«Non si parla più della morte, la colpa è anche di noi cristiani»
Monsignor Paglia, perché un libro sulla morte si intitola «Vivere per sempre»?
«Perché tutti siamo abitati da un istinto che pretende la continuazione, esige una destinazione, e trova risposta nel risorgere. Siamo mortali, ma non per la morte».
Sartre diceva che siamo una parentesi tra due nulla.
«Sarebbe davvero ingiusto, non solo per la fede ma anche per la ragione. Sarebbe un gigantesco spreco se tutto quello che abbiamo fatto, gli affetti, la famiglia, finissero nel nulla. Ed anche l’etica sarebbe senza senso. Il bisogno di un oltre è insito nel profondo dell’uomo».
Della morte però si parla pochissimo.
«È vero. La morte è uno scandalo. Una domanda che cerchiamo di nascondere. Non vogliamo pensarci, tanto che ci auguriamo di morire all’improvviso, nel sonno, senza prepararci. Anche nella predicazione cristiana si assiste a un occultamento delle cose ultime. Non affrontiamo il tema, o lo facciamo con parole incomprensibili, un gergo clericale scontato e superficiale che non parla più né alla mente né al cuore. Così si finisce nella nebulosa dell’indistinto, nell’illusione della reincarnazione».
Che la Chiesa esclude.
«Noi riconosciamo il valore unico e universale di ciascuno di noi, tutti destinati ad abitare i cieli nuovi e la terra nuova che verranno».
Lei scrive che la vita risorta è anche vita con i sensi.
«Certo. Il cristianesimo va oltre la sopravvivenza platonica dell’anima. Il cristianesimo è amore per la carne, per il corpo, per la creazione. Lo dico a partire da Gesù che dopo la resurrezione parlava, sentiva, toccava, mangiava, odorava… Non sappiamo come, però risorgiamo con il corpo, certo risorto, ma con i sensi. Paolo lanciò questa sfida ad Atene: quei filosofi di formazione socratica che accettavano il discorso sull’immortalità dell’anima, ma non della carne, gli dissero: “Di questo ti sentiremo un’altra volta”. Lo scandalo era troppo forte».
Lei come concepisce la resurrezione della carne?
«È difficile anche solo concepirla. Furono i momenti più difficili anche per gli apostoli: non riuscivano a credere che Gesù fosse risorto. Gesù ci mette quaranta giorni per convincerli. E loro lo vedevano con le sue mani e i suoi piedi ancora bucati dai chiodi. È il senso delle parole del credo cristiano: credo nella resurrezione della carne e nella vita del mondo che verrà».
Poi però ascende al cielo.
«Dove vuole al suo fianco la Madonna. Per Maria si parla della morte molto tardi, comunque si tramanda che si “addormentò” e fu portata con il suo corpo nel cielo, accanto al figlio».
E Lazzaro?
«Lazzaro viene riportato alla vita mortale. Non risorge. È un grande miracolo di Gesù. La sua fama si allargò a tal punto che i capi religiosi decisero da allora di ucciderlo. Gesù però, a differenza di Lazzaro, risorge alla vita eterna, che non conosce più la morte».
E scende nel limbo, a liberare Adamo, Eva e i patriarchi.
«Nel Credo noi diciamo che Gesù discese agli inferi. L’iconografia orientale la rappresenta con Gesù che trae dal buio della morte Adamo e Eva. È un’immagine piena di speranza. Per troppo tempo abbiamo predicato un cristianesimo della paura; ora dobbiamo sottolineare la misericordia, come fa papa Francesco. Anche noi dobbiamo scendere negli inferni di questo mondo. Li dobbiamo svuotare. È il senso di una grande misericordia che salva tutti i disperati, gli eliminati, gli oppressi».
Anche secondo lei l’inferno esiste ma potrebbe essere vuoto?
«L’inferno esiste, è certamente una possibilità. L’inferno è la solitudine assoluta. È la mancanza dell’incontro con Dio. Chi vive l’amore riceve l’immortalità. Chi lo distrugge, distrugge il proprio futuro».
E il paradiso?
«La parola viene dal persiano e significa giardino. Gan, in ebraico: un giardino dove le famiglie dei popoli si ritroveranno in pace».
Ma nell’Antico Testamento, come ha fatto notare il rabbino Di Segni, l’idea dell’aldilà è vaga.
«È vero. In alcuni passaggi si intravede la luce della resurrezione; ad esempio nel martirio dei sette fratelli Maccabei, che subiscono l’ingiustizia suprema della tortura e dell’uccisione per amore di Dio. Lo snodo del cristianesimo è la forza di Dio che resuscita Gesù e con lui tutti coloro che si lasciano toccare dall’amore».
Una vita non solo spirituale?
«No. Una vita risorta, quindi non astratta. Una vita che risorge con il suo corpo, la sua storia, il suo bagaglio di amore. Da quando Dio prende la carne, il paradiso non può più fare a meno della carne, quindi di noi».
Ma c’è un passo dei Vangeli che suona terribile. I sadducei tentano di mettere in difficoltà Gesù chiedendogli di chi sarà moglie nell’aldilà una vedova che ha avuto sette mariti. E lui risponde che nell’aldilà non ci saranno né moglie né marito. Quindi non ci rincontreremo?
«Le parole di Gesù vanno intese nel senso che veniamo liberati non dall’affetto che unisce le persone care, ma dal possesso. Sarà un affetto che non esclude gli altri. È possibile sperimentarlo già in questa vita, quando una famiglia aiuta gli altri, e questi diventano fratelli e sorelle».
Lei da quanto tempo fa il prete?
«Sono entrato in seminario a nove anni, ma già a sette sentivo il desiderio di diventare prete».
Avrà accompagnato nell’ora ultima molte persone. Come si muore?
«Tutti hanno paura della morte, anche i santi. Anche Gesù. Ma tanti muoiono serenamente, se sono accompagnati dall’amore dei loro cari. È una morte confortata. Alcuni parlano anche di una sensazione di luce».
Il cardinale Ruini ha dedicato un capitolo del suo libro «C’è un dopo?» alle esperienze pre-morte, per concludere che non significano nulla: quelle persone non sono morte, quindi della morte non sanno niente.
«È così. C’è una morte biologica, che porta al dissolvimento del corpo, ma non rappresenta la fine; semmai, un passaggio. La morte è il momento del passaggio nel quale ci troviamo davanti a Dio, lo vediamo faccia a faccia. E lo vedremo come un Padre che ci sta aspettando per abbracciarci, per condurci con sé nel paradiso. Non è un Dio che giudica con severità. Ricordo il cardinale Parente, che ha vissuto nella casa dove ora abito. Al momento della morte mi disse: per fortuna, Dio è più misericordioso che giusto».
(dal CORRIERE DELLA SERA)