Ordinazione sacerdotale di Riccardo Beltrami e Pio Scipioni

Ordinazione sacerdotale di Riccardo Beltrami e Pio Scipioni

Care sorelle e cari fratelli,


 


è davvero piena di festa questa sera la nostra cattedrale. Il Signore ancora una volta ha rivolto il suo sguardo su questa chiesa per scegliere alcuni tra i suoi figli per l’Ordine sacro. Attraverso di loro Gesù, buon pastore, continua ad essere presente tra noi. Carissimi Josif, Pio e Riccardo ricordatevi sempre che il sacramento dell’Ordine, copme del resto ogni sacramento, è un dono di Dio, un dono per voi, ma soprattutto per la Chiesa e per il mondo. Molte cose si potrebbero dire al riguardo, ma una vorrei sottolinearne partendo dal Vangelo: ossia l’indispensabilità dei sacerdoti per il mondo. Le nostre città, senza i preti, resterebbero in balia di quella “gran tempesta di vento” che “gettava le onde nella barca”. Questa immagine coglie, come in sintesi, la vita della nostra società. L’egoismo, come un’onda potente, travolge tutti, singoli e famiglie; e rovescia come fuscelli i piccoli e gli anziani, i poveri e i deboli. E mentre il Signore sembra dormire la gente muore; muore di fame nei paesi poveri e di violenza nei paesi in guerra, muore di annegamento nel Mediterraneo in quei profughi che non riescono a giungere all’altra sponda, muore di solitudine e di abbandono nei paesi ricchi. E in questo mare in tempesta è rara anche quella preghiera uscita dalla bocca impaurita degli apostoli: “Maestro, non  t’importa che moriamo?” In questo mare in tempesta ci sono anche la barca della comunità ecclesiale. E da essa  si alza una voce forte e autorevole, quella di Gesù, che sgrida il vento e lo fa tacere. E venne una “grande bonaccia” che scosse persino la poca fede dei discepoli: “Chi è dunque costui al quale anche il vento e il mare obbediscono?”


Care sorelle e cari fratelli tutti, lasciatemi paragonare il sacerdozio a questa voce che si alza nel mare tempestoso di questo tempo per mettere a tacere le onde del male e permettere quindi, non solo alla barca della Chiesa, ma a tutte le altre barche che le stavano accanto – come ricorda l’evangelista – di raggiungere l’altra riva. Sì, il sacerdote è la voce che si leva per placare il vento delle forze del male e portare la bonaccia tra gli uomini. Carissimi Pio, Riccardo, voi con il sacerdozio, e tu caro Josif con il diaconato, venite consacrati perché abbiate la forza di alzarvi e di comunicare il Vangelo dell’amore. E’ questa la parola che scaccia gli spiriti del male e placa le della violenza. E gli uomini e le donne di questo mondo, assieme alla comunità dei discepoli, possono “passare all’altra riva”. Sì, tutti noi, e i ministri della Chiesa in particolare, riceviamo il compito di aiutare la gente a passare all’altra riva, a quella di Gesù. Sì dobbiamo spingere la gente a passare dalla riva dell’egocentrismo a quella dell’amore, dalla riva della violenza a quella della pace, dalla riva dell’indifferenza a quella della misericordia. L’impegno per questo passaggio, che è una vera e propria Pasqua, rende ragione della consacrazione all’Ordine sacro. Non venite ordinati per voi stessi, per realizzare voi stessi o i vostri sogni, per fare quel che vi piace. Siete ordinati per portare gli uomini e le donne di questo mondo al Signore Gesù. Ecco perché con l’Ordine sacro non vi appartenete più. Dobbiamo essere come Gesù; avere i suoi sentimenti, la sua passione, la sua voce, la sua forza, la sua audacia. So che è impossibile. E per questo la Chiesa vi chiede di stendervi per terra: siamo davvero poca cosa di fronte alla grandezza del ministero. Ci sarebbe da impazzire. E il Signore, carissimi Josif, Pio e Riccardo, conosce bene la vostra debolezza, e tuttavia vi riempie della sua grazia perché possiate essere testimoni del suo amore. Per questo la santa liturgia vi avvolge, vi interroga, vi unge, vi consacra, vi veste con i nuovi abiti dell’amore, vi conduce all’altare, vi dona la forza per poter essere appunto come Gesù. Ed è in questo senso che si richiede una eroicità. A dire il vero è richiesta per ogni cristiano, ancor più per il sacerdote. Ma è proprio tale straordinarietà che rende la vita del prete paradossale, davvero evangelica. Ed è affascinante oltre che indispensabile per il mondo. E come vorrei che i giovani presenti lo comprendessero! E come vorrei comunicare il fascino della vita sacerdotale che vivo, pur con tutte le mie miserie e i miei peccati! E’ bello essere preti. Ma solo se non si cede alla banalità, solo se non si giocherella copn le onde traditrici dell’egocentrismo che indeboliscono noi e la Chiesa. Non si può essere preti in maniera banale, burocratica, egocentrica. Abbiamo tutti bisogno di una passione che ci fa svegliare e guardare più agli altri che noi stessi, che ci fa spendere la vita più per gli altri che per noi, che ci fa preoccupare più dei piccoli e dei poveri che delle nostre fissazioni. Questa passione evangelica rende il prete indispensabile al mondo, perché non sia travolto da quel terribile tsunami che è l’onda gigantesca dell’egoismo che inesorabilmente tutto travolge, compresi se stessi.


Caro Josif, con il diaconato, divieni simile a Gesù servo. Sei quindi consacrato per servire il Signore, la sua Chiesa e i poveri. Nessuno è ordinato diacono per servire se stesso, ma per essere servo degli altri. Gesù, primo diacono, diceva di sé: “non sono venuto per essere servito ma per servire e dare la vita in riscatto per molti”(Mc 10,45). E’ in questo orizzonte che si comprende anche la scelta del celibato. Vivere il celibato infatti significa mostrare un’apertura da uomo libero, una giovinezza di disponibilità agli altri. Questa condizione di uomo libero è forse la cosa più difficile da accettare nel mondo di oggi. E’ difficile accettare di essere un uomo che, con gli anni che passano, resta però come un giovane, senza stabilità, senza famiglia, senza una compagna, senza quelle reti normali che gli uomini e le donne si costruiscono per la loro vita. Sì, la vita del celibe è del tutto paradossale. E lo è soprattutto oggi per questo nostro mondo fissato con il sesso, inteso per di più come verifica della giovinezza, come prova dell’esistenza, come rifugio delle frustrazioni e dell’assenza di amore che si sente attorno a sé. La nostra vita di celibi, cari confratelli, è paradossale per un mondo che mette al centro il denaro, le macchine, la carriera. Non c’è bisogno di dimostrarlo. La vita del prete celibe, e quindi povero e obbediente, che non è gettato nel consumo delle cose, che non è schiavo della propria autosufficienza, è una vita davvero paradossale, perché va in un senso totalmente diverso da quello del mondo. La nostra vita da celibi non parla di autosufficienza ma del bisogno di vivere per gli altri e con gli altri. E questo è ciò di cui il mondo ha un incredibile bisogno.


E voi, carissimi Pio e Riccardo, nell’essere consacrati sacerdoti venite come immersi nell’amore di Cristo per esserne testimoni tra gli uomini testimoni. Senza l’Amore di Cristo il sacerdote è incomprensibile. Benedetto XVI, con l’enciclica Deus caritas est, tocca il cuore di Dio e la ragione ultima del nostro sacerdozio. Con questo Amore tutto in noi diventa chiaro. Mi sono rimaste scolpite nel cuore queste parole che il cardinale Suhard, arcivescovo nella Parigi degli anni Quaranta del secolo scorso, scriveva ai suoi sacerdoti: “Altri nella società moderna hanno scelto la gloria, il danaro, il piacere, altri consacrano e consumano la loro vita per la scienza, per il comando, per le conquiste. Il prete ha lasciato tutto, si è distaccato da tutti e tutto ha dato; egli rinuncia a ogni bene, rinuncia a se stesso. Una sola cosa rivendica per sé, e non cederà a nessun costo; un solo bene vuole con una forza ostinata: nella città umana egli ha scelto l’Amore… lo desidera per i suoi fratelli che son divenuti il suo unico bene”. Carissimi Pio e Riccardo questa è la sostanza del ministero presbiterale: l’Amore. L’amore è il cuore della Liturgia che siete chiamati a celebrare e a vivere con la comunità; l’amore è la ragione della vostra preghiera per la Chiesa e per coloro che saranno affidati alle vostre cure pastorali; l’amore è la ragione di quella comunione speciale che vi lega al presbiterio con il vescovo; l’amore è la ragione della vostra felicità. Sì, la vostra felicità è conformarvi a Cristo.


E permettete che in questo santo giorno vi consegni l’immagine di un prete che ha vissuto il ministero sacerdotale come dono per gli altri: don Andrea Santoro. E’ il primo martire del Seminario Romano, dove voi avete vissuto questi ultimi anni della vostra formazione. Avete pregato nella stessa cappella, avete sostato davanti alla stessa immagine della Madonna della Fiducia, avete percorso gli stessi corridoi, abitato le stesse stanze. Come sapete è stato mio compagno e anch’io ho posto le lì le mie radici sacerdotali. Per me è divenuto un maestro. E lo sia anche per voi, carissimi Pio e Riccardo, anzi per noi tutti, cari confratelli nel sacerdozio. Don Andrea ci ha mostrato come amare, come vivere il nostro sacerdozio, come testimoniare la ricchezza di quell’amore che lo ha spinto fino ai confini della terra. E’ bello essere preti come don Andrea e, soprattutto, c’è bisogno di preti come lui perché solo così possiamo servire il Vangelo e placare le onde micidiali dell’egocentrismo e dell’orgoglio. Don Andrea ci ha mostrato l’indispensabilità di quell’eccesso di amore che solo può far passare il mondo all’altra riva, quella dell’amore. Solo un amore così rende ragione del Vangelo e della stessa nostra vita di sacerdoti.