Martini, uomo di pace

Martini, uomo di pace

In molti modi si può parlare di “ Martini, uomo di pace”. Ma una chiave di lettura mi pare oggi come obbligata: Martini, uomo di Gerusalemme. Questa città, infatti, con tutto il suo carico simbolico, è divenuta l’immagine che meglio fa emergere il senso alto e drammatico della pace. Nella città santa trovano concretezza sia l’idea della pace che quella dell’incontro tra i popoli. Due dimensioni che mi paiono caratterizzare il magistero sulla pace che ha accompagnato l’itinerario di studioso e di pastore del cardinale. E non c’è dubbio che la pace, intesa come pienezza di vita e di comunione, abbia radici fortemente religiose. Ricordo ancora una meditazione che l’allora padre Martini – era il 1976 –  tenne nella piccola chiesa di Sant’Egidio commentando il brano degli Atti che raccontava l’arrivo di Paolo e Barnaba a Gerusalemme per comporre il contrasto sorto tra le diverse comunità: “Che cos’è Gerusalemme? E’ appunto il luogo dell’origine, il luogo dove i membri della primitiva comunità hanno imparato a stare insieme, a pregare assieme, a dividere il pane; hanno imparato a scambiarsi, gli uni gli altri, le esperienze di vita. A Gerusalemme gli apostoli hanno creato la prima possibilità di vivere insieme nella pace”.


Tornare a Gerusalemme significa ritrovarsi fratelli. Ed è qui la radice della pace. Per questo la città santa diviene anche la visione, la prospettiva, la speranza, il sogno che deve accompagnare i credenti, così come da decenni accompagna il Martini credente, il Martini studioso di Sacra Scrittura e il Martini vescovo. Tutti coloro che lo conoscono difficilmente possono pensarlo senza Gerusalemme, e non solo per quel che concerne la pace, ma per la centralità che questa città occupa nella storia della salvezza. Il cardinale, forse, ricordando proprio il salmo 137 (“mi si attacchi la lingua al mio palato se non mi ricordo di te, Gerusalemme”), ha voluto che anche la sua tomba, non solo il suo cuore e il suo pensiero, fosse proprio a Gerusalemme. E con una nota di dolce ironia – davvero preziosa nel cardinale – una volta ha anche aggiunto: “E ti assicuro che da lì si gode una bella vista sulla città”. Si riferiva, il cardinale, al momento escatologico, quando, dalla Valle di Giosafat, avrebbe visto “la città santa, la nuova Gerusalemme, scende dal cielo, pronta come una sposa adorna per il suo sposo”. Certo, la Gerusalemme di oggi appare lontana da questa sposa, ed è piuttosto il simbolo del dramma del mondo intero. Una volta ebbe a dire: “Gerusalemme come luogo in cui si raccolgono tutte le sofferenze dell’umanità. Vorrei condividere quelle sofferenze. Sono molto legato al popolo ebraico, vorrei condividere la sua sofferenza” (1991). Gerusalemme resta, per Martini, una nota dominante che lo accompagna nelle diverse fasi della sua vita. E la difficoltà di realizzare oggi un suo antico desiderio può essere accompagnato dalle parole di Isaia: “non prendetevi mai riposo…finché non abbia ristabilito Gerusalemme e finché non l’abbia resa il vanto della terra”(62, 7).


La città di Milano, agli inizi del ministero pastorale di Martini, era “particolarmente ferita da gesti e segni di violenza”. E il cardinale ricorda che spesso in quegli anni gli tornava alla mente il salmo 122: “Domandate pace per Gerusalemme”. Erano anni davvero difficili per la città e per l’intero paese segnato da grosse tensioni. Il cardinale rappresentò, anche per chi aveva percorso sentieri sbagliati, un punto di possibile riconciliazione. E poteva indicare perciò l’urgenza di percorrere la via della pace non solo nella paura di un possibile conflitto nucleare ma anche nella riscoperta di quegli ideali che “prendono il nome di giustizia, verità, libertà, solidarietà, aprendosi fino al tema esigente dell’amore universale del prossimo…Essi fanno riferimento al modo di esistere e di agire…così come è illustrato dalla testimonianza di affascinanti personalità il cui contributo per una convivenza più pacifica è indispensabile: da san Francesco d’Assisi al vescovo Oscar Romero, da Gandhi e Martyin Luther King” (in Relazioni Internazionali, gennaio 1984). Legava così la questione morale alla pace e alla fraternità universale; due dimensioni iscritte profondamente in Gerusalemme. Il 6 dicembre 1983, nell’omelia per Sant’Ambrogio, affermava: “Gerusalemme che è simbolo di ogni altra città dell’uomo, mi pare che si allarghi, nell’attuale momento storico, a tutta la cosmopoli umana: cioè a tutta quella sterminata città degli uomini dispersi in tutte le latitudini e chiamati oggi a unità e fraternità, oltre che da una interiore vocazione, da una imprescindibile necessità di sopravvivenza”. Si potrebbe perciò dire di Martini: da Roma, a Milano, all’Europa, al mondo intero, ma sempre Gerusalemme, città della pace. “Mi stupisco anch’io di come sia forte il mio legame con Gerusalemme. Ha un’origine affettiva profonda…Sogno di vivere un giorno nella città santa, dedicando il mio tempo alla preghiera e allo studio”(intervista ad Avvenire).


Nel 1993, dieci anni dopo le parole pronunciate a Sant’Ambrogio, si tenne a Milano il settimo Incontro Internazionale della preghiera per la pace. Era caduto il muro di Berlino e qualcuno parlava di “fine della storia”. Ma immediatamente tutti ci accorgemmo che la storia non era finita, e si apriva un mondo forse meno tragico ma certo più complesso. Nel messaggio alla chiesa ambrosiana il cardinale diceva: “Ci troviamo di fronte ad una congiuntura sociale mai sperimentata nella storia. Siamo entrati in un nuovo periodo della vicenda umana sulla terra: vecchie strutture ideologiche e politiche sono cadute, si stanno cercando confusamente nuovi equilibri, si avverte la necessità di un nuovo ordinamento internazionale: la geografia del mondo sta cambiando. Se il muro che divideva l’Europa è stato abbattuto, si sente dall’altro canto la spinta ad erigere tanti nuovi muri, talvolta più alti, in nome della difesa della propria sicurezza. Muri all’interno degli stati, muri tra nazione e nazione, un grande muro tra nord e sud del mondo”.  Sono parole che fotografano la situazione del mondo in quegli anni, ma conservano ancora oggi tutto il loro peso. Con sapienza, il cardinale metteva in guardia il Nord dalla tentazione di ritirarsi dal grande Sud, attenuando così la solidarietà, privatizzando le coscienze e rafforzando paure e insicurezze che avrebbero portato inesorabilmente ad un esasperato individualismo. Ma indicava anche una opportunità: “L’attuale contingenza storica offre al Nord del mondo una straordinaria chance per rigenerarsi profondamente nel suo rapporto con il Sud, salvando al tempo stesso il meglio della tradizione storica e della civiltà di ogni popolo. Forse, per la prima volta in epoca moderna, c’è la possibilità di edificare una convivenza civile che non nasca sulla contrapposizione. E’ la sfida a costruire una società senza nemici, senza avversari  – e non per questo senza identità, – una società in cui le diversità si riconcilino e si integrino”. Le vicende drammatiche dell’11 settembre che hanno cambiato ancora una volta il corso della storia, sembrano far crollare anche queste parole sulle ceneri delle due torri.


Eppure il bagaglio di riflessioni che il cardinale ha tenuto a cavallo del millennio sul compito che le religioni hanno di fronte alla pace resta di grande attualità. Mentre da più parti si sottolinea l’ineluttabilità del “conflitto tra le civiltà” e quindi dello scontro tra i popoli, il cardinale ribadisce l’indispensabile impegno dei credenti per la pace: “Come cristiani non possiamo fare a meno di avvertire una speciale chiamata a rendere concorde testimonianza al Vangelo della pace”. Dopo lo storico incontro tra i responsabili delle grandi religioni mondiali di Assisi promosso da Giovanni Paolo II per invocare la pace, era l’ottobre del 1986, il cardinale iniziò a partecipare a vari incontri organizzati dalla Comunità di Sant’Egidio che intendevano riprendere quel che il Papa chiamò lo “Spirito di Assisi”. Nell’incontro del 1987, tenutosi a Roma, il cardinale sottolineava che se la pace è un terreno privilegiato dell’impegno dei credenti è altresì un dono di Dio al di là degli sforzi degli uomini. E diceva: “Bisogna rilevare che in questi anni, attraverso esperienze diverse, è cresciuta e si è diffusa la coscienza comune della pace come dono, come bene trascendente, che non è riconducibile alla mera sommatoria degli sforzi umani”. Commentando un brano della prima lettera a Timoteo spiegava quanto la preghiera dovesse essere alla radice della pace: “La preghiera è l’arma pacifica dell’uomo religioso”. Ricordo che l’ambasciatore russo, presente a questo incontro, dopo aver ascoltato l’esposizione del cardinale sull’impegno dell’apostolo Paolo per la pace, mostrò la sua sorpresa più o meno con queste parole: “Non pensavo che San Paolo, che vedo sempre con la spada sguainata in mano, fosse un testimone della pace!” Ovviamente, il cardinale sorrise e assentì con il suo tradizionale: “Eh, già!”


Dopo Assisi, in effetti, abbiamo assistito a non pochi eventi di pace, sia nel Nord che nel Sud del mondo. Si avverava l’augurio di Giovanni Paolo II ad Assisi: “La pace ha bisogno dei suoi profeti…La pace è un cantiere, aperto a tutti e non soltanto agli specialisti, ai sapienti e agli strateghi”. Martini sentì riecheggiare in queste parole quanto Paolo VI scriveva nel messaggio per il 1 gennaio 1970: “La pace non si gode; si crea. La pace non è un livello ormai raggiunto, è un livello superiore, a cui sempre tutti e ciascuno dobbiamo aspirare”. E tuttavia il cardinale notava nel messaggio alla diocesi del 1993: “Non c’è dubbio che proprio ai nostri giorni, in modi vecchi eppure nuovi la guerra abbia trovato e trovi se non i suoi profeti, almeno i suoi fedeli”.


E tuttavia il cardinale non si ferma nella predicazione del Vangelo della pace. Sa bene che i credenti hanno un compito precipuo nei confronti della pace, come più volte ha affermato negli incontri interreligiosi a cui ha partecipato: “I credenti non possono certo sostituirsi ai politici nelle loro precipue responsabilità; eppure hanno un proprio semplice, alto compito: ad essi è chiesto di essere vigilanti nell’ascolto delle attese e delle speranze degli uomini, nel dialogo sincero con tutti, nella preghiera e nella ricerca costante della pace”. E in questo itinerario i cristiani si ritrovano accanto a credenti di altre religioni per ricercare assieme la pace e invocarla dall’alto ciascuno secondo la propria fede. Ogni tradizione religiosa infatti è chiamata in questo tempo a liberare tutte le energie di pace che custodisce nel proprio credo. Si tratta di un processo che aiuta i credenti ad allontanarsi dalla tentazione della passività di fronte alla guerra, dell’acquiescenza o addirittura della giustificazione dei conflitti. In un mondo che riscopre con forza le identità nazionali, le religioni possono con grande facilità essere strumentalizzate per rafforzare le contrapposizioni. E’ storia recentissima, anche dei nostri giorni.


E’ questa convinzione che spinse il cardinale Martini, nell’incontro Islamo-cristiano organizzato a Roma immediatamente dopo l’11 settembre dalla Comunità di Sant’Egidio, ad affermare: “Stiamo vivendo in questo inizio di millennio una gravissima crisi dell’umanità. Le persone di buona volontà sono poste di fronte a una tragica sfida, una sfida che si ripresenta purtroppo a intervalli quasi regolari, nel cammino della civiltà. E’ una sfida che l’umanità ha vissuto anche in tempi recenti, come ad esempio dieci anni fa, all’epoca della guerra del Golfo. E in decenni ancora precedenti, come ad esempio al tempo di Papa Giovanni XXIII e della crisi di Cuba. Emerge cioè la domanda drammatica di come riuscire a spegnere con decisione e fermezza ogni focolaio di terrorismo omicida senza, al tempo stesso, moltiplicare e ingigantire le reazioni a catena della violenza e dell’odio.  E proprio per questo il Papa nell’udienza di mercoledì 12 settembre, proprio il giorno dopo i tragici eventi degli Stati Uniti, dopo aver espresso il suo profondo dolore per gli attacchi terroristici che avevano insanguinato l’America, dopo aver espresso la sua partecipazione al lutto di tante famiglie, e dopo aver detto la sua indignata condanna di un così inqualificabile orrore, ha riaffermato che mai le vie della violenza conducono a vere soluzioni dei problemi dell’umanità, e ha proclamato che, se anche la forza delle tenebre sembra prevalere, il credente sa che il male e la morte non hanno l’ultima parola”.


Il cardinale continua sottolineando un tema caro agli incontri per la pace della Comunità di Sant’Egidio: i credenti si presentano davanti ai grandi problemi del mondo poveri di forza materiale o politica, ma essi hanno una “forza debole”, quella della loro fede, della mitezza, dell’uso del dialogo, della comprensione e, soprattutto, della preghiera. Certo questo richiede anche che ciascuno, nel vivere quotidiano e nell’ambito delle sue responsabilità, anche all’apparenza nascoste e insignificanti, bandisca ogni violenza, anche soltanto nelle parole e nei sentimenti. Ed anche nella comprensibile ansia di una legittima difesa e nella giusta volontà di disarmare e di scoraggiare ogni possibile atto di terrorismo, bisogna agire nella ragionevolezza e nel rispetto della complessità dei dati, senza facili semplificazioni di volti del nemico, senza affrettate creazioni di capri espiatori che possano soddisfare una volontà di rivalsa.


“La violenza e il terrorismo – dice chiaramente il cardinale – vanno isolati e disarmati con energia e determinazione, ma proprio per questo non devono essere confusi con contesti culturali, religiosi o etnici molto più ampi, che solo una riduttiva ricerca di bersagli immediati da colpire potrebbe ritenere responsabili diretti di tanta crudeltà. E anche nel conflitto che tuttora insanguina il Medio Oriente occorrerà coraggiosamente e urgentemente mettere mano a iniziative di dialogo e di pace, di sospensione delle ostilità e di moltiplicazione di gesti di mutuo ascolto, ignorando ogni volontà di rivalsa che genera soltanto nuove violenze”. Purtroppo queste parole non hanno trovato riscontro nei mesi successivi all’11 settembre. Proprio in Terra Santa c’è stata un’accelerazione di violenza che ha portato distruzioni e morte da ambedue le parti. Ma le religioni sono chiamate ancora una volta a compiere ogni sforzo sia per evitare i conflitti che per sostenere il dialogo. Martini sottolinea le parole che Giovanni Paolo II disse durante il viaggio in Kazakihstan: “Non dobbiamo permettere che quanto è accaduto conduca ad un inasprirsi delle divisioni; la religione non deve mai essere utilizzata come motivo di conflitto. E la pace, dunque, può essere costruita solo sulle solide fondamenta del rispetto reciproco, della giustizia nelle relazioni tra comunità diverse e nella magnanimità da parte dei forti”. Il cardinale sottolinea poi che l’attuale situazione mondiale segnata dalla globalizzazione (considerata spesso causa remota di conflitti, di impoverimenti, di rabbie di popoli, di mutua lotta gli uni contro gli altri), richiede una cultura del dialogo e una globalizzazione della solidarietà, che le religioni sono chiamate sempre più a sostenere.


Il dialogo, dunque, è atteggiamento tipico degli spiriti rispettosi delle idee altrui, alieni da ogni dogmatismo ed integralismo, alieni dal litigio, dalla sopraffazione e dal sospetto. Il dialogo suppone la ricerca di ciò che è vero, buono e giusto, per ogni uomo, per ogni gruppo e per ogni società, e di ciò che è e resta comune a tutti gli uomini, anche in mezzo alla contrapposizione. Il dialogo esige l’apertura e l’accoglienza; consiste nella ricerca del bene con mezzi pacifici e volontà costante di ricorrere a tutte le possibili formule di negoziazione, di mediazione, di arbitrato, per far sì che i fattori di avvicinamento prevalgano sui fattori di divisione e di odio. Il dialogo è espressione del riconoscimento della dignità inalienabile di ogni uomo e di tutti gli uomini, ed è proprio il riconoscimento della dignità inalienabile di ogni uomo e donna e di tutti gli uomini la chiave di volta per la realizzazione di una pace autentica. Se tutti gli uomini sono figli di Dio, creati da Dio, devono riconoscersi come fratelli e guardarsi in faccia l’un l’altro con accoglienza, con amore e con spirito di responsabilità.


Si tratta, perciò, ancora una volta e sempre, di riconoscere e riaffermare e promuovere la centralità dell’uomo, considerato nella sua integralità e nella sua dignità inviolabile, e quindi riconosciuto ed onorato come persona. La sfida dunque più profonda, quella a cui devono rispondere anche tutte le religioni, è quella di dare corpo ad una convivenza che sia a servizio dell’uomo, di ciascuno e di tutti, e a una globalizzazione attuata mediante una autentica cultura dello scambio e secondo un vero atteggiamento di dialogo che rispetti e promuova i diritti sacrosanti ed inalienabili dell’uomo, non solo per alcuni, ma per tutti, ad iniziare dai più deboli e dai più poveri.