Prima catechesi a Colonia

Incontrare Cristo nell’Eucarestia

Incontrare Cristo nell’Eucarestia



“Videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono” (Mt 2,11)


  


Gioirono al vedere la stella…



 



Cari amici, come possiamo aprire questo nostro incontro senza ricordare colui che per primo ci ha dato l’appuntamento a Colonia, Giovanni Paolo II? Era l’ultimo giorno della GMG di Toronto e Giovanni Paolo, con la sua flebile eppure fortissima voce ci diede appuntamento a Colonia. E siamo venuti. E lui c’è. E lo incontriamo. Sta in mezzo a noi, ancor più di prima, e più felice ancora che in passato. Chi di noi riesce a togliersi dalla memoria quel nostro grido, “Giovanni Paolo! Giovanni Paolo!”, che ha scandito gli anni delle GMG? Per 26 anni ci ha fatto alzare lo sguardo verso la stella; potremmo dire che lui stesso era divenuto una stella, per noi e per il mondo. L’abbiamo seguito da Roma e poi nelle altre città del mondo sino a giungere qui, a Colonia. E sempre abbiamo vissuto giornate indimenticabili che ci hanno aiutato a vivere e a lavorare per un mondo di giustizia, di amore e di pace.


La scomparsa di Giovanni Paolo II ci ha fatto tornare a Roma in tanti: volevamo stringerci attorno a lui per dirgli tutto il nostro affetto e il nostro grazie. In quei giorni di aprile la tristezza era tanta, e un senso di vuoto incombeva su tutti. E tuttavia l’eredità che ci aveva lasciato ci bruciava nel cuore. Non potevamo e non volevamo fermarci. Abbiamo raccolto il suo sogno e abbiamo ripreso il cammino. E in quei giorni accadde anche a noi il miracolo dei magi. Scrive l’evangelista Matteo: “Ecco che la stella, che avevano visto nel suo sorgere, li precedeva”. Sì, anche nel nostro cielo è riapparsa la stella che ci sembrava scomparsa: è venuto Benedetto XVI e ce l’ha indicata di nuovo. E noi “al vederla abbiamo provato una grandissima gioia”. Sì, papa Benedetto – un uomo, un nome che parla di pace e di Europa – ci ha riproposto lo stesso sogno di Giovanni Paolo II. E assieme, con Giovanni Paolo in alto e Benedetto davanti, siamo venuti a Colonia. Non siamo a caso qui: ci guida un uomo che si chiama Benedetto. E ci ha condotto nel cuore dell’Europa per ritrovarci attorno a Gesù, per dire a tutti che è Gesù il tesoro deposto nel cuore del mondo, nel cuore di ogni continente, nel cuore di ogni nazione, nel cuore di ogni uomo e di ogni donna. È un tesoro che non viene né dalla natura né dalla cultura e neppure dalla civiltà, viene dall’alto, come sta scritto: il “Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”(Gv 1, 14).


Purtroppo il mondo, ancora una volta, non se n’è accorto. Il prologo del Vangelo di Giovanni nota amaramente: “Venne tra i suoi, ma i suoi non l’hanno accolto”. È un’affermazione che deve farci riflettere e renderci pensosi. È facile non accorgerci di Gesù che bussa alla porta del cuore; è facile essere presi da se stessi e non pensare a quel bambino ch’è nato. Ma noi abbiamo ricevuto la grazia di questo incontro.


 


Per incontrare un bambino

 


Quel bambino ha cambiato il corso della storia. I cristiani, se ne resero conto e iniziarono a contare gli anni a partire proprio da quel giorno. E sono tanti oggi coloro che contano gli anni dividendoli in prima e dopo la nascita di Gesù, anche se molto magari non sanno più cosa vuol dire. Per noi però è chiaro; gli anni iniziano a contare da quel gesto incredibile di amore. Senza quell’amore non conta più nulla, né i giorni, né gli anni, né le ricchezze. Quante volte anche noi facciamo l’esperienza amara di non essere più voluti bene e nulla ci sembra più contare! Ma da quel giorno nessuno può più dire di non essere voluto bene. C’è almeno uno, Gesù, che è pazzo di amore per noi, per me, per te, per tutti. Egli ci ama più di quanto noi amiamo noi stessi. Per questo resta tra noi anche se poche volte pensiamo a lui, e anche se davvero pochi nel mondo se ne accorgono.


Del resto anche in quel primo Natale furono pochi ad accorgersi di quel bambino: alcuni pastori, uomini disprezzati da tutti, e i tre magi, un gruppo di poveracci e tre ricchi stranieri. I pastori e i magi, pur essendo molto diversi tra loro, avevano una cosa in comune: il cielo. E fu il cielo a muoverli. I pastori non si mossero verso quella grotta perché erano buoni o perché avevano capito, ma perché alzando gli occhi al cielo videro l’angelo, ascoltarono la sua voce e obbedirono. Così pure i magi. Non lasciarono la loro terra per una nuova avventura o per chissà quale strano gusto; certo, essi attendevano un mondo diverso, più giusto, e per questo scrutavano il cielo: videro quindi una “stella” e fedelmente la seguirono. I pastori e i magi, cari amici, ci suggeriscono che per incontrare Gesù bisogna alzare lo sguardo da noi stessi per non restare prigionieri dei nostri piccoli orizzonti, delle nostre abitudini scontate, della nostra pigrizia. L’angelo del Signore e la stella del Vangelo ci guidano verso la stessa grotta dei pastori e dei magi per adorare il Bambino ch’è nato.


Colonia, in questi giorni, è per noi quel che fu Betlemme per i magi. Anche noi in questi giorni, come sta scritto, vedremo “il bambino con Maria sua madre”, e assieme ai magi e a tanti fratelli e sorelle venuti da ogni parte del mondo, “prostrati lo adoriamo”. Quei singolari personaggi, giunti in quel singolare santuario, pur essendo re, si inginocchiarono davanti a quel bambino. Loro ch’erano abituati a ricevere onori ed ossequi, si prostrarono davanti ad un bambino. Sembrò un gesto strano; ma in quel bambino, debole e indifeso, avevano riconosciuto il loro Salvatore. Così sia, anche per noi. Non è scontato prostrarsi, e tanto meno davanti a un bambino.


In effetti la reazione di Erode e degli abitanti di Gerusalemme fu ben diversa da quella dei magi. Appena seppero del bambino non sentirono la gioia dei magi; al contrario, tutti si turbarono. Il popolo non voleva perdere le abitudini, ed Erode non voleva perdere il trono. La loro reazione, cari amici, non è estranea a quella di questo nostro mondo. La maggioranza vuole costruire una società ricca, tranquilla e consumista ove non ci sia spazio mentale per l’altro e per quanto va oltre se stessi e le proprie preoccupazioni. L’obiettivo insomma è la tranquillità e il benessere per sé; e da ottenere subito. L’uomo e la donna, soprattutto occidentali, i nostri amici che incontriamo a scuola, al mercato, in ufficio, per strada, sono come concentrati su se stessi e sui propri affari. L’aspirazione che li guida è essere soddisfatti, nel senso del piacere della propria vita, del proprio corpo, dei propri sentimenti. E quale lo scopo della vita? Stare tranquilli. Ma in questo modo si costruisce un mondo di soli, un mondo di uomini e di donne soli, di ragazze e di ragazzi soli, di anziani soli…


Ed ecco che l’amicizia, quella vera, è rara, davvero rara. Tanto che per attirare l’attenzione su di sé dobbiamo inventarci di tutto, fare i salti mortali, tanto più alti quanto è più duro il cuore di chi ci sta vicino. La preoccupazione costante per noi stessi ci rende distanti gli uni dagli altri, anzi ci rende competitivi, concorrenti, potenziali nemici, e porta a non fidarci l’uno dell’altro. Fin da bambini, infatti, ci sentiamo dire: “preoccupati di te!”, “pensa a te!”, “se non pensi a te stesso, nessun altro si preoccuperà di te”.


 


Un Dio in discesa

 


Ma, mentre sulla terra corre questo triste ritornello, nel cielo c’è chi si commuove per noi, c’è chi è disposto persino a scendere tra gli uomini per dare la sua stessa vita. Cari amici, noi siamo venuti a Colonia, guidati dai magi, per incontrare un bambino che per primo non si preoccupa di se stesso, ma del mondo intero, di tutti gli uomini e di tutti i popoli. Quel Bambino è Dio che si è fatto uomo. È questo il mistero grande che siamo venuti a contemplare a Colonia, un mistero che anche oggi sembra nascosto ai sapienti e agli intelligenti, ai potenti e ai ricchi. Ma non è nascosto a noi, a voi giovani, che ci siamo lasciati guidare dalla stella. Il mistero è proprio questo: Dio ha scelto di chinarsi su di noi per salvarci, per renderci liberi, per renderci felici, per liberarci dalla schiavitù della solitudine e della morte.


Ricordate quel che Dio disse a Mosè: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei sorveglianti…e sono sceso a liberarlo…per farlo uscire da questo paese per un paese più bello” (Es 3, 8). Da quel momento la storia di Dio è la storia di un amore in discesa; un amore che giunge in basso fino a noi e che tocca il culmine, fino al dono dello stesso Figlio. Il Bambino che siamo venuti ad incontrare è il Figlio di un Dio che non è voluto più restare in cielo a godersi la sua divinità. E possiamo immaginare nel paradiso quel colloquio tra il Padre e il Figlio che bruciavano d’amore, lo Spirito Santo, quando si trattò di decidere l’incarnazione. Lo so che stiamo balbettando, ma lo stupore di fronte a tale amore ci spinge a farlo. In quell’attimo eterno, mentre sulla terra si continua a ripetere “pensa a te, pensa a te”, il Padre sempre più disperato per la tragedia nella quale gli uomini si stavano cacciando, guardò il Figlio e Lui disse senza indugio: “Ecco, manda me!”. “E il Verbo si fece carne”. Ed è venuto anche se gli uomini, anche se noi, gli sbattiamo la porta in faccia, tanto che deve nascere in una stalla. Quel Bambino, che siamo venuti ad adorare, è la prima persona al mondo che ama gli altri più di se stesso. È colui che ha sconfitto la legge ferrea dell’amore per sé che teneva schiavi gli uomini da sempre. Sì, quel Bambino ha strappato dal principe del male il punto di appoggio per soggiogare gli uomini: l’amore per se stessi.


Cari amici, Erode e gli abitanti di Gerusalemme lo avevano capito. Per questo, alla notizia della sua nascita, si preoccuparono. Il grande Erode e il popolo della capitale avevano paura di un Bambino! Forse avevano ragione: avevano intuito che il mondo cambiava a partire da quel Bambino, a partire da quell’amore. Era vero. L’amore di Gesù detronizza ogni violenza, ogni oppressione, ogni ingiustizia. Lo aveva capito bene Maria, sua madre, che poco dopo cantò il magnificat: Dio “disperde i superbi pensieri nei pensieri del loro cuore, rovescia i potenti dai loro troni e innalza gli umili, ricolma di beni gli affamati e rimanda i ricchi a mani vuote”(Lc 1, 51-53); lo avevano capito poi Giuseppe, i pastori e i magi. E noi siamo qui per capirlo ancora meglio.


 
Ci ha amati sino alla fine

 


Quel bambino ha vissuto l’intera vita amando gli altri più di se stesso, dal primo giorno sino all’ultimo quando fu messo in croce. La pagina del Vangelo di Luca in cui si narra la crocifissione è segnata da un ritornello: “salva te stesso!”, “salvati e ti crederemo!”. Glielo gridavano i sacerdoti, la gente, i farisei, i due ladroni. Era un coro unico: “salva te stesso!”. Questo grido era, ed è ancora, il vangelo unico di questo mondo: “salva te stesso!” Ma come poteva salvare se stesso, Gesù, che era vissuto per salvare gli altri? Lo aveva anche detto: “non sono venuto per esser servito, ma per servire”. Fin dall’inizio della sua vita pubblica lo ha mostrato, quando si commosse sulle folle stanche e sfinite, come pecore senza pastore. Lui, buon samaritano, si è fermato lungo le strade degli uomini per curare i malati, i soli, gli abbandonati, gli esclusi, i poveri, i malati, i carcerati, i condannati a morte. Non manda indietro nessuno. Non si risparmia in nulla. Dà tutto se stesso. Questa è la ragione profonda della croce. Gesù non voleva morire. E lo disse: “Padre, se è possibile allontana da me questo calice”. E sudava sangue per la paura e il dolore. Ma non poteva tradire il Padre, non poteva tradire il Vangelo e quegli amici che aveva radunato… li amava più della sua stessa vita. Per questo accettò la croce. E per questo la croce accompagna la GMG fin dalla sua prima volta. Per uno che ama così non c’è posto in questo mondo. La croce ci sta davanti, e quella croce ci dice che l’amore è più forte della morte, che l’amore per gli altri è più santo dell’amore per sé. Quella croce è il segno di un amore che non conosce limiti per questo è la manifestazione di una umanità alta, non banale, che ha trasformato quel patibolo infamante in un segno altezza morale indicibile. La croce era uno scandalo; potremmo immaginarla come l’odierna sedia elettrica. Chi la onorerebbe? chi la innalzerebbe? Noi, invece, onoriamo e innalziamo la Croce, perché indica la vittoria della vita sulla morte, la vittoria dell’amore sull’egoismo. Da quel venerdì santo, l’egoismo non è più una legge inesorabile; e amare solo sé stessi non è più un istinto invincibile. Su quella croce ha trionfato l’amore per gli altri. Intendiamoci Gesù sta sulla croce, non perché gli piaceva soffrire, ma perché ha amato il Vangelo e gli uomini più della sua stessa vita. In questo senso su quel legno è stato restaurato l’uomo. Sì, dalla croce nasce un nuovo umanesimo, o se volete, un nuovo modo di essere uomini e donne, un nuovo modo di concepire la propria vita, la propria esistenza. E ce lo mostrano subito la madre di Gesù, Maria, e il giovane discepolo, Giovanni. Scrive l’evangelista: “”da quel momento il discepolo la prese con sé”(Gv 19, 27). Dalla croce sgorgava una nuova vita, una nuova solidarietà.


L’inizio di questo terzo millennio ha bisogno della Croce di Gesù e dell’amore che da essa sgorga; questo nostro mondo ha bisogno di uomini e di donne che si stringano attorno ad essa come facciamo noi in questi giorni. La Croce deve risplendere nella notte della paura e degli egoismi per indicare la nuova strada dell’amore: “da quel momento la prese con sé”. Questa via non è solo religiosa, è anche umana, pienamente umana. Il nuovo millennio – e domani ne parleremo più diffusamente – sembra basarsi sempre più sulla ragione delle armi e sulla forza della violenza. È sempre più facile parlare di guerra. Ma noi abbiamo bisogno di un’altra lingua: quella dell’amore, quella dell’incontro, quella della compassione, quella dell’amicizia. Gesù ha chiamato amico anche chi stava per tradirlo. E dalla croce ha perdonato anche chi lo stava crocifiggendo. La croce è la forza dell’amore, è la forza del primato del voler bene, è la forza di poter legare la propria vita agli altri. È di qui che inizia la risurrezione, è di qui che nasce la nuova vita. L’apostolo Paolo lo scrive ai Filippesi: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù”. E quali erano i sentimenti di Gesù? Paolo continua: “Egli, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome”(Fil 2). Paolo dice chiaramente che la risurrezione sgorga da quell’amore che ha portato Gesù sino alla croce. Dice infatti: “per questo”, ossia per il suo amore che lo ha portato sino alla morte, Dio “l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al sopra di ogni altro nome”. Non è possibile comprendere la risurrezione senza la croce, ossia senza l’amore di Gesù. E noi questo amore lo abbiamo ricevuto in dono. Sì, perché è un amore che non si trova tra gli uomini. Cari amici, non è naturale voler bene agli altri, non è naturale pensare agli altri prima che a sé, non è normale dare la propria vita per gli altri. Questo tipo di amore è divino, viene dall’alto non da noi. Questo amore si chiama Spirito Santo. E viene effuso nei nostri cuori da Dio stesso. Per questo dobbiamo chiedere a Dio che ci doni il suo Santo Spirito, che ci riempia del suo amore.


  


L’Eucarestia, sacramento dell’altare


 


Dove troviamo questo amore? Nell’Eucarestia. Sì, cari amici, prima di morire sulla croce Gesù ha voluto lasciarci il suo mistero d’amore racchiudendolo nell’Eucarestia. Ricordiamo le parole dette da Gesù in quella cena del giovedì santo: “Questo è il mio corpo… Questo è il mio sangue”. Nel linguaggio semitico significano semplicemente: “Questo sono io stesso”. Davvero è un “mistero della fede”, come diciamo nella Messa; ed è un mistero grande! Ma più che di una realtà misteriosa nel campo intellettivo – come sta Gesù nel pane e nel vino? – si tratta di un inconcepibile amore e per questo è un mistero. Insomma, chi avrebbe potuto immaginare una cosa simile? Quel pane e quel vino sono veramente il corpo di Gesù. Era davvero difficile inventare una cosa più grande di questa per restare assieme ai discepoli di tutti i tempi! Potremmo dire che Gesù per restarci accanto ha inventato l’impossibile. L’Eucarestia è il miracolo dell’amore di Gesù. E’ con gli occhi del cuore che dobbiamo contemplare il mistero della sua reale presenza tra noi.


San Giovanni Crisostomo, questo grande vescovo della prima Chiesa, diceva: “I Magi hanno adorato questo corpo reclinato nella mangiatoia…Ma tu lo vedi non più nel presepe, bensì sull’altare”. Questa intuizione l’ebbe anche San Francesco di Assisi. Ricordate tutti l’episodio del presepe a Greccio. Purtroppo è spesso mal conosciuto. Era il 1223 e Francesco voleva vivere davvero il Natale. Chiamò l’amico Giovanni Velita e gli disse: “Quest’anno voglio vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato Gesù nel nascere”. Badate bene, non voleva fare una sacra rappresentazione, come in genere si pensa. No, Francesco voleva “vedere” con gli occhi l’amore di Dio che, pur di starci accanto, accettava di nascere nel freddo di una grotta. E il presepe che fece Francesco non fu una sacra rappresentazione, ma la celebrazione della Messa su una mangiatoia, nel freddo e nella povertà di una stalla. E in quella celebrazione eucaristica fatta su una mangiatoia Francesco cantò il Vangelo, ebbe in visione il Bambino e lo accolse nell’Eucarestia al momento della comunione. Fu questo il presepe di Francesco. Un presepe che si ripete in ogni celebrazione eucaristica. E Francesco lo diceva spesso ai frati: “Vedete, ogni giorno il Figlio di Dio si umilia, come quando dalla sede regale scese nel grembo della vergine, ogni giorno viene a noi in umile apparenza; ogni giorno discende dal seno del Padre sopra l’altare nelle mani del sacerdote. E come ai santi Apostoli apparve in vera carne, così ora si mostra a noi nel pane consacrato”. Sì, il presepe nella grotta di Betlemme e in chiesa sull’altare. L’altare è la mangiatoia: qui il Signore nasce ogni volta che si celebra la Messa.


Ma Gesù come è presente nel pane e nel vino consacrati? Non in qualsiasi modo. Usando il pane e il vino e dicendo che era pane spezzato e sangue versato per noi, Gesù voleva intendere che Egli è presente nell’Eucarestia come pane “spezzato” e come sangue “versato”, ossia come uno dona tutto se stesso, come uno che si spezza per noi, che versa tutto il suo sangue per noi. Ecco quindi nell’Eucarestia Gesù è presente come l’amico che ci ama sino alla fine, che non risparmia nulla di sé stesso per amarci. Quel pane santo raccoglie, perciò, in una misteriosa sintesi, tutto l’amore di Gesù per i discepoli e per le folle di malati e di bisognosi che si accalcavano attorno a lui. Giovanni Crisostomo, a proposito della presenza del corpo di Gesù nell’Eucarestia, diceva: “È il corpo che fu insanguinato, colpito dalla lancia, da cui sgorgano le fonti salutari, quelle dell’acqua e del sangue, per tutta la terra”.


L’Eucarestia rende presente Gesù nella vita di oggi come colui che dona tutto se stesso. E ce n’è bisogno. Gesù, infatti, è l’unico capace di parlare al nostro cuore talora triste come quello dei due di Emmaus; è l’unico che sa accompagnare i nostri passi nel difficile cammino della vita; è l’unico che sa commuoversi sulle folle di questo mondo abbandonate al loro destino triste; è l’unico che sa prendersi cura di noi; è l’unico capace di consolare e confortare. Quel pane “spezzato” non ha bisogno di moltiplicare le parole. Parla da sé: Gesù, fattosi cibo per tutti, ci mostra sin dove giunge l’amore di Dio. E quel pane consacrato, con estrema efficacia, contesta il nostro modo gretto e avaro di vivere, le attenzioni e le cure meticolose per il nostro corpo, il nostro istinto tutto teso al risparmio della fatica e delle energie, la nostra abitudine a trattenere tutto per noi. Insomma, ognuno di noi cerca in ogni modo di risparmiarsi nei confronti degli altri per accentrare tutto verso se stesso, quell’ostia invece ci manifesta esattamente l’opposto: “non sono venuto per essere servito, ma per servire”.


Cari amici, con l’Eucarestia, questo amore non solo si avvicina a noi per starci accanto e difenderci, diventa persino nostro cibo e nostra bevanda perché noi diventiamo il “corpo” stesso di Cristo. L’eucarestia ci è data perché ciascuno di noi venga trasformato nel corpo di Gesù sino a che ciascuno di noi possa dire assieme all’apostolo Paolo: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”. L’intera tradizione della Chiesa insiste: non siamo noi ad assimilare il pane eucaristico, ma è il pane eucaristico che ci assimila a sé: “L’Eucarestia trasforma i fedeli in se stessa”(Massimo il Confessore). Tutti noi, partecipando all’Eucarestia, diventiamo ostie viventi per rendere a Dio quel culto spirituale di cui parla Paolo nella lettera ai Romani (12, 1-11). L’Eucarestia è davvero il culmine e la fonte dell’intera nostra vita, anzi dell’intera storia umana. La liturgia eucaristica inserisce in noi e nel creato l’energia stessa della risurrezione. Per questo il sacramento dell’altare è la fonte da cui tutto sgorga nella vita del cristiano e il culmine verso cui tende. Gregorio di Nazanzio voleva intendere questa realtà quando diceva: “Come con un poco di lievito si mescola a tutta la pasta, così il corpo innalzato da Dio all’immortalità, una volta introdotto nel nostro, lo cambia e lo tramuta tutto intero nella sua propria sostanza”. Non possiamo ora fermarci a parlare del mistero dell’Eucarestia che anticipa sulla terra il paradiso. Sarebbe necessario ben altro tempo. E tuttavia dobbiamo sapere che l’Eucarestia è uno spicchio di cielo sceso sulla terra: è lievito di paradiso che fermenta la pasta della terra. Comprendete allora che le domande a questo punto si fanno incalzanti: come sono le nostre Messe della domenica? come vi partecipiamo? si vede che sono un anticipo del paradiso? Ci sentiamo scaldare il cuore nel petto mentre ascoltiamo la parola di Dio? Si aprono i nostri occhi al momento della frazione del pane come si aprirono ai due di Emmaus? Certo è che se vivessimo la Messa come i due di Emmaus vissero il loro incontro con Gesù in quel giorno di Pasqua, quanto saremmo diversi noi e il mondo! E le nostre città sarebbero come svuotate dal male e riempite di cielo. E si inizierebbero a realizzare i nuovi cieli e la nuova terra di cui parla l’Apocalisse. Con la Messa inizia sulla terra un pezzo di cielo un pezzo di Paradiso.


Purtroppo tanto spesso la nostra partecipazione alla messa è scialba e scontata. Ma in questo modo bistrattiamo la Messa. Ed è una colpa grave. Cari amici, se l’Eucarestia è l’anticipo del Paradiso dovremmo correre verso di essa come i Magi corsero verso la grotta di Betlemme. E lì, inginocchiarci e adorare e contemplare e gioire per un amore così grande. Se questo avviene quell’Eucarestia ci metterà un fuoco dentro, il fuoco di cui parlava Gesù: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso”(Lc 12,49). E noi saremo persone diverse, uomini e donne non più secondo noi stessi, ma appunto secondo l’Eucarestia, uomini e donne eucaristici. La Messa è davvero il luogo dove siamo fatti nuovi a immagine di Gesù, morto e risorto. E non solo noi, ma l’intera creazione. L’eucarestia è il momento culminante della storia e a me piace dire che la fine del mondo, la fine della storia, avverrà durante la Messa, quando Dio sarà tutto in tutti. Per questo chi partecipa alla Messa partecipa già al compimento dei tempi, alla pienezza della storia. E come può restare uguale  a prima? Se i magi dopo aver incontrato quel bambino fecero ritorno per un’altra strada quanto più sarà vero per noi che partecipiamo all’Eucarestia?