Le cure palliative per la promozione di una cultura di responsabilità sociale

Sono lieto di porgere il mio saluto a voi tutti all’apertura di questo Workshop promosso dalla Pontificia Accademia per la Vita in collaborazione con l’Istituto Nazionale Tumori e la Fondazione Floriani. Il tema dell’incontro richiama l’importanza delle cure palliative come modello clinico per gestire la malattia avanzata sino al passaggio della morte, sottolinea la sua importanza per la promozione di una cultura della cura che appare quanto mai opportuna in una società come la nostra che facilmente si lascia sorprendere da quella che Papa Francesco stigmatizza come “cultura dello scarto”. Non è affatto raro che nella società contemporanea i malati e le loro famiglie siano doppiamente vittime: da una parte della malattia e dall’altra dell’abbandono.

Le cure palliative non solo contrastano questa logica perversa, ma rispondono a quel bisogno radicale di essere accompagnati sempre e soprattutto nei momenti più difficili, come può essere quello della malattia nel passaggio della morte. Più volte il Magistero recente della Chiesa Cattolica è intervenuto in tal senso. Ultimamente, Papa Francesco, ha parlato delle cure palliative come una “espressione dell’attitudine propriamente umana a prendersi cura gli uni degli altri, specialmente di chi soffre. Esse testimoniano che la persona umana rimane sempre preziosa, anche se segnata dall’anzianità e dalla malattia. La persona infatti, in qualsiasi circostanza, è un bene per sé stessa e per gli altri ed è amata da Dio”(Discorso del Santo Padre Francesco ai partecipanti alla Plenaria della Pontificia Accademia per la Vita, 2015).

Per questo ritengo urgente che si promuovano le “cure palliative”. Anzitutto nel suo aspetto scientifico-culturale e didattico. Lo accenno appena. Credo sia importante che le cure palliative entrino a pieno titolo tra le discipline universitarie. Purtroppo sappiamo quanto sia scarso il numero di studenti sia di medicina sia dei corsi infermieristici intenzionati a dedicarsi alla cura dei malati in prossimità della morte e soprattutto delle persone anziane. Dobbiamo far crescere anche la stima per le cure palliative, anche perché aiutano a riscoprire la vocazione più profonda della medicina che consiste prima di tutto nel prendersi cura.

Lo richiamava Papa Francesco all’Accademia per la Vita: “Il compito (della medicina) è di curare sempre, anche se non sempre si può guarire. Certamente l’impresa medica si basa sull’impegno instancabile di acquisire nuove conoscenze e di sconfiggere un numero sempre maggiore di malattie. Ma le cure palliative introducono all’interno della pratica clinica la consapevolezza che il limite richiede non solo di essere combattuto e spostato, ma anche riconosciuto e accettato. E questo significa non abbandonare le persone malate, ma anzi stare loro vicino e accompagnarle nella difficile prova che si fa presente alla conclusione della vita. Quando tutte le risorse del “fare” sembrano esaurite, proprio allora emerge l’aspetto più importante nelle relazioni umane che è quello dell’“essere”: essere presenti, essere vicini, essere accoglienti. Questo comporta anche di condividere l’impotenza di chi giunge al punto estremo della vita. Diventando solidali nel momento in cui l’azione non riesce più a incidere nel corso degli eventi, il limite può cambiare di segno: non più luogo di separazione e di solitudine, ma occasione di incontro e di comunione”.

Mi paiono riflessioni particolarmente significative. Ed è in questo orizzonte che si comprende ancor più quanto la crescita delle cure palliative favorisca nella società la cultura della cura vicendevole. Le cure palliative sono parte indispensabile del circolo virtuoso che unisce i diritti e i doveri perché una società sia armoniosa: tutti hanno diritto ad essere accompagnati e curati, sempre. E tutti hanno altresì il dovere di accompagnare e di curare, sempre. A me piace ricordare che il termine palliativo viene da pallium (mantello): il più debole ha bisogno di essere circondato dal mantello dell’amore. Cito una sura del Corano scoperta di recente: ‘Che la tenerezza ti ricopra, tu, l’altro, come un manto’.

Papa Francesco, in questo orizzonte di senso, afferma: “Cogliere nella propria esperienza come la vita umana sia ricevuta dagli altri che ci hanno messo al mondo e si sia sviluppata grazie alla loro cura, conduce a comprendere più profondamente il senso della dimensione passiva che la caratterizza. Appare allora ragionevole gettare un ponte tra quella cura che si è ricevuta fin dall’inizio della vita e che le ha consentito di dispiegarsi in tutto l’arco del suo svolgersi, e la cura da prestare responsabilmente agli altri, nel susseguirsi delle generazioni fino ad abbracciare l’intera famiglia umana. Per questa via può accendersi la scintilla che collega l’esperienza dell’amorevole condivisione della vita umana, fino al suo misterioso congedo, con l’annuncio evangelico che vede tutti come figli dello stesso Padre e riconosce in ciascuno la Sua immagine inviolabile. Il mistero santo di questo legame sta a presidio di una dignità che non cessa di vivere: neppure con la perdita della salute, del ruolo sociale e del controllo sul proprio corpo. Ecco allora che le cure palliative mostrano il loro valore non solo per la pratica medica – perché anche quando agisce con efficacia realizzando guarigioni talvolta spettacolari, non si dimentichi di questo atteggiamento di fondo che sta alla radice di ogni relazione di cura –, ma anche più in generale per l’intera convivenza umana”.

La Pontificia Accademia per la Vita ha preso l’impegno perché tutto ciò possa avvenire a livello della Chiesa Cattolica ovunque nel mondo. Abbiamo già realizzato vari Congressi su questo tema sia in Italia che in Europa, negli Stati Uniti, nel mondo arabo, in Qatar, e ne sono altri in programma. E’ ormai pronto un Libro Bianco che vorremmo inviare alle università Cattoliche e agli Ospedali Cattolici nel mondo per poter far crescere non solo la conoscenza ma soprattutto la pratica delle cure palliative. Sono per questo particolarmente contento della giornata odierna durante la quale ci proponiamo di individuare i modi per intensificare il nostro rapporto e promuovere una sensibilizzazione più larga verso di esse. Ci accomuna la volontà di promuovere una “cultura palliativa”, sia per rispondere alla tentazione che viene dall’eutanasia e dal suicidio assistito, sia soprattutto per fa maturare una “cultura della cura” che permetta di offrire una compagnia di amore sino al passaggio della morte. Certo – l’ho già accennato prima – sappiamo che la prospettiva della “guarigione”, gioca un ruolo preponderante nella medicina contemporanea. Ma va evitato il rischio che sia l’unico obiettivo da ottenere a qualsiasi costo, dimenticando cioè il limite radicale che fa parte della nostra esistenza. L’illusione della immortalità, che fa da sfondo all’unico obiettivo della guarigione, è pericolosissima. La radicale finitudine umana porta ad escludere con decisione l’ostinazione nell’uso dei trattamenti, che infligge sofferenze inutili o addirittura dannose al paziente. Mai bisogna perciò abbandonare il malato, anche quando viene meno la possibilità di guarigione.

Sappiamo bene quanto le cure palliative siano state protagoniste del recupero di un accompagnamento integrale del malato nell’ambito della medicina contemporanea. Prendersi cura del malato è un passo indispensabile da compiere. A volte i sintomi di un disagio psicologico e della sofferenza esistenziale legati alla malattia emergono in maniera improvvisa e devastante, anche per un diffuso individualismo che lascia soli coloro che avrebbero più bisogno di sostegno e di accompagnamento. La medicina, se può “fallire” nell’ottenere la guarigione, non fallisce mai nel prendersi cura del malato. Ecco perché, nonostante i notevoli e continui progressi tecno-scientifici, l’ambito, forse unico, in cui si ha la certezza di conseguire sempre l’obiettivo è quello del prendersi cura della persona malata.

C’è poca cultura dell’accompagnamento anche perché c’è poco amore gratuito. In un mio recente volume, “Sorella morte”, ho sottolineato l’urgenza di un modo nuovo di essere vicini a chi è debole, particolarmente a chi deve affrontare l’ultima tappa della vita nel passaggio della morte. E credo che anche la pastorale cristiana è chiamata a interrogarsi seriamente sul perché si è rarefatta la predicazione sulla morte e sulle realtà ultime. A mio avviso vi è un colpevole “indebolimento della predicazione del Vangelo della morte, risurrezione e vita eterna. È divenuto sempre più raro, purtroppo, ascoltare la predicazione sugli eventi ultimi della vita e sul mistero della vita oltre la morte” (p. 217). Le nostre società sono più povere di parole sul mistero del passaggio che la morte rappresenta nella esistenza umana. Per parte mia sono sempre più dubbioso nel parlare della morte come fine della vita. Non è questa la sede per dilungarmi su questo. Ma, preferisco sottolineare la morte come un passaggio, con tutto il bagaglio culturale e spirituale che questo comporta. Noi non siamo una parentesi tra due nulla. La morte non è la fine. Che ne sarebbe di tutto il bene che abbiamo fatto, degli affetti, dei legami? Anche alla ragione questo non è sopportabile. Riflettere sul tema delle cure palliative significa anche chiedersi quali sono le parole che dobbiamo riapprendere per accompagnare chi è nei momenti finali della sua esistenza terrena? 

Sono certo che questa giornata di lavoro porterà un contributo fattivo perché le cure palliative, chiamate ad affrontare le grandi sfide del passaggio della morte, possano trovare sempre più accoglienza nella società. Le cure palliative sono un’azione positiva straordinaria che contrasta il lavoro sporco della morte che di fatto pratica l’eutanasia. Certo, noi non staremo a guardare la morte che fa il suo lavoro, senza fare nulla. Ma neppure faremo il lavoro della morte, che ci libera dal disagio come fosse un atto d’amore. L’amore per la vita, nella quale abbiamo amato e ci siamo amati, non è più solo nostro: è di tutti coloro con i quali è stato condiviso. E così deve essere, sino alla fine. Nessuno deve sentirsi colpevole del peso che la sua condizione mortale impone alla comunità dei suoi simili. Siamo umani. E l’idea umana della cura contrasta l’idea della malattia come esclusione dalla comunità e colpa imperdonabile. Per non dire del Vangelo, naturalmente, che ce ne libera anche teologicamente.

Nel chiudere questo mio saluto, vorrei rinnovare il mio ringraziamento alla Fondazione Floriani e all’Istituto Nazionale Tumori per aver accolto la proposta di questa giornata. Vorrei porgere un ringraziamento speciale anche al Comitato scientifico – Dr. Augusto Caraceni, Dr. Giovanni Zaninetta, Dr.ssa Adriana Turriziani, Don Tullio Proserpio: tutti hanno lavorato con competenza e vero zelo per organizzare la giornata odierna e so che ogni giorno lavorano per promuovere una cultura e attitudini di accoglienza e di cura delle persone che si avvicinano al passaggio della morte.

A tutti voi che condividete questa profonda passione per l’uomo, il mio augurio di una giornata proficua.

Milano, 8 febbraio 2019