San Giovenale

San Giovenale

Care sorelle e fratelli,


avete fatto bene a tornare a San Giovenale, difensore e protettore di questa nostra città. Forse avete intuito che allontanarsi da questa memoria significa rendere la vita di Narni più banale e più triste. Cosa vuol dire, infatti, riprendere la consegna dei ceri, come avete fatto ieri sera, e le antiche usanze dei secoli passati come i costumi e il corteo storico di oggi, se non il desiderio di ritornare alla fonte che ha dato vita a questa città? E voi sapete bene che non è certo la ripetizione esteriore di una tradizione a renderla salda e ricca, ma il suo legarsi alla fonte. Sì, Giovenale è come la sorgente di quel fiume che è Narni, un fiume che ha traversato secoli e che è giunto sino ai nostri giorni, appunto perché ha saputo tenersi legato alla sua sorgente. Provate a seccare la sorgente: che ne succederà del fiume? Che ne sarà di Narni se sempre meno ci alimentiamo a quella fonte che è san Giovenale?


Care sorelle e cari fratelli, mancherei al mio amore per voi, alla mia passione per Narni se non vi confidassi oggi, giorno della festa del santo patrono, la mia preoccupazione per questa nostra città, la mia angoscia per i nostri figli, per il futuro dei piccoli e dei più giovani, la mia ansia per i nostri anziani e per gli anni che restano loro di vivere, la mia inquietudine per gli adulti, uomini e donne, e per la difficile vita di ogni giorno sia a casa che al lavoro. Voglio molto bene a Narni. Voi sapete quanto mi sia adoperato per il mondo del lavoro, per alleviare i danni del terremoto, arricchire il patrimonio culturale. Ma soprattutto sapete quanta energia ho speso perché il Vangelo fosse annunciato, perché i deboli e i malati fossero consolati. Per questo non posso tacere la mia preoccupazione per Narni: è la città della diocesi cha ha la più bassa frequenza alla Messa domenicale. Solo una persona su dieci viene a Messa la domenica. Per me è una grande sofferenza. Non tanto perché non si rispetta un precetto. No, non è questione di precetti da rispettare. Il problema è ben più profondo. Se a Narni solo 10 persone su cento frequentano il Vangelo, se 90 persone su mille non sanno dare neppure un’ora della loro settimana a Dio, è inesorabile che cresca una città egoista, indifferente, litigiosa, invidiosa, maldicente, divisa, che non sa guardare oltre il proprio piccolo o grande potere senza avere la capacità di pensare al bene comune di tutti. La vita di Narni – in queste condizioni – rischia di correre verso la tristezza e quindi la violenza.


Care sorelle e cari fratelli, non posso tacere. Dice il salmista: “Per amore di Gerusalemme non tacerò!” Non posso tacere di fronte al rischio dell’avanzare della tristezza, con tutte le conseguenze che questo comporta. Ieri a pochi chilometri di qui, due giovani, due fidanzati in cerca di emozioni forti, si sono sfracellati sulle pietre del fiume precipitando da settanta metri per un tragico gioco, che viene pure reclamizzato. Davvero, poveri giovani! Qualcuno potrebbe dire: se la son voluta! A me non basta. E mi viene da pensare che è davvero crudele quella società che fa scegliere “giochi” come questi, magari perché non sa offrire le emozioni vere della vita. Sì, la felicità vera non sta nella soddisfazione personale, ma nel vedere sbocciare il sorriso anche sul volto degli altri, nel vedere crescere attorno a sé fraternità e gioia. Quei due giovani, con la loro tragedia, ci dicono che non basta essere giovani e fidanzati per essere davvero felici. La felicità non sta nel soddisfare se stessi e i propri progetti. La felicità non sta nel far crescere i propri affari, e le proprie emozioni, fossero anche affari ed emozioni religiosi. Anche la nostra Chiesa sarebbe triste se lavorasse solo per se stessa. Lo ripeto: la nostra Chiesa non ha nulla da rivendicare e da pretendere. Nostro desiderio è servire Narni e rendere la vita di tutti, nessuno escluso, più felice. Sento forte l’interrogativo anche per me e per i responsabili della pastorale, sacerdoti e laici, di questa situazione. E mi interrogo su cosa fare, su come rendere la vita di tutti più felice.


Giovenale torna oggi ad indicarci la via della felicità. Egli continua a dirci che è felice chi ama il Signore e chi spende generosamente la propria vita per gli altri, per la crescita della comunità civile e religiosa. E per primo ce ne ha dato l’esempio, spendendo tutta la sua vita per amare il Signore e per amare i suoi concittadini di Narni, nessuno escluso. Noi, invece, al Signore non sappiamo dare nemmeno un’ora la settimana (la Messa la domenica), e agli altri neppure quell’ora. E lo dico di coloro che pure si professano cristiani! Come possiamo pretendere di non avere una vita triste? Giovenale ha combattuto contro questa tristezza. Egli non cedette alle pressioni per rinnegare il suo Signore. E continua ancora oggi a lottare per liberarci dalla schiavitù dei tanti idoli sui cui altari sacrifichiamo grande parte della nostra vita. I nostri idoli sono diversi da quelli del suo tempo, forse più sofisticati, ma anche più insidiosi. La felicità è descritta nel comandamento che Gesù ci ha donato: “Vi do un comandamento nuovo: di amarvi gli uni gli altri; come io ho amato voi, così voi amatevi gli uni gli altri”. Sono parole che se ascoltate cambierebbero la faccia di Narni. Facciamole nostre e, ne sono certo, Narni risplenderà di luce nuova, risplenderà, appunto, della luce dell’amore, della luce della misericordia, della luce di un cuore largo com’è largo il mondo. Il Signore ha un’ambizione su questa nostra città: farla risplendere per l’amore. Non mortifichiamola con la nostra superficialità e il nostro egocentrismo. A che servirebbe una Narni chiusa in se stessa, rinserrata nelle ristrette mura e lacerata dalle lotte intestine? Arroccarsi significa intristirsi, spegnersi e, alla fine, morire. Altro è stato il senso della consegna dei ceri che ieri sera avete fatto. Abbiamo voluto far rivivere l’antica tradizione di liberare un condannato in occasione della festa di San Giovenale: avete accettato che oggi questa tradizione significasse la liberazione di uno dei condannati a morte che giacciono in tante prigioni del mondo e il riscatto di alcuni schiavi, un commercio che ancora oggi avviene in Africa.


Stamane le parrocchie consegnano il cero, il segno della luce dell’amore che deve ardere ovunque, in ogni arte, in ogni castello. Questa è la vocazione che auspico per Narni e per ogni parrocchia. Scrive l’apostolo Paolo: “Vi esorto, dunque io, prigioniero nel Signore, a condurre una vita degna della vocazione a cui foste chiamati, in tutta umiltà, sopportandovi gli uni gli altri con amore e studiandovi di conservare l’unità di spirito mediante il vincolo della pace”.


E la vocazione a cui siamo chiamati, fratelli e sorelle, è quella di camminare in questo nuovo millennio con un cuore più largo, con un cuore più generoso, con la lampada dell’amore accesa. E ricordiamoci, che nessuno ha l’amore per carattere, da se stesso. Può forse una candela accendersi da se stessa? C’è sempre bisogno che la fiamma venga da fuori. Quando e dove allora si accende la lampada dell’amore? L’amore si accende e si apprende la domenica a Messa. Tornate a Messa se volete che Narni splenda. Torniamo a Messa la domenica e rendiamola la festa comune della famiglia del Signore. Ogni domenica è Pasqua; giorno in cui annunciamo la vittoria della vita sulla morte, dell’amore sulla sull’odio. Sì, la Messa della domenica ci salverà da una vita triste e ripiegata su noi stessi. La Messa della domenica è il cantiere ove veniamo costruiti come una grande famiglia: qui ascoltiamo il Vangelo, qui ci uniamo al corpo stesso di Gesù, qui riceviamo i sentimenti buoni, qui siamo resi forti per contrastare il male. Sì, la domenica salva la nostra vita, salva la vita delle nostre parrocchie, salva la vita stessa di Narni.