Messaggio di pace 2002
La “Giornata Mondiale della Pace”, quest’anno, viene celebrata sullo sfondo dei tragici attentati dell’11 settembre negli Stati Uniti d’America. Abbiamo visto all’opera il “mysterium iniquitatis”, scrive Woitjla, nel suo messaggio ai capi delle nazioni. Tutti, in verità, siamo rimasti colpiti, traumatizzati da questa immane tragedia. E un senso di paura, di fragilità e di instabilità sta traversando il cuore degli uomini e delle donne del pianeta. Nessuno ne è esente. C’è come un bisogno quasi fisico di sicurezza e di protezione. La folla che ha assiepato le chiese nella notte di Natale, mai così numerosa come quest’anno, è solo un segno di questo pressante bisogno.
Ci sono state, e ci sono, letture politiche, culturali, psicologiche, e così oltre, di quanto sta accadendo. Ma c’è anche una lettura “spirituale” che va, a mio avviso, quantomeno ricordata. Ed è quella che il Papa propone nel suo messaggio di pace per l’uno gennaio 2002. Non è immediatamente una proposta politica. E’ però una riflessione che tocca profondamente i cuori degli uomini e, di conseguenza, anche le loro scelte, comprese quelle della politica. Il Papa, richiamandosi alla antica sapienza biblica, afferma anzitutto che la pace è opera della giustizia: “opus iustitiae, pax”, scriveva Isaia (32, 17).
La vera pace è frutto della giustizia, virtù morale e garanzia legale che vigila sul pieno rispetto di diritti e doveri e sulla equa distribuzione di benefici e oneri. E questo va affermato con grande coraggio: si può e si deve parlare di giustizia. Ma il Papa subito aggiunge che, vista la fragilità e l’imperfezione della giustizia umana, essa va “esercitata e in certo senso completata con il perdono che risana la ferite e ristabilisce in profondità i rapporti umani turbati”. E’ fuorviante contrapporre l’uno all’altra. Il perdono, infatti, non si oppone alla giustizia bensì al rancore e alla vendetta. Giustizia e perdono, al contrario, sono i due pilastri essenziali al ristabilimento di una pace duratura. Ovviamente nulla hanno a che fare con il terrorismo, il quale va semplicemente estirpato, perché rappresenta “un vero crimine contro l’umanità”.
E, per evitare anche il minimo degli equivoci, aggiunge il Papa: “nessun responsabile delle religioni può avanzare indulgenza verso il terrorismo e, ancor meno, lo può predicare”. Il terrorismo è una profanazione del nome di Dio. Il perdono, invece, questo sì, si collega direttamente al nome di Dio. E per questo rappresenta una via alta e ardua, che va diritta al rinnovamento sia dei cuori delle persone che delle relazioni tra i popoli. Senza la via del perdono, alcuni conflitti (penso a quello in Terra Santa), che da troppo tempo alimentano odi profondi e laceranti, resteranno preda di una spirale inarrestabile di tragedie personali e collettive. L’esperienza ci dice che facile e scontata è la vendetta, mentre alto e benefico è il perdono (che non significa affatto tolleranza del male!). Se tutti sono chiamati all’audacia del perdono, i responsabili delle religioni hanno in questo campo una specifica responsabilità. Ad essi è chiesto di collaborare tra loro per eliminare le cause sociali e culturali del terrorismo, di promuovere la giustizia tra i popoli, di insegnare l’unità della famiglia umana e di praticare una pedagogia del perdono.
La preghiera – quella ad Assisi del 24 gennaio, a cui Giovanni Paolo II ha convocato i leaders religiosi – è l’orizzonte in cui questo impegno si muove. Pregare per la pace, infatti, significa già operare per la giustizia e per la crescita del perdono. Tutti, grandi e piccoli, possiamo essere – secondo l’espressione attribuita a Francesco d’Assisi – “strumenti della sua pace”.
Vincenzo Paglia