa non solo una nuova etica ma, addirittura, una nuova ascesi: «All’inizio del Cristianesimo vi furono uomini che sotto l’influsso di una potente religione ultraterrena fecero di tutto per l’ascesi. Per amore della vita terrena ciò non è mai stato fatto. C’è solo in particolari momenti, quando un popolo è in pericolo e i giovani fremono per difendere la patria. Non so se è possibile ottenere senza religione trascendente un’ascesi nella massa, laddove il pericolo non è così chiaro come su una nave che affonda, ma si estende per decenni e attraverso i continenti». In questa nuova situazione, nella quale sono in gioco la conservazione dell’esistenza e della dignità dell’uomo, si richiede senz’altro una nuova moralità, nel senso che si presentano nuovi campi di applicazione, nuove domande che solo una generazione fa erano impensabili. Nella società contemporanea – alla questione dell’ambiente possiamo aggiungere senz’altro l’ingegneria genetica e altre ancora – è richiesta una riflessione etica che vada oltre il mero principio individuale perché tali questioni coinvolgono in modo radicale le radici stesse della vita. La clonazione di esseri viventi, ad esempio, ha aperto domande inquietanti. Non vi sono finora risposte rassicuranti sugli esiti e sul futuro. L’«apprendista stregone» di Goethe non riusciva più a dominare quanto aveva scatenato: «Degli spiriti che chiamai, liberarmi più non riesco». Riusciamo, riusciremo a dominare la situazione che abbiamo creato? Nella prima pagina della Bibbia c’è un avvio di risposta che non va contro la ricerca e che vede con favore la dilatazione della capacità umana di trasformare il mondo. Dio disse ai progenitori, ossia alle profondità dell’essere umano: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente» (Genesi 1, 28). È chiaro l’invito a esercitare autorità e dominio sul creato. Ma tale dominio non è senza regole. Già nell’Eden, infatti, era stato proibito ai progenitori di mangiare del frutto dell’albero della vita.
Abbiamo qui l’ingresso del mistero della libertà, senza il quale diventa incomprensibile tutta la vicenda umana. Quando infatti il serpente consiglia di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, la pagina della Bibbia viene a dire che l’uomo può compiere sia il bene che il male. È l’affermazione della grandezza e della debolezza dell’uomo e della donna e della sua libertà. La libertà è la chance di vivere ma non è garanzia assoluta del bene.
Mi sembra che non possa esserci libertà autentica senza un Oltre, senza, comunque, un ancoraggio all’essenza della vita umana. Non è data libertà – è quasi ovvio – se in qualche modo, fosse pure nella sola indifferenza, c’è umiliazione dell’uomo. Questo, mi sembra, vale per credenti e laici. Luc Ferry registra con preoccupazione una perdita del senso della vita che provoca una veloce corsa verso il privato e che favorisce una concezione freddamente egoista della vita: «Dopo il relativo regresso delle religioni, dopo la morte delle grandi utopie che inserivano le nostre azioni nell’orizzonte di un vasto disegno, la questione del senso non trova più un luogo dove esprimersi a livello collettivo… resta confinata nell’intimità della più stretta sfera privata. Traspare solo in occasioni eccezionali, lutti o malattie gravi». È il timore del vuoto, che non pare affatto una situazione passeggera. All’orizzonte non appaiono tracce di un nuovo «grande disegno» che ridia significato alla vita e al mondo. L’irreversibile erosione delle forme religiose tradizionali (l’autore si riferisce soprattutto al crollo del cristianesimo come religione dogmatica che fonda la morale su di un’autorità esterna all’uomo) rende, a suo avviso, strutturale la crisi etica contemporanea; né lo tranquillizza la definitiva sconfitta della religione «nemica» della modernità.
Per evitare di cadere nel baratro del nulla, non basta un semplice «ritorno all’etica», dice Ferry. È necessario irrobustirla con i tratti della religiosità: «La morale è utile e anche necessaria: ma rimane nell’ordine negativo del divieto. Se le etiche laiche, anche le più sofisticate e più perfette, dovessero costituire l’ultimo orizzonte della nostra esistenza, ci mancherebbe ancora qualche cosa, per la verità l’essenziale. E questo qualche cosa, naturalmente, ci è rivelato nel modo più chiaro dall’esperienza di quei valori che i comunitaristi chiamano “carnali” o “sostanziali”. A cominciare dal più alto: l’amore (sia degli individui sia delle comunità di appartenenza)». Parafrasando una nota frase di Heidegger, di fronte al prevalere assoluto della cultura tecnologica, si potrebbe allora dire: «Solo l’amore ci salverà!». Altrove ho cercato di mostrare la validità di questa via che riesce ad abbracciare universi che paiono distanti tra loro. E proprio qui introdurrei qualche nota, non una vera e propria risposta, sulle ultime due domande sottolineando la necessità che la riflessione cristiana entri con maggior coraggio dentro il problema della «soggettività» che qualifica tutto il pensiero filosofico ed etico contemporaneo. In certo senso è vero che «circola ancora poco individuo» nella cultura cattolica e, qualcuno potrebbe aggiungere, poca «libertà». Mi sembra tuttavia innegabile anche che grande attenzione, nel pensiero cattolico dell’ultimo secolo, è stata posta sul concetto di persona. Basti pensare a Mounier e al suo «personalismo».
Questa concezione rimanda a una antropologia larga, che fa della coscienza individuale una dimensione collettiva strettamente legata al bene comune. In tale contesto la coscienza dei singoli non è assolutamente slegata dalle persone con le quali ha stretto rapporti, legami, doveri, responsabilità. E in una tale situazione non è così agevole tracciare nella propria coscienza il confine tra il «mio» e il «tuo». La concezione personalista si fonda, del resto, su quel filone biblico-teologico che porta a descrivere la Chiesa come «una persona mistica», una comunione tra diversi a tal punto profonda da divenire appunto «una persona», collegandosi alla immagine di origine paolina del «corpo». Non c’è una radicale incompatibilità tra autorità e autonomia personale nel cristianesimo, senza con questo voler negare le deviazioni che sono avvenute lungo la storia. Ma quando si parla di autonomia e di libertà, nella tradizione cristiana, si intendono questi termini all’interno di un orizzonte spirituale proprio che comporta non lievi differenze con il pensiero laico contemporaneo.
La libertà, infatti, si presenta al cristiano in una forma particolare. Essa attraversa le vicende personali e la storia. Nella Scrittura l’altro nome di libertà è lo Spirito Santo. Il cristianesimo ha la responsabilità di vivere con un unico «vincolo»: riconoscere – e non negarlo – lo Spirito di Amore e ciò che suscita nella propria vita e in quella degli altri. Nessuno può riconoscere che Dio è il Signore della vita e della storia se non è lo Spirito a svelarglielo. Libertà e Spirito. L’unico peccato, che secondo il Vangelo di Marco non sarà perdonato, è il peccato contro lo Spirito, perché è quello che interrompe in radice il proprio rapporto con Dio e con l’amore. Lo Spirito di vita e di amore, davvero, «soffia dove vuole». È questa una chiamata radicale alla libertà non solo per ciascun credente ma anche per i cristiani associati. È una difesa radicale da ogni istituzionalizzazione della vita umana. Ha radice qui un’apertura senza pregiudizi a tutta la novità della storia e a tutto l’umano.
È per questo che, a mio parere, non è data libertà individuale se non contiene in sé anche un principio di amore. Mentre l’Illuminismo traduceva – universalizzandola anche oltre i confini abituali – la valorizzazione cristiana dell’individuo, uscendo da una concezione di società «organiche» in cui la persona e il singolo avevano minore dignità della «comunità», all’interno del cristianesimo si conservavano le energie per superare la frammentazione, l’estraneità, la sopraffazione dei forti sui deboli, la libertà del mercato lasciato allo stato selvaggio e senza regole, la libertà di tutti ma contro tutti. Mi sembra che all’interno del cristianesimo questa libertà individuale che aiuta a scoprire la persona e la vita umana come valori prioritari, con tutto il loro tessuto di relazione, vi sia oggi una riserva a disposizione di tutti per porci meglio le domande dell’etica, del limite, anche nei campi inediti che caratterizzano questa apertura del nuovo millennio.
È un programma di vita ambizioso, affascinante, ma anche alla portata di tutti. Significative le parole del Deuteronomio: «Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire? Non è al di là del mare, perché tu dica: Chi attraverserà il mare per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire? Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica». Agostino aveva forse presente proprio questo passo della Scrittura quando scriveva che «in interiore homine habitat veritas». È indiscussa tradizione teologica che la voce della coscienza (ovviamente retta) sia il criterio ultimo di obbedienza.
C’è una felice espressione del Concilio Lateranense IV che mi piace ricordare: «quidquid fit contra conscientiam edificat ad Gheennam». Certo non tutto il percorso è stato lineare nella storia dei cristiani e della Chiesa. Bisogna attendere il Vaticano II per avere un documento ufficiale sulla libertà di coscienza. E oggi abbiamo a disposizione l’espressione matura delle parole di Giovanni Paolo II: «La libertà di coscienza… è essenziale per la libertà di ogni essere umano… Nessuna autorità umana ha il diritto di intervenire nella coscienza di alcun uomo». E aggiunge: «Una seria minaccia per la pace è costituita dall’intolleranza, che si manifesta nel rifiuto della libertà di coscienza degli altri. Dalle vicende della storia abbiamo appreso dolorosamente a quali eccessi può condurre». Sulle frontiere della libertà-amore si impara a convivere con l’altro e a gareggiare per riscoprire insieme la sacralità della vita e la responsabilità di costruire un mondo più umano.
da “Liberal”