Protomartiri francescani
“Il 16 gennaio del 1220 venivano martirizzati in Marocco i primi cinque francescani che si erano recati a predicare il Vangelo tra i musulmani. Un volume di Paolo Rossi (Francescani e Islam. I primi cinque martiri), che esce in questi giorni, ci offre la prima ricostruzione della vicenda di cinque frati tutti della bassa Umbria (erano di Calvi, Stroncone, Sangemini e Narni). L’autore fa ruotare la ricostruzione del loro martirio attorno ad una “cronaca” da lui ritrovata e che lo stesso Sabatier riteneva perduta. I cinque frati, attratti dalla predicazione di san Francesco, raccolsero il sogno dell’assisiate di predicare il Vangelo tra i musulmani. Era il 1219, quando partirono per la “Via del Marocco”, armati solo della parola evangelica. Non avevano alcun atteggiamento di violenza o di offesa, ma solo fedeltà assoluta al Vangelo. Si ponevano così nella grande scia dei martiri cristiani dei primi secoli, per i quali l’effusione del sangue conduceva alla vetta della perfezione. Il martirio, infatti, identificava a Cristo stesso, talora chiamato primo martire. La chiesa del primo millennio è nata dal sangue di generazioni di martiri. Tertulliano diceva: “Diventiamo più numerosi, tutte le volte che veniamo uccisi: il sangue dei cristiani è un seme”. Quel patrimonio di testimonianza ha sostenuto la fede dei cristiani dei secoli successivi, rendendoli consapevoli che senza una distanza critica dalla mentalità del mondo la chiesa si isterilisce. Lo compresero bene i monaci, i quali, sostituirono il martirio alla “fuga mundi”. Ebbene, questi primi martiri francescani, (ignoti ai più, compresi gli umbri), fanno parte di quella schiera di testimoni del Vangelo che hanno segnato l’inizio del secondo millennio e che fecero dire a San Francesco, quando apprese la notizia della loro morte: “Ora posso dire di avere i primi cinque veri frati minori!”. Mi pare significativo ricordarli ora mentre il rapporto con l’Islam torna ad agitare le cronache. Allora, eravamo all’inizio del rapporto dei francescani con l’Islam. Era un rapporto complesso che Francesco volle affrontare in modo del tutto originale, forte unicamente della parola evangelica. Nella via da lui tracciata si incontravano, sino a identificarsi, la “via crucis” e la “via amoris”. Era l’accettazione piena del martirio cristiano come culmine dell’amore. Per il cristiano non è concepibile una morte che comporti la distruzione della vita altrui. Il martire cristiano non potrà mai aderire a quella mentalità che farebbe dire: “muoia Sansone con tutti i filistei”. Il martirio cristiano contempla unicamente l’offerta della propria per il Vangelo. E’ quanto fecero anche questi cinque frati, i quali, pur essendo pienamente dentro la cultura dell’epoca e quindi seguendone i tratti umani e anche religiosi, mostrarono tuttavia il valore perenne dell’amore. La loro testimonianza torna in un mutato contesto storico e religioso. Il Vaticano II ha compreso in modo più profondo il rapporto con le altre religioni, in particolare con l’Ebraismo e l’Islam e parla del dialogo e dell’annuncio come di due aspetti dell’unica missione della Chiesa. E con chiarezza afferma che dialogare non significa affatto perdere o attutire la propria identità. E neppure rinunciare alla missione (né Francesco né questi frati vi rinunciarono). Semmai esorta ciascun credente a tornare alle sorgenti della propria fede. E’ quanto accade negli incontri interreligiosi iniziati da Giovanni Paolo II ad Assisi nel 1986. Essi indicano un itinerario, anche se non privo di difficoltà. C’è una convinzione di fondo: le mura che ci separano non arrivano sino al cielo. E il cielo che avvolge tutti si chiama Amore. Lo “spirito di Assisi”, che sentiremo ancora soffiare il 24 gennaio prossimo ad Assisi, non è comunque scontato. Esso va coltivato con perseveranza perché porti frutto all’interno di tutte le grandi religioni mondiali. Si tratta di liberare le non poche energie presenti nelle diverse tradizioni religiose. E la preghiera è la dimensione più chiara di quella energia di pace che abita nei cuori dei credenti. E’ quanto Giovanni Paolo II si è auspicato, chiudendo il suo discorso ai diplomatici: “L’auspicio mio più fervido e che credo sarà presente in tutti i partecipanti al prossimo incontro di Assisi, è che rechiamo tutti nelle nostre mani disarmate la luce di un amore che nulla riesce a scoraggiare”.