Professione solenne di Suor Rosachiara

Professione solenne di Suor Rosachiara

Carissime sorelle del monastero, cara suor Rosachiara, sorelle e fratelli tutti,


questa santa liturgia di Pentecoste ha spalancato per noi le sue porte e, quasi prendendoci per mano come madre premurosa, attraverso le parole e i segni ci accompagna perché tutti noi possiamo comprendere e gustare la profondità, l’altezza e la bellezza dell’amore del Signore. E per rendere ancor più piena la nostra gioia questa liturgia si arricchisce della professione solenne di suor Rosachiara. Credo che tutti sentiamo forte l’emozione di questo momento di grazia. Posso confessarvi che grande è per me la commozione; non tanto perché è la prima professione solenne che celebro, ma soprattutto perché dopo tanti anni la nostra chiesa diocesana può finalmente offrire al suo Signore una sua figlia come frutto prezioso che Lui stesso ha generato. Sì, felice è oggi questa terra, felice è Stroncone, che ha visto nascere Rossella! E felice sei oggi, chiesa di Terni che offri al tuo Dio questa figlia che qualche anno fa ha preso il nome di Rosa Chiara! E felice è questa comunità monastica che oggi sente come sovrabbondare l’amore di Dio nella professione solenne di una sua figlia!


Il Vangelo che abbiamo ascoltato ci riporta alla sera della Pasqua, nel cenacolo, nel luogo cioè dove i discepoli, tre giorni prima, avevano visto il loro maestro farsi pane spezzato e cibo versato per loro e per tutti; e, come se questa manifestazione d’amore non bastasse, lo avevano visto, immediatamente dopo, chinarsi sino ai loro piedi per lavarglieli. Quale grande e incommensurabile mistero di amore! Eppure essi, ancora presi dalle loro paure e dal loro orgoglio, non compresero la profondità di quell’amore. Passarono cinquanta lunghi giorni ed essi erano ancora nel cenacolo, in quella sala superiore, ma le porte di quel luogo erano chiuse per paura dei giudei. Si trattava forse della paura, più che ragionevole, di perdere quell’amicizia che si era creata tra loro, o anche del timore, ancor più giustificabile, di dover rinunciare a quanto avevano imparato da Gesù. Insomma, avevano paura di allargare l’amore e pensavano che era cosa saggia restare nel chiuso delle proprie abitudini. Ma ragionavano secondo gli uomini e non secondo Dio. Si lasciavano guidare più dalla grettezza dei loro pensieri e dei loro ragionamenti che dalla larghezza dell’amore del Signore. Dovevano ricevere ancora lo Spirito Santo che li avrebbe guidati alla verità tutt’intera, come aveva detto loro Gesù prima di morire. Essi avevano dimenticato quelle parole, come spesso capita anche a noi. Avevano bisogno di ricevere lo Spirito Santo “per crescere in modo da edificare loro stessi nella carità”, come scrive Paolo agli Efesini (4,15). Tutta la loro persona doveva essere come avvolta e accesa da un fuoco nuovo.


C’era bisogno della Pentecoste, ossia di un terremoto spirituale, di un vento impetuoso e forte che spazzasse via ogni resistenza all’amore che Dio voleva effondere nei loro cuori. Con il mistero della Pentecoste, con quel terremoto d’amore, iniziò la storia della chiesa, la storia dei discepoli e delle discepole di Gesù. E dobbiamo dire, care sorelle e cari fratelli, che solo così, solo con questi terremoti d’amore la storia dei cristiani può continuare lungo i secoli, di generazione in generazione. Potremmo dire che ogni generazione ha bisogno della propria Pentecoste, di questi terremoti d’amore, per riprendere il cammino con la forza che lo Spirito Santo dona ai suoi figli e alle sue figlie.


Sì, cara Rosachiara, oggi per te è Pentecoste, vorrei dire: è per te un terremoto d’amore. Perché chiamiamo questa celebrazione “professione solenne” se non per indicare che si tratta di un evento d’amore assolutamente straordinario e forte, appunto, come un terremoto? Lo Spirito Santo, infatti, come una lingua di fuoco, o meglio come una corona di spine, si poggerà sul tuo capo, per indicare la corona di gloria alla quale sei stata chiamata, mentre l’anello che ti porrò al dito ti legherà per sempre a Gesù, tuo sposo. E tu parlerai una lingua nuova, la lingua dell’amore senza limiti, la lingua dell’amore radicale: è il senso della professione solenne che fra poco farai davanti alla comunità delle sorelle e davanti all’intera chiesa. E la farai a voce alta, così come fece Pietro nel giorno di Pentecoste quando a voce alta parlò dell’amore di Gesù a coloro che si erano radunati davanti alla porta del cenacolo. Leggo nei tuoi occhi la gioia di donarti al Signore. E dal tuo volto appare la decisione – come tra poco dirai – di “abbracciare la forma di vita del Vangelo di nostro Signore Gesù Cristo” secondo la tradizione di Chiara e di Francesco. Chissà, se ci fossero qui uomini e donne che ragionano secondo il mondo direbbero ancora, come lo dissero per i discepoli quel giorno, e certamente qualcuno lo ha anche detto a te, che ti “sei ubriaca di mosto”, che sei impazzita. E, in certo senso, è vero. La Pentecoste è come una ubriacatura d’amore che non lascia più come si era prima, che fa lasciare tutto dietro di sé per prendere l’unica cosa che conta: Gesù. Lo Spirito realizza in noi quello squilibrio di amore che è proprio di Gesù, “il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo…facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce”. Non si disse anche di lui che era folle e uscito di senno? Ed era vero. Come fu vero per Chiara e per le sue sorelle. Essere come Gesù, avere il cuore e la mente simili a quelli di Gesù, questo fu l’ideale di Chiara. Fra Stefano di Narni dice che Francesco chiamava Chiara semplicemente: “la cristiana”, appunto, l’amante di Cristo che poteva dire: “non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”.


Il mondo ha bisogno di questa follia d’amore. Per questo la Pentecoste che stiamo celebrando con te, cara Rosachiara, non è un fatto che può restare chiuso tra queste mura, quasi fosse un fatto privato. La tua professione solenne riguarda l’intera nostra chiesa diocesana. E non solo per oggi. In verità il tuo amore, assieme a quello delle tue sorelle, è come quella lingua di fuoco che si è posata nella nostra chiesa diocesana e che l’accompagna tutti i giorni e tutti gli anni. Sì, mi piace immaginare il vostro monastero come una di quelle lingue di fuoco che scese nel giorno di Pentecoste continuano ad illuminare il cammino di tanti e a scaldare d’amore il cuore di questa nostra chiesa diocesana e di chiunque si avvicina a voi. Come non scrivere di te, Rosachiara, e di voi care sorelle del monastero, quel che la bolla di canonizzazione scriveva per Chiara? Ripercorrendo l’episodio evangelico di Maria che rompe il vaso prezioso del profumo per ungere i piedi del Signore, la Bolla dice: “Chiara si nascondeva, ma la sua vita era nota a tutti. Taceva: ma la sua fama gridava. Si teneva nascosta nella sua cella: eppure nella città si predicava di lei. Nulla di strano in questo: perché non poteva avvenire che una lampada tanto vivida, tanto splendente, rimanesse occulta senza diffondere luce ed emanare chiaro lume nella casa del Signore; né poteva rimanere nascosto un vaso di aromi, senza emanare fragranza e cospargere di soave profumo la casa del Signore. Ché anzi, spezzando duramente nell’angusta solitudine della sua cella l’alabastro del suo corpo, riempiva degli aromi della sua santità l’intero edificio della chiesa”. E’ l’augurio che faccio a te, Rosachiara e che allargo a tutto il monastero. E con grande affetto e tenerezza vi accompagno con la benedizione stessa di Santa Chiara: “Siate sempre amanti di Dio e delle anime vostre e di tutte le vostre sorelle, e siate sempre sollecite di osservare quanto avete promesso al Signore. Il Signore sia sempre con voi, ed Egli faccia che voi siate sempre con Lui. Amen”.