Presentazione del libro “L’Orda” di Gian Antonio Stella

Presentazione del libro "L'Orda" di Gian Antonio Stella

Mentre scorrevo le pagine, peraltro affascinanti, di Gian Antonio Stella sempre più insistentemente mi saliva in mente la domanda: perché solo ora, nel 2002? Se fosse stato scritto qualche tempo fa non avremmo compreso qualcosa di più di questo epocale fenomeno delle migrazioni? E la legislazione non sarebbe stata più tempestiva e accorta? E gli italiani non avrebbero scardinato pregiudizi velenosi e atteggiamenti crudeli? Il pessimismo poi mi prendeva e mi faceva dire che quasi mai la storia è stata maestra della vita. In verità il libro è scritto così bene che sono certo avrebbe fatto breccia in non poche menti.

In ogni caso, ben venuto a questo libro che narra la storia dell’emigrazione italiana nell’ultimo secolo. L’intento dell’autore è detto con chiarezza: non vuole cedere al buonismo. Permettetemi tuttavia di dire che lo vedo così poco negativo questo termine! Forse perché mi torna sempre in mente il “papa buono”, quel Giovanni XXIII che ha segnato il suo pontificato anche con la “desideratissima pace”, come lui la chiamava quaranta anni fa quando scriveva la “Pacem in terris”. E per di più non mi esalta il termine che si vuole opporre a “buonismo”, ossia il termine “realismo”, chissà, magari perché si ha pudore di proporre il “cattivismo”. In verità Stella intende allontanarsi dalla esaltazione scriteriata del melting pop, dall’apertura totale delle frontiere. E vuole attaccare il ben più grave pericolo della xenofobia, la paura dello straniero. Una paura antica come scrisse qualche tempo fa Tahar Ben Jelloun sul Corriere della Sera: “Il razzismo è una vecchia storia: è forse il più antico riflesso dell’uomo”. La consapevolezza di quanto sia radicato l’odio, la paura o il disprezzo, per lo straniero o per il diverso, motiva del resto le più antiche e ancor oggi le più alte esortazioni etico-religiose al rispetto, ed anzi all’amore, per lo straniero. Nel Levitico (ma molte altre citazioni analoghe sono possibili, dalla Torah come dai Vangeli) è scritto: “Il forestiero che è in mezzo a voi, lo tratterete come colui che è nato tra voi. Tu l’amerai come te stesso. Poichè anche voi foste forestieri nel paese d’Egitto”. Fa un poco tremare la constatazione che questo monito, vecchio di millenni, conservi ancora, purtroppo, una così lancinante attualità.


 Stella narra la vicenda dell’emigrazione italiana che ha riguardato ben 27 milioni di nostri connazionali che, grosso modo, negli ultimi cento anni sono partiti dal nostro paese con il sogno di una vita più degna. Va notato che di questi, ben 5 milioni provengono dal Nord est, oggi “affamato” di extracomunitari per poter continuare a mantenere l’attuale livello di vita. Ma tutto il paese non può fare a meno oggi dell’immigrazione straniera. Stella, al forte titolo “L’orda”, aggiunge: “quando gli albanesi eravamo noi”. Permettetemi di dire che gli italiani dell’inizio secolo forse stavano meglio degli albanesi del ’91, certamente nel senso della cosiddetta povertà relativa. Ricordo ancora l’impressione tragica che ebbi nella mia prima visita in Albania avvenuta all’inizio di marzo del ’91, ancor prima delle prime elezioni; erano passate solo poche settimane da che alcuni albanesi erano rimasti squarciati nelle palizzate di ferro dell’ambasciata tedesca per cercarvi pane e libertà. Ma una cosa mi colpì in modo particolare. La loro condizione era di estrema povertà, ma nello stesso tempo vedevano nel loro rudimentale televisore tutti e sei i canali televisivi italiani. Per loro l’Italia era il Paradiso, più che l’America. E distava solo 70 km, non l’oceano atlantico. Un papà preoccupato mi disse: quando guardiamo la televisione  – e si passavano ore e ore davanti al teleschermo – chiudo gli occhi a mio figlio durante la pubblicità, perché per noi e soprattutto per lui è più devastante della pornografia. Insomma, per me era non logico ma evidente che sarebbero venuti anche a costo della vita. Ma gli interventi erano condotti in base all’emergenza e non all’interno di un disegno politico per governare il complesso fenomeno anche solo dell’immigrazione albanese. Eppure sono passati più di dieci anni per legiferare…


Ma non voglio continuare su questo tema, e torno al libro di Stella. Egli ha scritto un volume che è assieme un libro di storia e di grande tensione etica. E ha me ha fatto ripetere: “Siamo stati tutti immigrati!” E questa coscienza è il primo e più importante punto di riferimento che dobbiamo avere nel guardare al fenomeno dell’immigrazione, e deve stimolare in noi un senso di solidarietà e di responsabilità per gli uomini e le società più ricche nei confronti dei poveri della terra. Questo istinto è positivo e forte perché nasce dalla nostra etica tradizionale, religiosa, ebraico-cristiana, come dalla nostra etica laico-democratica. Chi ha paura ha un debole senso di identità nazionale. Ecco perché Stella ha fatto molto bene a scrivere questo libro per un pubblico vasto. La storia della nostra emigrazione è davvero poco nota, sebbene sia difficile trovare famiglie italiane che non abbiano conosciuto questo fenomeno. Fortunatamente la bibliografia si infittisce  sempre più e nei molteplici versanti facendo emergere un mondo complesso, drammatico, crudele, tragico, ma assieme anche di grande ricchezza e umanità. Basti pensare all’azione delle migliaia di missionari e delle migliaia di suore fattisi anch’essi emigrati per accompagnare i nostri connazionali e aiutarli e confortarli dove giungevano perché non accolti a volta neppure dalle comunità cristiane locali. Vistando l’archivio storico degli scalabriniani a New York, che raccoglie un materiale enorme sull’emigrazione negli USA dagli ultimi decennio dell’800, si resta sorpresi dalla ricchezza del materiale raccolto e conservato. Quella dell’emigrazione è una faccia dell’Italia spesso dimenticata, eppure a tratti è stata decisiva anche per il paese, come quando all’inizio del secolo le rimesse degli emigrati italiani risanarono il deficit della bilancia dei pagamenti.


Ma l’autore fa emergere, attraverso un’attenta ricerca di materiale anche inedito, l’identità incredibile delle accuse che gli italiani ricevevano con quelle che oggi vengono rivolte dagli italiani agli immigrati nel nostro paese. Si ripetono alla lettera le stesse accuse. Cambia solo l’epoca, cento anni fa; e il soggetto, ora noi siamo diventati i soggetti che accusano. Gli appellativi di disprezzo erano la cosa più leggera: “Cani selvatici” venivano chiamati gli italiani emigrati in Australia; “rospi” erano i bambini italiani impiegati dai francesi nelle loro fabbriche; “Mafia mann”, in Germania; e in Svizzera si poteva leggere nei negozi: “vietato l’ingresso ai cani e agli italiani”, e giù poi con tutti gli altri stereotipi: gli italiani sono sporchi come maiali, sono straccioni, sono maleodoranti, i genitori italiani vendono i loro bambini e le loro bambine, fanno prostituire le donne, hanno il coltello facile, sono mafiosi, rovinano i quartieri dove vanno ad abitare, sono anarchici e terroristi, e così via. Le due appendici poste alla fine del volume riportano l’elenco dei diversi stereotipi con cui gli italiani venivano indicati. E poi anche la nostra emigrazione è stata largamente clandestina, anche se è facile sentir dire da benpensanti che gli italiani che sono emigrati erano diversi da coloro che oggi arrivano in Italia: i nostri erano lavoratori, gente abituata alla fatica, e così oltre. Scrive Stella: “Clandestini erano i bambini venduti alle vetrerie francesi. Clandestine erano le ragazzine esportate verso i bordelli di tutto il mondo. Clandestini gli spazzacamini. Clandestina la larga parte degli emigrati agli albori del secolo scorso in Germania. E aggiunge Stella: “insomma, c’era di tutto tra i disgraziati che se ne andavano di nascosto”, e di fronte ai bambini lavoratori, Stella si interroga: “Ma come: non è l’Italia il paese delle mamme? Eppure abbiamo venduto i bambini a tutti”.


La presenza del ministri Tremaglia sta a significare l’attenzione nuova dell’Italia verso gli emigrati che ora, ovviamente, vivono in una condizione del tutto diversa, sebbene in Argentina la condizione sembra diventare drammatica. Ma è ovvio che il problema si sposta all’interno dell’Italia che da paese di emigrazione è diventato paese di immigrazione. Dall’ultimo rapporto Caritas, il XII del 2002, gli immigrati regolari in Italia sono circa 1.400.000, cui vanno aggiunti i 600.000 che si sono regolarizzati a seguito della legge Bossi-Fini. Tra le nazionalità più presenti il Marocco, poi  l’Albania, la Romania, le Filippine e la Cina. L’incidenza sulla popolazione italiana è attorno al 3% (una situazione ben più leggera di quella degli USA, Germania, Austria e Belgio). Non si tratta quindi di nessuna invasione, anche se l’immigrazione è destinata a crescere e a costituire il futuro con il quale dovremo confrontarci.

Non c’è dubbio che i problemi che si pongono sono molteplici, da quello della legislazione che regolamenta i flussi, a quello della regolarizzazione e soprattutto a quello dell’integrazione. Ma non sono affatto problemi insormontabili, anche perché, come l’enorme afflusso per la regolarizzazione ha dimostrato, c’è un grande desiderio di integrazione da parte della stragrande maggioranza degli immigrati. Nella scuola di italiano della Comunità di sant’Egidio – faccio un solo esempio – è ormai normale che gli studenti extracomunitari chiedano di imparare l’inno nazionale; e dovreste vedere con quale gravità lo cantano! No, non c’è il problema di preservare la nostra identità. A mio avviso, già porselo con paura indica una fiacca coscienza di essa. L’identità non si preserva mettendola in frigo, al contrario si preserva se si arricchisce anche con altre dimensioni culturali. L’intera storia europea è il frutto di un continuo metissage. Non voglio eludere il problema islamico in Italia. Non si tratta di una questione semplice. Va comunque notato che il 50% degli immigrati in Italia sono cristiani, il 35% musulmani e con il 6,4% seguono le altre religioni. In ogni caso il rapporto con gli islamici richiede una riflessione attenta da parte di tutti. Il rischio che va assolutamente evitato è la semplificazione perché porterebbe inesorabilmente a corti circuiti pericolosissimi. Ma se potessi dire una parola generale su questo tema direi che quel che ci aspetta è apprendere l’arte di convivere tra diversi all’interno del quadro legislativo nazionale ed europeo.