Cristo ha dato se stesso per noi

Cristo ha dato se stesso per noi

Ci troviamo raccolti in uno dei luoghi di culto più antichi di questa città, il primo di cui si ha notizia storica. Trastevere, il quartiere di Roma ove duemila anni fa risiedevano gli ebrei, ha visto nascere il cristianesimo nella capitale dell’impero. Forse proprio da “quegli stranieri di Roma”, come scrivono gli Atti degli Apostoli, che stavano a Gerusalemme davanti alla porta del cenacolo nel giorno della Pentecoste, è giunta qui la prima predicazione cristiana. Questo luogo, in origine, non era una edificio di culto, ma una comune casa, certo un po’ ampia, dove i cristiani si radunavano per pregare, per ascoltare le Sante Scritture, per celebrare l’Eucarestia e per vivere in comunione. Poi, nel secolo IV, venne costruita questa Basilica che nel corso dei secoli si è arricchita sino a divenire una delle chiese più belle di questa città. Ma non è cessata di essere il luogo della comunione, della preghiera e dell’ascolto della parola di Dio. Come abbiamo visto pocanzi la Basilica è ora il luogo ove si ritrova la Comunità di Sant’Egidio. Potremmo dire che è la sua casa bella. E qui, ogni sera, anche in questi giorni, mentre il giorno sta per terminare, in tanti si radunano per ascoltare la Parola del Signore e per rivolgere a Lui la comune preghiera.
Trastevere era il porto di Roma, luogo di confluenza degli stranieri. E la Basilica si è posta e continua a porsi come la Chiesa del porto, la Chiesa che apre le sue porte a tutti, perché chiunque possa trovare qui rifugio, consolazione, accoglienza, conforto. E lasciate che vi dica anche la mia personale emozione nel tornare in questa Basilica che ho servito per circa venti anni come parroco, prima di essere nominato vescovo di Terni nell’aprile scorso. Permettetemi perciò che vi dica anche: benvenuti a tutti! Che ciascuno di voi possa sentirsi qui come nella sua casa, come giunto in porto amico e ospitale. Lo è per tutti noi della Comunità di Sant’Egidio, lo sia per ciascuno di voi.
Raccogliendoci per la preghiera di questa mattina sentiamo particolarmente vicine le parole dell’apostolo Pietro che abbiamo or ora ascoltato: “Eravamo come pecore disperse, ma ora siamo tornati al pastore e guardiano delle anime nostre”. Sì, noi oggi non siamo più pecore disperse, perché il pastore delle nostre anime è venuto a cercarci e a radunarci assieme. Noi tutti veniamo da storie e da paesi diversi, veniamo da vicino e da lontano, ma in verità è stato l’unico pastore che ci ha cercati, che ci ha guidati e che ci ha raccolti assieme. Prima che noi ci trovassimo è stato Gesù a cercarci, a venirci incontro e a radunarci. E con noi ha raccolto anche tanti altri fratelli e tante altre sorelle che in questi giorni sono giunti qui a Roma, per questo singolarissimo pellegrinaggio giubilare.
Possiamo dire con verità che siamo nel cuore del Grande Giubileo e, in certo modo, anche nel cuore del primo anno di questo nuovo Millennio. Siamo venuti da tutto il mondo per raccoglierci attorno a Gesù, per stringerci attorno a lui e per iniziare assieme con Lui questo nuovo secolo. Sono passati duemila anni dalla sua nascita. Ma non stiamo ricordando un amico, certo molto buono, sebbene ormai lontano dal mondo e da noi. Gesù ha detto: “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. Le sue parole sono vere. Egli è davvero presente in mezzo a noi. Senza di lui, infatti, noi non saremmo qui; ciascuno sarebbe restato a casa sua, con i suoi propri problemi, le sue piccole gioie o le sue piccole angosce. Tutti saremmo rimasti dispersi nel mondo, ognuno rinchiuso nel proprio piccolo orizzonte. In questi giorni, in tanti, siamo con il Signore, e con lui vogliamo entrare nel nuovo millennio. Abbiamo bisogno della sua compagnia, ne abbiamo bisogno noi e il mondo intero.
Il secolo passato è stato un secolo che tante volte ha fatto a meno della compagnia di Dio. Qualcuno anzi ha detto che il Novecento si è allontanato da Dio, anzi, uscito da Dio. Sicuramente è stato il secolo meno religioso di tutta la storia dell’uomo. Per secoli e secoli, infatti, il mondo è stato immerso totalmente nella religione. La vita civile, in tutti i suoi aspetti, era piena di riferimenti a Dio. Tutto veniva visto in una sfera religiosa: la nascita e la morte, la vita e la malattia, il rapporto tra uomo e donna, ma anche il lavoro, la politica e il resto. Ebbene, tutto questo sembra essere finito. Il Novecento è stato un secolo non religioso, anzi spesso diffidente verso Dio. E le conseguenze le abbiamo viste, le conosciamo tutti. Il secolo passato è stato uno dei secoli più tragici della storia umana. Mai abbiamo assistito a crimini così feroci e in così vasta scala. E le sue ombre buie si sono proiettate anche sul secolo che è appena iniziato e che non si annuncia migliore o meno pericoloso.
Un incerto equilibrio tra molti stati potenti, e una complessa dialettica tra globalizzazione e frammentazione, tra fondamentalismi e identità conflittuali, rendono questo sistema mondiale forse ancor meno governabile di quanto fosse nei tempi duri della guerra fredda. Quanti avevamo posto speranza nell’89, con il crollo del muro di Berlino e la fine del mondo diviso in due grandi blocchi, abbiamo dovuto presto ricrederci. Quello che doveva essere un nuovo ordine mondiale, si è di fatto trasformato in un disordine pericoloso. E chi aveva teorizzato la fine della storia, oggi fa autocritica e parla piuttosto di caos ingovernabile. Il mercato, divenuto una sorta di nuova religione universale, sembra vincere ovunque nel mondo. E il mercato, senza correttivi e con la rapida crescita di gruppi forti, si pone spesso al limite quando non fuori della legalità, con tutta la preoccupazione per l’affermarsi delle diverse mafie e circuiti criminali che stanno prendendo sempre più potere nell’ambito finanziario. Non mi dilungo poi sui pericoli che rappresentano ancora oggi, forse ancor più di ieri, gli enormi arsenali nucleari difficili da gestire e da controllare.
Assieme al crollo dei muri e all’affermarsi di un mercato senza stato di diritto, si registra lo scoppio di oltre 50 nuovi conflitti, più o meno regionali, quasi tutti nati da una enfasi eccezionale dei temi legati ai confini e alla comunanza di sangue, così accentuatamente etnici da assorbire a volte anche l’elemento religioso al loro interno. E mentre avanza il processo di globalizzazione, di unificazione economica del mondo, altrettanto crescono, per reazione, le identità locali, tribali, etniche e nazionali. Di fronte ad una insicurezza diffusa è forte la tentazione della gente dei paesi ricchi di ripiegarsi su se stessi. Ed in effetti è più che evidente l’affievolirsi del senso del debito del Nord ricco del mondo verso il Sud povero. Per di più, la forbice di benessere tra Sud (gran parte dell’Africa, una parte dell’Asia e una parte dell’America Latina) e Nord del mondo è enormemente aumentata nell’ultimo decennio: non pochi paesi sono oggi enormemente più poveri di quanto non lo fossero un decennio fa. Non c’è pertanto da meravigliarsi se nel futuro, problemi enormi come la fame, la disoccupazione e l’emigrazione, che sono frutti diretti di tale situazione, possano essere all’origine di nuovi e disastrosi conflitti planetari.
Di fronte a questo panorama così problematico, credo che non possiamo stare in silenzio e tantomeno ripiegarci su noi stessi. Dobbiamo piuttosto chiederci: “Come vogliamo costruire il secolo che è appena iniziato? Ossia, come vogliamo edificare il futuro nostro e del mondo?” Nel bagaglio della gran parte della gente non sembrano esserci grandi sogni, grandi utopie, grandi visioni. Avanzano invece delusioni, prudenze, realismi. Eppure, quanta gente ha bisogno di amore! Quanti nel mondo chiedono la liberazione dalla fame, dalla guerra, dall’angoscia, dalla tristezza, dalla rassegnazione! Quanti tendono le loro mani, e sono milioni e milioni, in attesa che qualcuno si fermi e dia loro un aiuto! Molti, purtroppo, hanno deciso di pensare solo a se stessi. Quello che conta – dicono – è il mio benessere. Del resto – aggiungono – che cosa si può fare per tanta gente? E, soprattutto, cosa posso fare io da solo? La conclusione sembra logica ed è soprattutto immediata: penso a me. Del resto, il pensiero individualista, il forte senso dell’individuo e quindi di se stessi, è una delle acquisizioni più importanti del Novecento ed è tra quelle che il secolo passato ha lasciato in eredità al nuovo secolo. Ma a forza di pensare a se stessi e di concentrarsi sul proprio io, questo mondo è divenuto peggiore, i cuori si sono induriti e la generosità si è inaridita. E sempre più il mondo ha bisogno di amore, di vero amore; sempre più ha bisogno di un cuore grande che superi la marea di dolore.
Care sorelle e cari fratelli, l’apostolo Pietro che, giunto a Roma, è passato proprio qui accanto alla Basilica, e che ha testimoniato il Vangelo sino alla morte avvenuta a poche centinaia di metri, torna a presentarci un uomo dal cuore grande, un uomo che “portò i nostri peccati nel suo corpo, sul legno della croce”. Quest’uomo ha un cuore grande da abbracciare tutti. Egli è sceso dai cieli per portare la salvezza al mondo intero. Ha ragione il Papa quando dice che il cristianesimo si differenzia dalle altre religioni perché è una religione nella quale è anzitutto Dio che cerca l’uomo, non viceversa. Egli si è fatto carne dal seno di una ragazza di Galilea. Ha vissuto con noi, ha condiviso tutta la nostra vita, eccetto il peccato. E ha fatto bene ogni cosa, come diceva la gente. Eppure noi l’abbiamo ucciso. Ma egli non ha mai cessato di amarci; anche dall’alto della croce. Come se non bastasse tutto quello che aveva già fatto, si è lasciato squarciare il cuore per versare tutto il suo sangue, sino all’ultima goccia. Quel cuore si è squarciato per amore, un amore che gli aveva fatto già squarciare i cieli, come chiedeva il profeta: “Se tu squarciassi i cieli, e scendessi!”(Is 63,19). Gesù i cieli li ha squarciati, ha abbandonato la sua dimora celeste ed è sceso sulla terra mendicante di amore, cercatore di uomini e di donne da salvare, amico di poveri e di deboli, di malati e di peccatori. Scrivono spesso gli evangelisti che tutta la gente lo cercava; da ogni città e villaggio della sua terra in tanti accorrevano a lui, perché aiutava tutti senza fare preferenza di persone; e non mandava indietro nessuno. E se delle preferenze c’erano, queste erano per i poveri, i deboli, i malati, i peccatori. Le pagine evangeliche sono un fiume di misericordia e di perdono, un fiume di amicizia e di guarigione. I più poveri e i più disgraziati se ne erano accorti e, ovviamente, ne approfittavano. Ogni momento era buono per loro per toccarlo, per parlargli, per stargli vicino. Ecco perché sentivano vere le parole delle beatitudini. Erano felici, erano beati, non perché erano poveri, ma perché Gesù amava loro prima degli altri, e li guariva, li aiutava. Se prendete il Vangelo di Luca, sembra che l’evangelista si compiaccia sfacciatamente nel sottolineare la frequentazione di Gesù con i peccatori e i pubblicani, proprio mentre i capi del popolo e i sacerdoti si scandalizzavano di questo. E l’evangelista Marco, nel descrivere una giornata di Gesù, mostra la festa che nasceva al suo passaggio: un clima nuovo si creava tra la gente, un clima di speranza, di attesa, di festa. E alla sera, nota l’evangelista, – e mi sembra di vedere il pranzo dei poveri che si fa in qui in Basilica nel giorno di Natale, che continua poi giornalmente nella mensa per i poveri qui accanto – “gli portavano tutti i malati e gli indemoniati…e tutta la città era riunita davanti alla porta”(Mc 1, 32-33) della casa ove si trovava Gesù con i suoi discepoli. Gesù era un uomo dal cuore grande. Da Lui sgorgava come un fiume di misericordia, un fiume di amicizia. E l’amicizia attraeva la gente, particolarmente i più poveri e più bisognosi. Ricordate la gioia di Zaccheo, il pubblicano, che scese di corsa dall’albero, appena Gesù lo chiamò. E come non pensare al sospiro di sollievo di quell’adultera, che sentiva già sulla sua carne il lancio delle pietre mortali, quando Gesù le parlò! Ebbene, Gesù lo hanno ucciso perché questo tipo di amore inquietava gli arroganti e sconvolgeva chi voleva conservare se stesso. Era un cuore troppo grande per un mondo di cuori aridi. Quell’amore andava perciò eliminato.
Hanno cercato di contrastarlo sino alla fine, anche quando stava sulla croce. Glielo gridavano senza rispetto: “Salva te stesso! Salva te stesso!” Nella narrazione della crocifissione del Vangelo di Luca si ripete come un triste ritornello: “Salva te stesso!” Glielo dicono i capi del popolo per un’ultima beffa: “Salva te stesso!” Ma anche i soldati, forse per irridere gli ebrei, si uniscono: “Se sei il re dei giudei, salva te stesso!” E persino uno dei due ladri crocifissi con lui gli dice con quel poco di fiato che gli è rimasto: “Salva te stesso e anche noi!” Sì, “salva te stesso!” è il grido di tutti sotto la croce. Potremmo dire: è il vangelo di questo mondo, un vangelo che traversa frontiere e culture e che coinvolge tutti. E ce lo ripetiamo l’un l’altro fin da bambini: “salva te stesso”, “pensa a te”, “prenditi cura di te”. Tutti siamo convinti che salvare se stessi sia un pensiero saggio, una preoccupazione più che giustificata. Eppure, a guardarci bene dentro, nasconde una profonda crudeltà, perché giustifica l’indifferenza e condanna tutti alla solitudine e quindi alla violenza. Il principe del male tornava sul calvario per proporre a Gesù l’ultima grande tentazione, dopo quelle propostegli del deserto. Era la tentazione, mentre stava inchiodato su quel legno, a pensare finalmente a se stesso, una tentazione ragionevole, come del resto sono tutte le tentazioni. Non era del resto ragionevole per un uomo che digiunava da 40 giorni essere sfamato? Sì, verrà il tempo in cui Gesù moltiplicherà il pane, ma non lo farà per sé, lo moltiplicherà per i cinquemila uomini che avevano fame. Gesù – ed è qui la sostanza del Vangelo – non si è fatto carne per salvare se stesso, ma per salvare il mondo. Neanche sulla croce perciò poteva salvare se stesso, lui che era venuto per salvare gli altri. Non poteva accettare la cultura dell’amore per se stessi, lui che era venuto non per essere servito ma per servire.
La croce, quella croce che contempleremo nel campo di Tor Vergata, e che dal 1984 è divenuta come pellegrina nel mondo, traversando continenti e fermandosi in alcune grandi città del mondo, quella croce è per noi la salvezza. Per la comune cultura essa rappresenta una sconfitta. In verità su quella croce è stato sconfitto l’amore per se stessi ed ha trionfato l’amore per tutti. Per questo deve stare bene in alto, ed essere vista, perché resta il segno più alto dell’amore, la contestazione più alta per un mondo che ha fatto dell’amore per sé la legge suprema. Gesù, fin dalla nascita, ha vissuto per amore e con amore. Questo è il senso delle parole dell’apostolo Pietro quando scrive: “Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme”. Sì, Cristo ha patito per noi, ha vissuto cioè con grande passione, con un grande amore. Per questo si è trovato vicino agli esclusi della terra. Hanno anche cercato di escluderlo dalla vita, di metterlo fuori da Betlemme, appena nato, da Nazareth già dopo la prima predica, e da Gerusalemme anche morto. Ma il suo amore nessuno ha potuto disperderlo, nessuno ha potuto seppellirlo per sempre. Dio ha risuscitato Gesù dai morti ed egli è vivo. Per questo noi siamo qui, e continuiamo a radunarci attorno a lui. Egli è vivo, è presente. Il suo amore è più forte della morte. Ed è sul suo amore che noi siamo fondati. Noi possiamo anche disperderci, anzi, veniamo forse da una vita di dispersione, ma Gesù non conta i nostri peccati, non disprezza la nostra debolezza. Egli desidera stare ancora con noi, ed entrare con noi nel nuovo tempo. Piuttosto, non lasciamoci travolgere dalla corsa dietro a noi stessi, non difendiamo ad oltranza la durezza dei nostri cuori. Davanti a Gesù, non difendiamo le nostre ricchezze come le difese quel giovane ricco che poi dovette andarsene triste. Restiamo invece vicini a Gesù: è una grande scuola d’amore e una grande occasione di felicità. Sì, stando vicini a lui capiamo cosa vuol dire amare, cosa vuol dire vivere, cosa vuol dire essere felici. Lo seppe bene Pietro, l’uomo orgoglioso e sicuro di sé, che scontò amaramente questa sua presunzione. Ma poi, alla fine, sulle rive di quel lago ove l’aveva incontrato la prima volta, gli rispose: “Signore, tu sai che io ti amo”. E Gesù gli ripeté la stessa parola del primo giorno: “Seguimi!” Pietro, il primo degli apostoli, ci ripete di “seguire le orme” di Cristo. E il Papa ci invita a seguire quelle orme nel nuovo secolo. Entriamo con Gesù nel nuovo secolo per renderlo migliore. E seguire non vuol dire non avere difetti, non vuol dire essere degli eroi. Vuol dire ascoltare fedelmente ogni giorno il Vangelo. Questo piccolo libro è pieno di sapienza e di forza. E’ il bagaglio che dobbiamo portare con noi in questo tempo. Il Vangelo ci donerà un cuore nuovo, pensieri nuovi, sentimenti nuovi. Non più un cuore di pietra, ma di carne. Lasciamo che il Vangelo scenda nel nostro cuore e saremo liberati dal peso dell’egoismo, dal peso delle nostre abitudini, dal peso della nostra avarizia. Un uomo, una donna, possono cambiare se il loro cuore si riempie di amore. Il mondo può cambiare se ci sono uomini e donne con il cuore pieno di amore.
Quanti miracoli questo piccolo libro ha compiuto attraverso uomini e donne che si sono lasciati cambiare il cuore! Permettetemi di ricordarne solo uno legato a questa Basilica. Era il 4 ottobre del 1992 e, finalmente, dopo due anni e mezzo di trattative tra il governo e la guerriglia del Mozambico, si firmava qui accanto la pace. Erano passati 17 anni di guerra, con un milione di morti e più di un milione di rifugiati. Una piccola Comunità, quella di Sant’Egidio, forte solo del Vangelo, non certo del potere delle armi, della politica o dell’economia, questa piccola comunità era riuscita a far trovare la via della riconciliazione a chi conosceva solo quella delle armi. E’ solo un esempio della forza che sprigiona dalle pagine evangeliche. Questa forza deve essere liberata Dopo duemila anni esso torna a parlare ancora al nostro cuore e attraverso di noi deve parlare alla nostra generazione perché sia come illuminata da questa luce, sia come fermentata da questo lievito.
Per questo ascoltiamo ancora l’esortazione che Giovanni Paolo II ci ha fatto nel suo messaggio: “Non volgetevi perciò ad altri se non a Gesù. Non cercate altrove ciò che Lui solo può donarvi, giacché in nessun altro c’è salvezza…Non abbiate perciò paura di essere i santi del nuovo millennio!” Si apre per tutta la Chiesa, per ogni comunità cristiana, per ciascuno di noi una nuova stagione. C’è come una nuova chiamata, una nuova vocazione: apriamo il cuore al Vangelo e il mondo si aprirà all’amore.