L’Europa e il fatto religioso:

L’Europa e il fatto religioso:

Un incontro come questo si potrebbe dire che cade in un momento opportuno, non solo per il momento storico più generale, ma anche per la contingenza relativa alla stesura del nuovo statuto regionale. Sarebbe certamente utile per tutti una riflessione sul passato della nostra regione in vista di una più chiara definizione del suo futuro. Forse non è questa la sede e tanto meno sono io a poterla fare. Ma almeno un cenno mi pare necessario. E mi riferisco al regionalismo umbro, inteso come elaborazione intellettuale ed azione politica, che senza dubbio ha avuto molti meriti, ma anche alcune ombre. Tra i meriti va certamente segnalato quello di aver imposto, ben prima dell’avvio dell’ordinamento regionale in Italia, il tema dei livelli intermedi (né nazionale – né locale) di governo del territorio e dell’economia (oggi diremmo di regolazione dell’economia e di realizzazione di azioni per lo sviluppo).


Ma la cultura con la quale il regionalismo umbro affrontò questi temi (e diresse molte delle politiche relative) manifestò ben presto alcuni limiti. L’attenzione esclusiva, ad esempio, alla grande industria ed alle forme di partecipazione pubblica alla proprietà delle imprese (il modello “pesante” di sviluppo) non consentì la crescita di modelli alternativi (quello chiamato “leggero”, come è avvenuto nelle Marche), e neppure il riconoscimento dei fenomeni di crisi del primo modello e di crescita del secondo già in atto nella realtà economica regionale.


L’espansione della sfera pubblica, a fini di redistribuzione del reddito, portò progressivamente alla crescita di un modello invasivo nei rapporti tra sistema politico e società regionale, nel quale gli interessi degli apparati amministrativi, accompagnati o no da elaborazioni dottrinali sul ruolo del settore pubblico come agente di solidarietà infraregionale, avevano di fatto la meglio. Di qui l’effetto perverso delle spese per il sostegno di questi apparati, a danno di impieghi più produttivi – come riconosciuto ancora nel DAP (Documento annuale di programmazione della Regione) 2002-2004, e di un diverso assetto dei rapporti tra politica, economia e società.



L’Umbria della transizione: opportunità e rischi


Ma veniamo alla situazione odierna, piena di opportunità da cogliere ma anche, parallelamente, di nuovi rischi da evitare. A me pare opportuno puntare innanzi tutto sulla volontà di rompere i residui di isolamento culturale, economico e politico della regione. E per fare questo bisogna puntare sulla costruzione di aree territoriali di integrazione economica che si estendano oltre i confini amministrativi della regione e che seguano i fattori di convenienza economica e sociale. Credo che l’idea della cosiddetta Italia di Mezzo o “Terza Italia”, come qualcuno ama dire, può essere non poco feconda per intraprendere un cammino comune tra le regioni e le aree dell’Italia Centrale. I due seminari promossi da Nemetria ad Assisi hanno mostrato i caratteri comuni tra queste regioni centrali, le quali, tuttavia, non riescono a fare di questa loro condizione un punto di forza. Ne consegue una sorta di doppia scarsa “visibilità politica”, quella delle singole regioni e quella dell’intera area centrale nonostante le notevoli potenzialità. Lo sviluppo o il declino, e non solo dell’Umbria ma certamente di essa, passano attraverso questa strada. Le conclusioni del seminario dello scorso maggio ad Assisi, non sto qui a ripeterle, sono molto significative e direi anche lusinghiere. E richiederebbero senza alcun dubbio una maggiore attenzione da parte di tutte le forze sociali, culturali e politiche. E qui non c’è appartenenza che possa frenare. Semmai c’è da superare quella pericolosa autoreferenzialità, divenuta trasversale, perché parcellizza territori e gruppi, politici a amministratori.


Un punto centrale che emerge è proprio la necessità di una concertazione tra tutte le realtà delle varie regioni centrali in vista della emersione di una sorta di Terzo Polo territoriale economico-produttivo e socio culturale rispetto al Nord ed al Sud. Il CENSIS, riguardo a questo obiettivo, afferma, con il suo linguaggio sintetico, che bisogna porre in atto un processo di tipo poliarchico e pluralistico. E’ a dire, appunto, che tutte le istituzioni e le realtà sociali presenti in forma organizzata sul territorio sono chiamate ad offrire il loro contributo progettuale e decisionale all’edificazione di questa nuova e più ampia realtà macro-regionale. Ma questo è possibile unicamente se si favorisce una “cultura delle alleanze”. E’ ovvio che solo attraverso il coinvolgimento attivo ed operativo di tutte le realtà, sia sociali che istituzionali presenti nella società civile, sarà infatti possibile qualificare la cultura di governo del territorio ed essere competitivi rispetto alle altre macro-aree territoriali del Paese (in particolare quelle del nord e del nord-est). In tale contesto vanno valorizzati i cosiddetti Patti territoriali che sino ad oggi sono stati l’esempio migliore di quella cultura della cooperazione e delle alleanze su cui fondare un’idea di sviluppo che veda come protagonisti le imprese locali, le forze sociali e le istituzioni pubbliche.


Ma restando più specificatamente nel contesto umbro mi pare che, in ogni caso, l’obiettivo deve essere quello di creare economie di scala e servizi adeguati a rendere competitive intere aree territoriali più che individuare nuovi bacini di attrazione di trasferimenti pubblici (comunitari, statali o regionali). Questo comporta investimenti sulla formazione e, in generale, sulle politiche per l’educazione e la cultura, innestando i necessari investimenti innovativi – ad esempio, nel campo delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione – nella tradizione culturale regionale, valorizzandone il pluralismo e la ricchezza. Parallelamente debbono essere resi ancor più vincolanti gli impegni – recentemente e solennemente confermati – per lo sviluppo e la modernizzazione delle infrastrutture di trasporto e per la crescita del polo universitario ternano, senza chiudere la strada – a proposito dell’università – ad eventuali ed innovative iniziative private, in un clima di feconda competizione culturale e didattica.



Il futuro dell’Umbria


Volendo sintetizzare in poche battute le sfide per il futuro si possono individuare una serie di snodi strategici. Innanzi tutto l’identità regionale. E qui permettetemi di fermarmi su un punto particolare, lasciando il resto a quanto è stato scritto nel documento per la redazione dello Statuto regionale da parte della Consulta per la pastorale sociale e del lavoro della CEU. Premesso che occorre superare definitivamente l’idea di città-regione, un’idea che ha spesso alimentato politiche centralistiche e paradossalmente ha legittimato e congelato il dualismo tra Terni e Perugia, a danno del sud dell’Umbria e, più in generale, della competitività dell’intero sistema economico regionale, vorrei accennare al rapporto tra spiritualità e identità regionale. Anche perché mi ha fatto non poca sorpresa, ad esempio, che nel volume sulla storia dell’Umbria edito da Einaudi non si faccia menzione né della società civile e neppure della religione. C’è stato chi recentemente, su un quotidiano della regione, ha scritto a proposito del rapporto tra spiritualità e identità della Regione un interessante articolo. L’autore richiamava la serietà di tale rapporto, ricordando soprattutto la vicenda passata della regione ed esortava ad allontanarsi da interpretazioni facili e superficiali. In verità è parso anche me un po’ fragile il richiamo all’interpretazione che Gramsci fa di San Francesco, accusato di passività di fronte alle eresie medioevali. In ogni caso ha ragione nel gettare la pietra nello stagno e agitare le acque. Perché il rischio è che i contenuti che costituiscono l’identità vengano taciuti per dare spazio più alle forme della politica. Riflettere sulla spiritualità della nostra terra, o meglio sulla dimensione religiosa nel suo rapporto con la società umbra, non significa affatto negare la laicità delle istituzioni civili. E va ben compreso che l’identità di una società è data dalla ricchezza dei valori ideali sui quali si è costruito il consenso e quindi anche la forma dell’istituzione. E sappiamo bene quanto la dimensione religiosa sia importante per la formazione dei valori e degli ideali. Vale la pena, a tale proposito, ricordare la sentenza n. 203 del 1989 della Corte Costituzionale, nella quale si scrive: “Il principio di laicità quale emerge dalla Costituzione Italiana implica non l’indifferenza dello Stato di fronte alla religione, ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione in un regime di pluralismo culturale e religioso….L’attitudine laica dello Stato-comunità risponde non a postulati ideologizzati ed astratti di estraneità, ostilità o confessione dello stato-persona o dei suoi gruppi dirigenti rispetto alla religione o a un particolare credo, ma si pone a servizio di concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini”. Si rifiuta insomma la concezione della laicità secondo la tradizione francese che comprende anche un portato etico (nella Costituzione italiana, non a caso, non si parla di Stato “laico”, come in quella francese). La laicità dello Stato, secondo la Costituzione Italiana, significa il dovere che esso ha di garantire la libertà di coscienza.


Questo è un invito alle diverse componenti culturali e religiose di presentare il meglio delle loro tradizioni per contribuire alla costruzione di una identità forte. In questo contesto sarebbe auspicabile ad esempio che le stesse Chiese dell’Umbria sentissero ancor più l’urgenza di partecipare al processo di rafforzamento della identità regionale, inserendosi nel contesto dell’area centrale dell’Italia, tanto più che fino a poco tempo fa non coincideva la regione ecclesiastica con quella civile. Come non pensare al ruolo di Assisi; e dico del supplemento di idealità che esso rappresenta da quando il papa lo ha reso centro del dialogo interreligioso. E’ una dimensione nuova, prima impensata. Ma qui ci ha pensato il papa. E lui lo sa bene che certi incontri a Roma sono impossibili, mentre ad Assisi sono di casa, se così posso dire. Non parlo di quel reticolo rappresentato dalle parrocchie e dalle loro innumerevoli iniziative che scavalcano i confini della regione sino a giungere terre lontane e certamente bisognose. E ai cattolici stessi, e mi riferisco al variegato mondo laicale, è chiesto di essere ben più responsabili della cosa pubblica, intendendo non solo l’ambito più specificatamente politico-amministrativo ma anche tutti gli altri ambiti della vita, da quello culturale a quello scolastico, a quello sociale, a quello dell’impegno per la pace, per la tutela dei diritti dei più deboli. Insomma c’è da essere più cattolici, ossia meno succubi e più audaci, più presenti non per difendere se stessi ma per promuovere il bene comune, avendo l’arte ardua ma indispensabile del dialogo e dell’incontro. Non abbiamo il monopolio della verità, ma appassionati del bene di tutti, sì. Analogo discorso si chiede, a mio avviso, a tutte le altre tradizioni culturali, comprese quelle laiche. Così pure ai laici è chiesto di essere più laici, più attenti alle radici culturali da cui sono nati e che tanto hanno contribuito alla storia del paese e della stessa regione. In un momento fondativi, com’è l’attuale, tutto abbiamo bisogno fuorché di lotte sciocche ed estranee alla nostra tradizione: penso al primato del bene comune, al primato della persona e della famiglia, al primato della giustizia e della pace, all’attenzione ai ceti più deboli, al primato della tolleranza, e così oltre. E’ urgente anche in questo campo il concorso di tutti, nella giusta e auspicabile dialettica, ma avendo presente tutti la crescita della nostra regione.


In questo cammino di ridefinizione dell’identità regionale è auspicabile uno statuto che disegni istituzioni regionali di governo forti, efficienti, responsabili e rispettose del sistema della autonomie locali. A questo scopo la legittimazione diretta degli esecutivi costituisce un requisito indispensabile, in considerazione della caratteristiche storiche del sistema di partito in Umbria. A questo proposito molti spunti di riflessione ed indicazioni di riforma vengono dal documento della Consulta regionale per i problemi sociali, il lavoro, la giustizia e la pace della CEU “Contributo per lo statuto della Regione dell’Umbria” dello scorso febbraio.


Un snodo che va affrontato è quello delle politiche di partnership pubblico-privato, tra le quali possiamo far rientrare quelle contenute nel Patto per lo sviluppo, le quali rischiano – se non ben congegnate – di finire con il limitarsi a sostenere flussi di trasferimenti pubblici, senza innescare comportamenti virtuosi di tutte le parti coinvolte. C’è poi da puntare sull’innovazione e sulla crescita. In questa direzione è necessario innescare due comportamenti virtuosi, entrambi legati all’efficienza della pubblica amministrazione, condizione indispensabile per rendere possibili politiche di localizzazione e sviluppo di nuova imprenditorialità. Da un lato la pubblica amministrazione regionale ha bisogno, come abbiamo visto, di una cura dimagrante. Per l’altro ha bisogno di forti investimenti sul piano dell’innovazione tecnologica, tenendo presenti due fondamentali condizioni: introdurre le tecnologie dell’informazione e della comunicazione significa cambiare anche il modo di lavorare (e quindi di organizzare il lavoro e di tutelare i lavori); introdurre nuove tecnologie vuol dire realizzare un’operazione di sistema, senza la quale le isolate aree di innovazione vengono velocemente riassorbite dai modelli tradizionali di organizzazione e di lavoro.


La tutela dei lavori appena ricordata costituisce un ulteriore punto fondamentale di passaggio. Il sistema economico regionale deve portare l’Umbria a sperimentare con coraggio forme sempre più differenziate di tutela, alla luce del principio per cui il lavoro deve essere tutelato “nel” mercato e non “dal” mercato. Per questo anche le organizzazioni sindacali debbono concorrere a definire nuovi livelli di tutela collettiva, espandendo lo spazio della contrattazione locale ed aziendale, in primo luogo allo scopo di creare condizioni favorevoli agli investimenti ed alla crescita. Un capitolo fondamentale di questo sistema flessibile e “locale” di contrattazione dovrà essere dedicato agli impegni per la formazione, risorsa indispensabile per rendere i sistemi economici territoriali competitivi e scongiurare i rischi della disoccupazione di lunga durata. Ciò comporta anche – sul piano delle politiche pubbliche – un’ulteriore riforma delle politiche per la formazione professionale che eviti una loro sostanziale trasformazione in politiche occulte di solo “sostegno” alla condizione di disoccupazione.


In conclusione vorrei ancora una volta sottolineare che è indispensabile la partecipazione di tutti i soggetti sociali, ciascuno con il proprio specifico contributo, allo sforzo della comunità regionale per affrontare le sfide del XXI secolo. Tutti, senza gerarchie sociali o funzioni di supremazia. Istituzioni politiche, imprese, università, organizzazioni di interesse, chiese locali in tutte le loro manifestazioni, debbono guardare in modo nuovo alle forme di reciproca collaborazione. L’obiettivo è ambizioso: passare da una stagione dell’egemonia ad una stagione della poliarchia; da una stagione nella quale la politica (nel suo insieme, nessun protagonista escluso: il “sistema politico amico” di cui parlavano vent’anni fa un gruppo di studiosi della politica in Umbria) si concepiva come vertice e ricapitolazione dell’intera società regionale, ad una nella quale ciascun settore specifico (politica, economia, scienza, religione) soddisfa i bisogni (vecchi e nuovi) della realtà regionale, rendendola più aperta e più innovativa.