Religione e Fede, convergenze possibili

Religione e Fede, convergenze possibili

GIULIANO AMATO INTERVISTA VINCENZO PAGLIA



Religione e Fede, convergenze possibili



da Reset n.90 – luglio/agosto 2005



Il dialogo tra credenti e non credenti è possibile e porta a convergenze inaspettate. Il laico che ha riconosciuto ai credenti «una marcia in più» e il vescovo presidente della Commissione della Conferenza Episcopale Italiana per l’Ecumenismo e il Dialogo si confrontano su temi sempre più centrali: il senso della vita; il rapporto reciproco e necessario tra fede e ragione e la critica ad ogni forma di aut aut manicheo; la comune consapevolezza dei limiti dell’uomo e della sua piccolezza di fronte al mistero; il ruolo della solidarietà per la convivenza civile; l’urgenza del dialogo tra religioni diverse al fine di un mondo senza conflitti distruttivi. E ancora secolarizzazione, relativismo, dogmatismo, intolleranza, cristianesimo, Concilio Vaticano II.


 


Giuliano Amato: Il tempo in cui viviamo è stato definito da Habennas e da altri il tempo delle società «post-secolari». Cosa significa società «post-secolare»? Con essa si intende la società nella per la quale è cresciuto il bisogno di Dio e del mistero, del confronto di con le grandi questioni alle quali non sempre sappiamo dare una risposta, dopo una stagione nella quale era parso che gli sviluppi delle democrazie occidentali avessero espulso, non dalla vita privata ma sicuramente dal dialogo pubblico, la religione. La secolarizzazione delle società è stato un grande fenomeno, anche civile, che ha portato alla liberazione da vecchie gerarchie: i giovani hanno messo in discussione un ordine familiare e scolastico nel quale non avevano voce, le donne una potestà maritale che le vedeva soggette al marito; ma, come capita sempre, insieme al bene c’è anche il male, un male che si è tradotto nella «egoistizzazione» delle nostre vite, in una libertà percepita come il diritto di fare qualsiasi cosa vogliamo. Probabilmente è stato proprio questo senso di solitudine, di libertà vissuta per proprio conto, che ha rigenerato il bisogno di Dio e riproposto, nel dibattito pubblico, i temi propri delle religioni. Il ritorno a Dio è stato così un forte richiamo ai valori e un antidoto, perciò, alla crescente indifferenza verso gli stessi valori in un contesto nel quale tale indifferenza ha finito per essere confusa, e per confondersi, con il relativismo, distorcendone il senso (giacché il relativismo altro non è se non la necessaria presa d’atto delle diverse visioni valoriali che ciascuno deriva dai diversi contesti in cui vive). Di qui i dilemmi manichei che oggi ci vengono presentati. Fede contro relativismo, mettendo chi condivide le buone ragioni del relativismo in urto frontale con la religione. Fede contro ragione, anziché fides et ratio, come pure è stato predicato. E fede contro fede, perché ogni fede è verità assoluta e le verità assolute non possono che confliggere fra di loro. Mi chiedo e le chiedo: che cosa significa questo affollarsi di dilemmi manichei? Le democrazie liberali sono indiscutibilmente nate sull’assunto che le religioni fossero un affare privato e la laicità della vita pubblica è stata costruita  – basti pensare al modello francese – con le stesse premesse. Come ha notato Habermas, dobbiamo prendere atto della persistenza della religione nella stessa sfera pubblica: la religione è ancora li con le sue questioni, le sue domande, la sua fede. Siamo noi a non essere in grado di adattarci, presentando la questione in termini dilemmatici, o la questione si presenta davvero in questi termini? E ciò significa una reale incompatibilità tra la religione e la sua stessa persistenza nella sfera pubblica di una democrazia?



Vincenzo Paglia: Vorrei anzitutto riprendere il tema della secolarizzazione da come lei ha iniziato. Senza dubbio è stato un fenomeno che ha segnato la storia del Novecento, soprattutto occidentale. Lei ne mostra gli aspetti positivi assieme a quelli negativi, come del resto accade per ogni realtà umana che porta sempre con se un bagaglio di ambiguità. C’è da dire che il Novecento è stato senza dubbio il secolo più secolarizzato della storia, nel senso che la fede è stata spinta sempre più nell’angolo della vita privata, facendole perdere quella rilevanza che aveva avuto nel passato nelle società. Era peraltro convinzione largamente diffusa tra gli intellettuali che le religioni sarebbero state comunque spazzate via dal progresso scientifico e umanistico. E l’uomo, emancipatosi dalla religione, sarebbe diventato finalmente libero e adulto nelle proprie scelte.


Come lei dice, è forse diventato più libero, ma certo più solo. In verità c’è stato un processo che ha toccato l’Occidente, e non solo, in maniera ancor più profonda, iniziato già nell’Ottocento con una affannosa corsa alla negazione di Dio, nella convinzione che soltanto così si sarebbe potuto garantire la libertà dell’uomo. Il convincimento era chiaro: doveva morire Dio se si voleva salvare l’uomo. Purtroppo, la fede in un uomo libero fondata sulla negazione di Dio ha condotto a quella tragedia che Henri De Lubac ha chiamato, con il titolo di un suo volume, n dramma dell’umanesimo ateo: alla morte di Dio è seguita quella dell’uomo. Da questo esito tragico è risorta la domanda su Dio che è conseguente alla solitudine radicale dell’uomo, al suo spaesamento in un mondo divenuto troppo grande e troppo buio. Martin Heidegger, a metà del Novecento, gridava: «Ormai, solo un Dio ci può salvare!». Non si riferiva al Dio della fede ma al bisogno di andare oltre la dittatura della tecnica che avrebbe ridotto anche l’uomo ad essere semplice strumento nelle mani del non-senso.


L’insopportabile vuoto esistenziale ha mosso i cuori a ricercare nella dimensione religiosa il senso della vita. C’è da rilevare che se il mondo era “uscito da Dio”, come qualche storico ha definito il Novecento, Dio non era uscito dall’uomo. Le religioni erano rimaste nel tessuto di vita di moltissime persone e sono “tornate di moda”. Herwey Cox, un teologo americano che negli anni Sessanta parlava di “città secolare” (e portava ad esempio la grande metropoli di New York che con i suoi grattacieli affogava gli edifici di culto facendoli scomparire dall’orizzonte anche visivo), cambia prospettiva e parla di un «fuoco» religioso, magari scomposto, che però avvampa le città contemporanee. Lo studioso si riferiva in particolare alla galassia pentecostale neoprotestante che si è diffusa in maniera impressionante sino a raggiungere alla fine del secolo circa cinquecento milioni di aderenti. All’inizio di questo nuovo millennio ci troviamo di fronte ad una duplice crescita, quella della secolarizzazione e quella della religiosità. È un fenomeno complesso che può apparire anche contraddittorio, ma che deve essere esaminato con attenzione, evitando semplificazioni manichee come quelle a cui lei accennava. Dentro questa complessità ci sono ricchezze incredibili ma anche debolezze notevoli (come non vedere, ad esempio, il pericolo rappresentato dalla deriva fondamentalista dell’Islam?). La vera questione comunque non sta nel contrapporre fede e ragione, società religiosa e società laica, sebbene sia importante comprendere la loro distinzione. Il vero problema, a mio avviso, è comprendere come ambedue possono contrastare la deriva nichilista che è insita sia nel relativismo che nel fondamentalismo. Se la ragione si lascia imprigionare dalle maglie della tecnica e la fede è ridotta a sentimenti magmatici, ambedue saranno soggiogate da quel relativismo che intacca i fondamenti stessi della vita e del convivere.


 


Quando il cardinale Ratzinger parlò di dittatura del relativismo ne indicò immediatamente la deriva individualista. Inteso in questa prospettiva, il relativismo è una malattia che può cogliere sia la ragione che la fede, indebolendole ambedue. Credo invece che fede e ragione siano chiamate a ritrovare la loro forza non per contrapporsi ma per una nuova alleanza di fronte alla crisi profonda in cui versa l’intero pianeta. Direi che abbiamo bisogno di più ragione e di più fede per aiutare il mondo a salvarsi dai conflitti che 10 distruggono. Credenti e non credenti (meglio ancora, la tradizione cristiana e quella del pensiero laico) sono chiamati, nella fatica dell’incontro e del dialogo, a individuare quel terreno comune sul quale fondare oggi la convivenza. In tal senso debbono essere «relativi» gli uni agli altri, fuggendo da ogni atteggiamento manicheo. Se il nostro sguardo si allarga al mondo islamico, a quello buddista e induista, si comprende quanto sia utile ritrovare le ragioni per nuove dimensioni condivise che rendano possibile la vita in questo nostro pianeta, divenuto sempre più un «villaggio», anche se globale. La grande fatica richiestaci è quella di apprendere l’arte del convivere tra diversi. Sarebbe pericolosissimo, oltre che antistorico, se per vivere assieme fossimo costretti ad abolire ogni differenza.


 


Giuliano Amato: Esasperando il senso delle differenze, si arriva alla conclusione che la pace sarebbe possibile solo in un mondo di cloni. Convivere con le diversità significa allora saperne cogliere i tratti comuni, pena l’impossibilità della sopravvivenza. E per farlo bisogna abbandonare ogni pregiudizio. La critica al relativismo – come ho già accennato – è rivolta soprattutto ad una errata interpretazione di esso, giacche il suo significato non è mai stato che ogni opinione sia uguale a qualunque altra e ogni valore uguale a qualunque altro. Il relativismo – già nelle sue origini (che sono nella linguistica) – ha piuttosto voluto esprimere l’esistenza di tratti comuni tra tutti gli esseri umani, ancorché questi finiscano per assumere connotati diversi a seconda del tempo, delle geografie, dei costumi nei quali si vive. Esso è quindi un invito a cogliere i tratti comuni e a non fermarci alla negazione e si distingue da quello che possiamo chiamare «nichilismo», ovvero dall’assenza di valori fondanti diversi dall’egoismo individuale. È stata infatti questa assenza a provocare una reazione naturale: per combattere la solitudine, la società è andata alla ricerca di Dio e lo ha fatto in modi differenti. Abbandonare le pregiudiziali significa anche avere il coraggio di superare quelle specie di armature logiche, all’interno delle  quali ci si convince di essere su fronti opposti. Una di queste armature logiche riguarda il rapporto tra fede e ragione, sul quale lei si è’ già soffermato. Ma vorrei riprenderlo notando, ancora una volta, che ciascuno di noi viene posto di fronte a concettualizzazioni che vogliono imporci un «aut aut». Ne dirò due: «La fede è fede in una entità onnipotente e onnisciente. E se di questo si tratta, nella universale volontà di un tale Dio tutto è già scritto da sempre». La ragione allora non ha spazio.



Ancora: un filosofo, rifacendosi al celebre passo «chi esita in cuor suo non ha fede», ha trovato in questa affermazione la negazione del dubbio e della ragione. Se ho fede nel Cristo, allora ho fede in qualcuno che ha negato il dubbio e se credo al dubbio non posso credere in lui.


In più, se tutto è stato scritto, il divenire stesso non ha senso: Ebbene, questi sono argomenti da incubo notturno, eppure hanno corso legale nei dibattiti teorici e meritano, se c’è, una risposta. Ci sono tuttavia altri i quali ritengono invece che fede e ragione, lungi dall’essere incompatibili, siano complementari, tanto in ciò che sanno quanto in ciò che non sanno: Norberto Bobbio, che non era un clericale, scrisse che ciò che accomuna fede e ragione è la soglia del mistero, davanti al quale entrambe si fermano. La ragione, se è davvero ragionevole, non può negare l’esistenza del mistero e il mistero è la nostra vita, l’enorme universo nel quale ci troviamo e del quale non sappiamo neanche il senso: tutto questo, è stato detto, presuppone un creatore, qualcosa o qualcuno che non sappiamo spiegarci. Qui c’è una soglia, dice Bobbio, davanti alla quale la ragione deve fermarsi. A sua volta, l’allora cardinale Ratzinger ha esplicitamente proposto l’alleanza – richiamata da lei poco fa -tra fede e razionalismo occidentale, affermando che entrambi concorrono a combattere il fanatismo, nemico tanto della fede quanto della ragione.


 


Vincenzo Paglia: Quando la fede e la ragione si polarizzano fissandosi agli estremi, ossia al relativismo che esclude ogni verità o al fondamentalismo che porta a demonizzare gli altri, ambedue tradiscono di fatto le loro stesse radici e contribuiscono a provocare quei disastri che talora la storia testimonia. Forse c’è bisogno anche di ridefinire i due termini (fede e ragione) per coglierne i limiti e la forza. Per quanto riguarda la ragione, è ancora vivo il dibattito sulla riduzione della ragione alla logica della «tecnica», con l’eclisse del pensiero filosofico e metafisico e il conseguente insabbiamento dei valori. Se si lascia totale libertà alla razionalità tecnica sganciandola dalla dimensione filosofica ed etica cadiamo nel vuoto dell’essere.


Non vado oltre in questo campo e mi fermo invece a spendere qualche parola in più sulla fede e il suo rapporto con la ragione. Spesso quando parliamo di fede ci si ferma unicamente al bagaglio delle «verità di fede», dimenticando che la fede è anche il coinvolgimento totale della persona umana con Dio. Insomma, il credente non è semplicemente colui che aderisce a verità di fede, bensì chi si lascia coinvolgere esistenzialmente da esse. Non basta insomma accettare i contenuti della fede per essere credente. Non a caso nel Credo diciamo credo «in» Dio e non credo «che c’è» un Dio; la fede implica l’affidarsi a Dio e non semplicemente ammetterne l’esistenza. Più volte abbiamo parlato esattamente di questa questione, i insieme e abbiamo convenuto che la fede non è la conclusione logica di un sillogismo, ma l’adesione a Dio sulla falsariga dell’innamoramento, che giunge sino al martirio. C’è però da sottolineare che in questo affidarsi a Dio non si esclude la dimensione razionale. È anzi richiesta, altrimenti la fede sarebbe disumana, come scrive Giovanni Paolo II nella Fides et Ratio. L’atto di fede coinvolge non solo la ragione ma l’intera persona umana alla quale è richiesta una decisone che vale la vita. Credere (ma non è così anche per la ragione?) è perciò sempre un rischio, dove coabitano certezza e dubbio, luce e oscurità, adesione e ricerca. È questa la ragione per cui l’apostolo Paolo parla della conoscenza del credente come di una visione «in speculum et in enigmate”. La fede cioè non è il possesso pacifico di un pacchetto di verità; essa è ricerca appassionata e anche drammatica, che esige una dedizione totale. La ragione, però, sebbene non sia la fonte della fede, entra nel processo di ricerca del credente: lo aiuta ad approfondire i contenuti della fede, a renderli comprensibili a se e quindi comunicabili anche agli altri. E ogni generazione cristiana è chiamata a «rendere ragione della speranza, cristiana, come scrive Pietro nella sua prima Lettera. Ed è una fatica che avviene con l’indispensabile aiuto della ragione. Per questo Giovanni Paolo Il, distanziandosi da un certo estremismo protestante, dice Fides et ratio, non aut fides aut ratio. L’assioma kierkegaardiano “credo quia absurdum”, deve semmai intendersi nel senso che la fede supera la ragione, non che la contraddice. Fede e ragione quindi si richiamano a vicenda e si sostengono mutuamente. Una fede senza ragione cade nel sentimentalismo e una ragione che esclude la fede rischia il nichilismo. Il problema è che ne la fede ne la ragione debbono lasciarsi cogliere dall’intolleranza di chi, sbagliando, si sente detentore assoluto ed esclusivo della verità. Una serena riflessione su queste due dimensioni dell’uomo ci porta a dire che credenti e non credenti si trovano ambedue davanti al mistero, come lei ha ricordato citando Norberto Bobbio. La fede e la ragione, infatti, rimandano ambedue ad un “oltre”; la loro stessa dinamica interna comporta una continua ricerca e un costante approfondimento. La fede e la ragione si ritrovano nell’orizzonte della libertà. Giovanni Paolo II, nella Fides et ratio, le paragona a due ali che permettono all’uomo di volare nel cielo della Verità. L’intolleranza, che può cogliere sia il credente che il non credente, è una patologia sia della fede che della ragione, perché sgancia ambedue dalla soglia del mistero che tutti ci coinvolge.


 


Giuliano Amato: Anche la bomba atomica nasce dalla ragione ed esprime nel modo più esasperato il rischio che corre la tecnica di sentirsi estranea all’etica: “Io faccio lo scienziato, l’etica riguarda i filosofi” è una bestemmia che qualche volta ho sentito e alla quale ho reagito, perché l’uomo è sempre c tutto intero, quale che sia la veste in cui fa le sue scelte. Le faccia da scienziato, da speleologo o da artista, in esse incontra sempre la dimensione del giusto e dell’ingiusto, e della strada che sceglie non può non rispondere. Ma tomo alla questione della fede che nega il divenire, sulla quale giustamente lei ha detto che ciascuno, credente o meno, si trova davanti alle proprie scelte, per cui per ciascuno vi è il libero arbitrio. Con la semplicità che caratterizzava il suo modo di esprimersi – eppure è stato filosofo di prima qualità – Giovanni Paolo II ha scritto: «Per renderti libero, Dio si è reso impotente. Questa è un’affermazione che ha un peso enorme. Non si nega la libertà di coscienza: al contrario, ci si dice «non ti illudere che tutto sia stato deciso, sei tu che lo stai decidendo, perché se Dio è davvero onnipotente è anche in condizione di non decidere nulla di ciò che spetta a noi. Anche questa è una prova di onnipotenza, mentre le valenze totalitarie e pervasive della scienza e della volontà di Dio sono figlie, in realtà, dei filtri limitanti della logica e dell’immaginazione umana.


 


Vincenzo Paglia: L’affermazione dell’impotenza di Dio è tratta dal patrimonio della teologia ebraica, e ha assunto il suo significato più drammatico durante la Shoah, quando gli ebrei si chiedevano dove fosse Dio mentre il suo popolo veniva annientato. In verità, già nella teologia ebraica della creazione si afferma il ritiro di Dio per dare all’uomo la responsabilità del creato. Un teologo ebraico, Gershom Scholem, scrive: «Dio – per garantire la possibilità del mondo – dovette rendere vacante nel suo essere una zona dalla quale Egli si ritrasse. Insomma Dio si autolimita. E l’uomo è il responsabile della vita, della storia e del creato. È da questo convincimento che Hans Jonas trasse la sua riflessione circa “l’etica della responsabilità” per sottolineare la libertà dell’uomo nella sua azione. Questo patrimonio è stato accolto anche dal cristianesimo che ha posto nella coscienza umana la sede ultima del giudizio morale. Ovviamente la coscienza deve essere ben formata in rapporto alla norma morale che trova il fondamento oggettivo in Dio e che è stata depositata nel cuore dell’uomo. Per questo il Concilio Lateranense IV può affermare: “Quid


quid fit contra conscientiam aedificat ad Gheennam”. Uomo pertanto non è una marionetta nelle mani di Dio. A lui è stata affidata la responsabilità del creato. Solo in questa prospettiva va inteso il noto adagio che dice di agire «come se Dio non ci fosse.. non si tratta di mettere tra parentesi Dio, bensì di accogliere la responsabilità di quel “dominare” la terra presente fin dalla prima pagina della Genesi. In ogni caso il “ritirarsi” di Dio dalla creazione non vuol dire disimpegno, bensì fiducia nella libertà umana. Ecco perché la domanda teologica, durante la tragedia della Shoah: “Dov’è Dio?” si trasforma in un’altra domanda: “Dov’erano, gli uomini?”.
La questione è che l’uomo facilmente dimentica la sua responsabilità di fronte a Dio, agli altri e al creato”.


 


Giuliano Amato: Vorrei fare un’ultima riflessione sulla ragione. Se c’è un mistero davanti al quale si ferma la ragione, questo è il mistero del creato, dell’universo, gigantesco nello spazio e nel tempo, e della sua enormità. Se è questo il mistero che propone con più forza la divinità, com’è pensabile che essa si scelga un frammento che non si chiamava neanche Israele, un pezzettino della nostra terra e quindi del pianeta più piccolo dell’universo, un pezzettino abitato da poche tribù; che chiami queste tribù “popolo eletto” ed estenda poi ai cristiani la sua predilezione? E come può questo immenso Dio mandare il suo unico Figlio proprio lì, ad occuparsi di questi frammenti piccolissimi di universo? È una follia.


 


Vincenzo Paglia: Esatto. È una follia che non ha una spiegazione logica; l’amico Arrigo Levi, proprio di fronte alla considerazione della immensità del creato e della piccolezza della terra, concludeva: “La ragione mi impedisce di credere”. Come può il Creatore degli universi pensare a quel piccolo popolo o a quell’infinitesimo di essere che è l’uomo? A me pare che si debba sottolineare, ancora una volta, l’incombere del mistero, di fronte al quale non resta che inchinarci. Un altro pensatore ebreo, Abraham Joshua Heschel, ha delle pagine molto belle sull’immensità dell’universo che ci avvolge e che non può che suscitare stupore: “la grandiosità sublime suscita un timore reverenziale che non esita e non indietreggia”. La fede però apre uno spiraglio se non di comprensione per meno di percezione di questo mistero. E ce avvicina fin dalla creazione quando Dio, al termine della sua opera, crea l’uomo e la donna e decide di stabilire con loro un patto. È il primo dei patti che Dio fa con gli uomini; un’alleanza che però viene rotta da Adamo ed Eva quando disubbidiscono a Dio. La Scrittura ci presenta poi un secondo patto, quello che Dio stringe con Noe. Siamo ancora prima della storia del popolo ebreo. Questi due patti sono stabiliti con l’intera umanità, come si può vedere dalla “tavola dei popoli” che chiude la narrazione del diluvio.


Il sogno dell’alleanza con l’intera famiglia dei popoli non è mai stata abbandonata da Dio. Ma come ha voluto realizzarla dopo Noè? Ecco che, ad un certo momento della storia, circa quattromila anni fa, Dio scelse un popolo, il più piccolo tra i popoli della terra, perché fosse il custode del suo nome e potesse comunicarlo a tutte le nazioni della terra. Scelse il più piccolo perché non si inorgoglisse,


sentendosi magari possessore esclusivo del nome di Dio. La visione del profeta Isaia che presenta i popoli della terra salire verso il monte Sion è la descrizione del sogno di Dio sull’umanità. Israele quindi non fu scelto per se stesso, ma per essere segno di Dio nel mondo. Ed in effetti Israele ebbe una dimensione missionaria, la quale tuttavia si attenuò nel primo secolo dopo Cristo, soprattutto quando si consumò la separazione tra ebraismo e cristianesimo. La tensione universale, insita nella fede biblica, venne assunta dal cristianesimo che ne fece una delle sue dimensioni costitutive.


Si comprende quindi che la Chiesa (come anche Israele) non è stata costituita per se stessa ma per mettersi al servizio dell’unità di tutta la famiglia umana. In tal senso non si appartiene; la sua verità è essere al servizio del mondo intero. Per comprendere il senso di questa missione, possiamo pensare ai funerali di Giovanni Paolo Il, quando nella piazza San Pietro si radunarono i rappresentanti di tutte le Chiese cristiane, delle grandi religioni mondiali, numerosissimi capi di


Stato, assieme a ricchi e poveri, a uomini e donne di ogni condizione e cultura. Ebbene, in quella immagine vi è come delineata sinteticamente la missione della Chiesa che è, appunto, quella di essere segno e strumento dell’unità della famiglia umana.


Tutto ciò comunque non cancella la domanda iniziale: come può un Dio così immenso occuparsi di un uomo così infinitamente piccolo? Ancora una volta ci avvolge il mistero dell’amore di Dio. E già il salmista, molti secoli fa, domandava spesso a Dio: “Che cos’è l’omo perché te ne curi?”. Se la ragione spingeva a questo interrogativo, la fede gli faceva intuire un amore senza limiti. Nelle pagine bibliche vi è questo filo rosso che non si è mai interrotto, neppure quando dall’ Antico si è passati al Nuovo Testamento, ossia Dio ha scelto sempre ciò che nel mondo è debole perché apparisse che la salvezza non veniva dal basso ma dall’ Alto. È il paradosso dell’intera vicenda biblica, potremmo dire il paradosso del Dio ebraico-cristiano. E direi che, vedere in quel bambino debole e fragile della grotta di Betlemme il Figlio stesso di Dio, è molto più incomprensibile della domanda sull’immensità degli universi.



Giuliano Amato: Tutto ciò non ci dà risposte sulle altre parti dell’universo, ma anche questo fa parte della risposta. Siamo alle prese col mistero, è difficile per tutti, per la fede e per la ragione, giudicare ciò che è l’universo sulla base di questa piccola parte.



Vincenzo Paglia: Sappiamo molto poco del sistema solare, ancor meno della nostra galassia, e balbettiamo sul resto… Siamo davvero poca cosa! Questo resta comunque vero. Non so bene cosa rispondere al quesito a quest’ultimo quesito. Qualche teologo inizia a ipotizzare qualche riflessione a tale proposito. Ma si tratta di piccoli vagiti. Man mano che la nostra conoscenza cresce e si sviluppa, anche la riflessione teologica entra in dialogo con essa. Senza dubbio fede e ragione possono aiutarsi reciprocamente per cercare di districarsi in questi nuovi orizzonti. Prendo spunto da questa riflessione per sottolineare ancora una volta la necessità che credenti e laici si aiutino per fronteggiare gli interrogativi talora inquietanti che nascono di fronte alle nuove frontiere della bioetica, dell’ecologia, della morale.


 


Giuliano Amato: In più occasioni ho scritto che è l’amore a dare alla fede una marcia in più e ciò diventa determinante per un altro tema che vorrei affrontassimo qui: la fede tra le fedi, l’intolleranza o la comprensione tra le religioni, un tema di vita o di morte per questo pianeta. Non c’è dubbio che il cristianesimo abbia questa specificità: si caratterizza per la presenza di un Dio che manda suo Figlio su questa terra compiendo un atto d’amore, morendo per tutti, un Dio che si fa valere non attraverso il comando, ma attraverso l’amore. Questo amore si legge nel rapporto tra il cristiano credente e gli altri esseri umani e diventa, dal mio punto di vista laico, un fattore di enorme importanza, perché spinge ciascuno a guardare gli altri in chiave di solidarietà tra eguali; e, anziché portare a concepire la propria libertà come antitetica a quella degli altri, conduce a vederla come responsabilità anche nei confronti degli altri, perché l’altro è come me e io mi vedo nell’altro. Questi argomenti – mi si obietta – sono propri, però, anche di ogni etica razionalistica. È vero -rispondo io – ma qui c’è qualcosa in più, di cui non riescono a convincersi i miei «correligionari» laici: nel rendere efficaci questi principi, in modo da ispirare ad essi il comportamento di milioni di esseri umani, noi laici dobbiamo accettare che la capacità conformativa della nostra etica, in quanto etica laica, sia più limitata rispetto a quella cristiana. Perché milioni di uomini e di donne piangevano la morte di Giovanni Paolo II? Oppure pensiamo a madre Teresa: fenomeni che portano gli esseri umani ad essere reciprocamente più che amichevoli nel segno del cristianesimo. lo nel mio piccolo e Bobbio nel suo grande non riusciamo a fare tanto. Mi sono domandato dove sia la differenza: noi laici possiamo anche dire di amare tutto il genere umano, ma in realtà riusciamo ad amare poche persone alla volta; nella fede cristiana c’è invece qualcosa che porta ad amare gli sconosciuti, che porta a quell’intensa relazione spirituale che fa sì che madre Teresa, semplicemente comunicando con la sua mano affetto a qualunque indiano povero, comunichi questo sentimento di appartenenza comune a qualcosa che è al di sopra di qualsiasi esperienza di vita.


Questo è l’amore che si è legato alla fede in quello strano triangolo che dice: per amare il mio prossimo devo amare Dio e attraverso Dio il mio amore discende sul prossimo. È una costruzione barocca che tuttavia funziona: la mia intende arrivare allo stesso approdo senza percorrere il triangolo, ma è solo ragione. Da dove viene fuori quel quid in più? Qualcuno mi ha detto che questo pensiero è a metà tra San Francesco e Pascal: l’amore che viene dalla grazia e la grazia come un dono che non viene dalla ragione.


Come che sia: se questa è la verità del cristiano, si tratta di una verità che esclude l’intolleranza e che in nessun caso potrà ammettere che uccidere un infedele è eseguire la parola di Dio.



Vincenzo Paglia: Lei ha toccato un punto delicatissimo e importante che riguarda in primo luogo il rapporto tra etica laica e etica religiosa. Vorrei anzitutto andato incontro alla morte per noi che eravamo ingiusti e infedeli. Il Vangelo fonda la dignità della persona umana sulla figliolanza di Dio di qualsiasi creatura; per questo non solo esclude ogni omicidio ma anche ogni offesa. Ogni persona umana va amata e difesa, sempre. E se c’è una preferenza che emerge chiara in tutte le pagine della scrittura è quella verso i più deboli e i poveri.


L’agàpe rende impossibile ridurre il cristianesimo a morale, appunto perché è ben oltre la morale e tocca la natura stessa di Dio. Ovviamente questo non significa che le manifestazioni di amore compiute da chi non crede non siano pregevoli. Talora sono anche eroiche. Ed è convinzione certa che in ogni atto di amore c’è sempre una scintilla dell’amore di Dio, e quindi di eternità. Nel Vangelo, un bicchiere d’acqua dato ad un assetato vale il paradiso. In tale contesto salta anche la «triangolazione» che lei ha richiamato. È vero che per amare gli altri bisogna amare Dio, ma è anche vero che se uno ama l’altro, di fatto, vive nell’amore di Dio. C’è una circolarità tra amore di Dio e amore degli uomini. A me piace dire che la via dell’amore è larga e accoglie chiunque spende la propria vita per gli altri e non solo per se stesso. E mi permetterei di suggerire che la categoria della misericordia (o anche della solidarietà) è quella che più avvicina l’amore evangelico e quello laico. Solo un’alleanza di uomini e donne misericordiosi e solidali può fermare la disumanità che sembra crescere senza freno nel nostro mondo.


 


Giuliano Amato: Credo che ci siano due punti che accomunano oggi laici e credenti. Dopo l’esperienza di una società popperiana che ha visto essiccarsi alcuni elementi essenziali alla sua stessa tenuta, siamo tutti convinti che una società senza valori profondi sia una società che va verso la dissoluzione; e certo la categoria della misericordia, o della solidarietà, ne è un collante essenziale. Il primo punto comune, derivante proprio dal bisogno insopprimibile di solidarietà, è che questi valori profondi non devono essere appesi ad alberi che li contrappongano all’insegna dell’intolleranza reciproca. Facciamo i conti con la realtà minacciosa del dopo 11 settembre, figlia di un fanatismo religioso al quale non dobbiamo rispondere contrapponendogli un fanatismo nostro; d’altra parte, dobbiamo fronteggiare la solita obiezione logica per la quale se la fede è fede in religioni diverse, necessariamente allora queste fedi saranno in conflitto perché ciascuna religione ha la propria verità e se così non fosse esisterebbe una sola religione.


Le religioni sono fondate ciascuna su un principio di verità religiosa e queste verità sono diverse: come possono allora convivere in modo tollerante? Una risposta, in linea di principio, me la do. Vi sono tre religioni monoteiste, la cristiana, l’ebrea, la musulmana: principio comune è che tutti gli esseri umani sono figli dello stesso Dio. Possono riservare trattamenti diversi a seconda che si parli di fedeli o meno, ma è impossibile che si neghi che tutti gli uomini sono figli dello stesso Dio. Il secondo punto riguarda la cristianità e comprende anche l’unico motivo per il quale avrei visto favorevolmente il richiamo alle radici cristiane nella Costituzione europea: è il tema su cui già ci siamo soffermati, l’essere cioè la cristianità fondata sull’amore. Per qualunque essere umano, non solo per chi condivida la fede. L’amore porta con se perdono e tolleranza, se è amore che perdura. Caratteristica specifica della verità di questa religione è l’essere una verità che non si contrappone alle altre attraverso l’intolleranza ma che, se si contrappone, è solo perché colloca l’amore dove altri collocano qualcosa di diverso e perché si affida alla forza di questo amore affinché si giunga a una convivenza pacifica. Sbagliavano i crociati e sbaglia chi rievoca le crociate come momento forte di auto affermazione della cristianità. Si nega la cristianità ogni volta che in suo nome si prega o si pratica l’intolleranza. In ciò esiste la vera congiunzione con una ragione laica. Cito l’incontro tra l’allora cardinale Ratzinger e Habermas: l’interculturalità – disse il primo – mi sembra rappresentare oggi una dimensione inevitabile della discussione sulle questioni fondamentali, sull’essenza dell’essere umano, che non può essere ricondotta tutta all’interno del cristianesimo ne all’interno


della tradizione razionalista occidentale. Questo significa che gli altri sono figli del mio stesso Dio e che, se possiamo raggiungere una verità, si tratta di una verità che in qualche modo ci accomuna, che possa essere accettata anche da loro e che permetta a me cristiano di conseguire il mio risultato.


 


Vincenzo Paglia: Giustamente lei parla di valori profondi che debbono essere condivisi per evitare la dissoluzione delle società. E se si parla della società globale è necessario trovare una sorta di etica globale o planetaria, come qualcuno afferma. Dicevo all’inizio che una ipotesi in questo senso è data dalla dottrina sui diritti umani che conquista sempre più consensi, sebbene sia necessario dialogare ancora per lo meno con il mondo islamico a tale proposito. Se poi si pensa che le grandi religioni mondiali possono essere quegli alberi a cui sono appesi i valori si comprende bene quell’affermazione che dice «non c’è pace tra le nazioni senza pace tra le religioni». A quest’affermazione si aggiunge la seguente: «Non c’è pace tra le religioni senza un dialogo tra le religioni». E qui si apre una prima riflessione circa le religioni. Nella storia umana sono tanti i popoli che hanno stretto rapporti di venerazione, di rispetto e di culto verso Dio. E le religioni non hanno fatto altro che organizzare questi rapporti verso l’Alto in tanti modi, intrecciandosi alle relative culture e marcando quindi le differenze tra loro. Per questo le religioni non sono uguali tra di loro, anzi hanno differenze molto profonde. Tutte però, come il Concilio Vaticano II afferma legandosi alla tradizione antica della Chiesa, hanno nel loro grembo dei semi di verità. E, proprio in base a questo fatto, le religioni possono evitare lo scontro. È vero che in passato e talora anche oggi hanno a volte provocato e legittimato odii e violenze. Ma lo hanno fatto tradendo le profondità del loro credo. Nel cuore delle religioni ci sono energie sufficienti per spingere i credenti ad incontrarsi, a comprendersi e a rispettarsi nella reciproca diversità. È del tutto errata ogni affermazione che porta le religioni ad un inevitabile conflitto. Lo ripeto, se gli uomini di religione si combattono è perché tradiscono la scintilla di Dio che è deposta nelle profondità delle loro fedi. In tutte le religioni, ad esempio, è presente quella che viene chiamata la “regola d’oro”: «Non fare agli altri quel che non vuoi sia fatto a te. La Chiesa cattolica, con il Concilio Vaticano II, ha instaurato un nuovo rapporto con le altre religioni (a partire dall’ebraismo e dall’islam, fino a tutte le altre). Ed è stato un fatto provvidenziale perché aiuta a incontrarsi, a conoscersi e a comprendersi. In tal modo le religioni liberano dal loro profondo quelle energie di amore che portano con se, e possono quindi favorire la convivenza tra i popoli, come in molti casi è capitato. È emblematico di questo nuovo patto tra le religioni l’incontro di Assisi del 27 ottobre 1986, quando Giovanni Paolo II convocò nella città di San Francesco i leader delle grandi religioni mondiali per un momento di preghiera per la pace. La Comunità di Sant’Egidio da allora ha riproposto ogni anno, in diverse città, questi incontri. E ne è nata una piccola tradizione che vede uomini e donne di religioni diverse riunirsi di anno in anno per dire al mondo che la pace è il vero nome di Dio e la via per la solidarietà tra i popoli. In questi incontri le differenze tra le diverse religioni non vengono annullate, ma sono guardate con rispetto e attenzione. E si constata che, scendendo nel profondo delle rispettive fedi, tutti trovano l’amore, il rispetto e la tolleranza. In questi incontri ha trovato spazio anche il dialogo con i non credenti. E lei sa bene, per esservi intervenuto più volte, quanto tali incontri aiutino a individuare sentieri comuni per edificare la convivenza tra fedi e culture diverse.


Una seconda breve riflessione concerne il cristianesimo e l’Europa, a cui lei ha accennato.


Non c’è dubbio che il cristianesimo abbia avuto la capacità di dialogare, di accogliere e di convivere con culture diverse. L’Europa è il frutto di questa complessa elaborazione che ha comportato anche momenti difficili e cruenti. Tuttavia, il bagaglio di “laicità” (che comporta anche tolleranza, pace, rispetto), che affonda le sue radici nell’evangelico “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” ha permesso la distinzione tra Stato e Chiesa, tra società civile e comunità cristiana. Tale distinzione è ora un patrimonio comune nell’Europa e in tutto l’Occidente, senza più distinzione tra credenti e non credenti. Io e lei possiamo scambiarci senza alcun problema le due affermazioni: “non posso non dirmi cristiano” e “non posso non dirmi laico”. Tale patrimonio che affonda, appunto, le radici nel cristianesimo, avrebbe potuto offrire alla Costituzione europea una forza in più. Avrebbe infatti evocato quei valori che riescono a muovere gli spiriti, avrebbe salvato la stessa «laicità – da un pericolo – lo sradicamento dal terreno in cui è nata e, infine, avrebbe costretto i credenti di altre religioni (penso ai musulmani) a confrontarsi con l’orizzonte della distinzione tra laicità dello Stato e fede religiosa.


Una terza riflessione riguarda l’inevitabilità della convivenza tra diversi. Con la globalizzazione è divenuto normale vivere gomito a gomito tra gente di fede e di cultura diversa. In passato, le grandi distanze permettevano ai mondi religiosi di ignorarsi l’uno con l’altro. Oggi non è più possibile. Ma solo la capacità di convivere tra diversi ci salverà dalla catastrofe. Sappiamo che non è facile, soprattutto quando ci sono troppe differenze tra le persone: c’è gente che si sente aggredita e spaesata di fronte ai nuovi vicini stranieri e a un mondo troppo grande che sfugge alla conoscenza e al controllo. Ed emergono così sempre più spesso individualismi irresponsabili e fondamentalismi di varia natura, sia etnici che religiosi; alcuni giungono sino al terrorismo. E sappiamo bene che i fondamentalismi sono sempre semplificazioni che possono affascinare giovani disperati, strumentalizzati da spregiudicati in cerca di scorciatoie per il potere. In ogni caso, l’unica via per scongiurare derive fondamentaliste è il dialogo tra le diverse religioni perché, nel rispetto i delle reciproche differenze, gli aiuti i rispettivi fedeli a incontrarsi e a stimarsi. Le differenze non portano necessariamente allo scontro. E la verità della mia religione, a cui tengo e devo tenere, non significa che l’altro è nell’errore totale. Le tensioni che tormentano lo scenario internazionale, talora sostenute se non provocate dalle diverse appartenenze religiose, richiedono che si allarghi lo spazio del dialogo. Il dialogo non è solo una questione di metodo. È piuttosto un modo di vivere che privilegia l’incontro, la tolleranza, il rispetto reciproco, la pazienza nel dibattere, e rifiuta lo scontro, la repressione, l’incriminazione e il terrorismo.


Nel cristianesimo la stessa concezione del Dio biblico richiama l’urgenza del dialogo. Dio infatti ha inviato nel mondo il «Logos», la Parola, per dialogare con gli uomini. La stessa verità, in certo modo, diviene dialogica. Per i credenti (ma non è così anche per i laici?) riconoscersi plurali fin nelle proprie radici comporta accettarsi come persone abitate da una vita in cui lo scambio è la manifestazione primaria. Le diverse identità, insomma, si costringono ad una complementarietà ricca e fruttuosa perché l’apertura all’altro obbliga a ridefinirsi costantemente.


Il dialogo non è quindi solo la risposta alla paura; è ben di più, è la strada della vita e dell’esistenza, è il terreno solido sul quale deve incamminarsi la convivenza umana. Solo in questa prospettiva si taglia alla radice ogni fondamentalismo religioso che porta a sentirsi appagati e gratificati dal possedere la Verità al punto da non sentire più il bisogno dell’altro. Passare da questo all’esclusione dell’altro sino alla sua eliminazione, il passo è breve. Il dialogo rende più forte e più profonda la verità, perché la purifica dalle scorie idolatriche della comprensione umana. Tuttavia, bisogna evitare che il dialogo diventi una sorta di nuovo idolo, perché quello autentico si allontana dalle strade buie e pericolose del sincretismo e dell’assenza di rispetto delle differenze. La via maestra, anche nel dialogo, è quella della testimonianza del proprio credo che rispetta quello dell’altro e che porta ad essere aperti al «mistero» che tutti ci supera.