II domenica di Avvento

II domenica di Avvento

“Inizio del Vangelo di Gesù Cristo”. Si apre così il Vangelo di Marco, che ci accompagnerà per tutto questo anno liturgico. Composto negli anni tra il 60 e il 70, dopo un  lungo periodo di predicazione apostolica, è il primo dei Vangeli scritti. L’evangelista non ha inteso scrivere un romanzo religioso, bello ed educativo, bensì raccontare un fatto, realmente accaduto, ma così straordinario ed unico da essere “Vangelo”, ossia una buona notizia per tutti. Scrivendo “inizio della buona notizia”, l’evangelista fa notare che prima questa notizia non c’era ed iniziava appunto con Gesù, ma non si tratta di un “inizio” solo temporale, posto una volta per tutte e relegato nel tempo passato, quasi prigioniero di quei giorni. La “buona notizia” di Gesù Cristo è un “inizio” che resta vitale, è come una pietra viva che resta fondamento sempre operante, e che riguarda ogni generazione e ogni tempo. Per questo il Vangelo non lo si ascolta una volta per tutte. Ogni giorno va ascoltato: è a fondamento di ogni giornata, ancor più, della vita stessa di ogni comunità cristiana. Tutti abbiamo bisogno di ascoltarlo e riascoltarlo ancora, e sin dall’inizio. Nessuna età e nessuna generazione può farne a meno. Per la vita spirituale accade quel che avviene per il corpo: non ci si nutre una volta per tutte, ogni giorno è necessario sostentarsi. 


Il Vangelo non ci dice solo come è accaduta la salvezza; esso stesso l’inizia e la continua in ognuno di noi. Il mondo, le nostre città, i nostri paesi, i nostri quartieri, hanno bisogno che continui a risuonare questa buona notizia. E’ vero che la nostra società non manca di parole; ma spesso sono vuote e non raggiungono il cuore. Dentro e fuori siamo spesso storditi da rumori e confusione. Voci e discorsi diversi ci martellano e ci sommergono. Parole e notizie ci giungono da ogni parte del pianeta. Eppure sappiamo poco parlare tra noi, raramente ci scambiamo parole vere e ancor meno notizie buone. Il Vangelo non si rassegna a un mondo senza parole vere, non si arresta di fronte ad una società che sembra essere avida solo di cattive notizie. Al contrario, il Vangelo inizia a parlare.


Le sue prime parole ci immergono subito nell’attesa di un futuro, anzi ci invitano a prepararlo. Esse annunciano che “qualcuno” sta per venire a donare la salvezza. Non c’è più tempo per distrarsi. Il rischio di perdere l’occasione propizia è alto. Se domenica scorsa la liturgia chiedeva di essere vigilanti, oggi esorta ad aprire il cuore per accogliere colui che sta per venire. Si potrebbe dire che l’inizio del Vangelo di Marco svolge esso stesso la funzione del Battista: questa Parola apre la strada al Signore, è la voce che grida ad ognuno di preparare la via perché Egli sta tornando in Sion. Sì, il Signore torna nella sua città. Ecco la buona notizia di questa pagina evangelica.


Già con la prima lettura, attraverso le parole di Isaia (40, 1-11), la liturgia ci fa sentire l’avvicinarsi di questo tempo: “Consolate, consolate il mio popolo. Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che è finita la sua schiavitù”. Il popolo d’Israele può lasciare la terra di Babilonia, dov’è schiavo, e partire verso Sion; percorrerà una grande strada, aperta nel deserto, una strada larga, rettilinea e pianeggiante che supererà steppe, che traverserà valli e montagne, per salire sino a Gerusalemme. Ed il Signore, come il pastore di cui parla il profeta, si porrà davanti al suo popolo guidandolo su questa strada.


Aprire la strada, vuol dire aprire il Vangelo, ascoltarlo, leggerlo, meditarlo. Con Gesù, infatti, la “strada del Signore” è giunta sino a noi; la salvezza è scesa nell’oggi della nostra vita. Questa convinzione è la forza del Battista. Egli è vestito da povero: porta un rozzo camice di pelo di cammello non le vesti morbide e gli abiti sontuosi che usano indossare gli uomini del mondo. La sua austera sobrietà, tanto lontana da tanti nostri atteggiamenti, sottolinea che egli vive davvero solo del Signore e del suo futuro. Giovanni ha fretta che venga presto il futuro di Dio, e lo grida forte (“alza la voce con forza”, aveva detto il Signore al profeta Isaia). Non accetta fatalisticamente il mondo così com’è. Non tace, protesta; veste da personaggio strano e, soprattutto, parla; anzi, grida. E’ tagliente con la sua parola. Non si abbandona ad esercitazioni verbali, e neppure brandisce il randello dell’opposizione o della protesta ideologica. Giovanni, come richiede ogni predicazione (e penso qui alle nostre predicazioni domenicali !), parla al cuore della gente: non vuole colpire le orecchie, non ama correr dietro a pruriti vani, non propone verità o idee sue. Egli – obbedendo allo Spirito del Signore, come ogni buon predicatore deve fare – desidera che la sua parola colmi i vuoti dei cuori, appiani i monti che allontanano gli uni dagli altri, abbatta i muri che separano, strappi le radici amare che avvelenano i rapporti, raddrizzi i sentieri distorti dall’odio, dalla maldicenza, dall’invidia, dall’indifferenza, dall’orgoglio, dalla malafede…


Questo austero predicatore, che dimentica se stesso perché sia solo il Signore a parlare attraverso la sua voce, colpisce davvero il cuore di chi lo ascolta. Marco lo nota: “Accorreva a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme” per farsi battezzare, ognuno confessando i propri peccati. Forse anche noi oggi dobbiamo lasciare l’orgoglio della nostra Giudea o la sicurezza della nostra privata Gerusalemme, per recarci nel deserto, lontani dalle abitudini e dalle malferme certezze di sempre, e provare ad ascoltare la voce di questo austero predicatore per lasciarsi toccare il cuore. La Santa Liturgia della domenica, le nostre stesse Chiese, piccole o grandi, splendide o malmesse, diventano il momento e il luogo per stringerci attorno a Giovanni Battista e alla sua predicazione. Quando le Sante Scritture si aprono e la Parola di Dio viene annunciata e predicata, in quel momento si apre la strada del Signore; beati noi se sapremo accoglierla e percorrerla perché certo ci porterà incontro al Signore che viene.