Laici e credenti di fronte alla globalizzazione

Laici e credenti di fronte alla globalizzazione

Il tema che ho scelto è più vasto di quello che mi era stato proposto, ossia la laicità. Sono stato spinto a questa scelta a motivo dei tragici avvenimenti che accadono all’inizio di questo terzo millennio. E mi riferisco a quel clima di scontro che sembra prevalere nel nostro mondo mentre sempre più si corre verso la globalizzazione. Gli esempi sono molteplici, basti pensare ai conflitti etnici, alle guerre balcaniche, a quella israelo-palestinese e a tante altre ancora. Se poi guardiamo dentro il nostro paese vediamo crescere sempre più una cultura della difesa della propria identità che passa unicamente attraverso lo scontro violento con i diversi. E’ quel che Huntington ha chiamato lo scontro delle civiltà.


Ebbene, a mio avviso, questa non è una strada che porta a far progredire la storia. Al contrario, crea lacerazioni sempre più difficili da sanare. In tale orizzonte vorrei porre questa riflessione tra credenti e laici di fronte alla globalizzazione. Non faccio la storia delle lacerazioni provocate nel nostro paese dal mancato incontro della cultura laica con quella cattolica. Oggi però sono convinto che laici e credenti sono chiamati ad affrontare una comune sfida, quella della costruzione di un paese che viva la sua identità in dialogo stretto con l’Europa e con il mondo. Per questo quella ispirazione, semplice e profonda, che Giovanni XXIII individuava nel cercare anzitutto quel che unisce e mettere da parte quel che divide, va ripresa in tutta la sua potenzialità. Infatti, prima ancora che un problema di contenuti, è una questione di stile di vita, ossia un metodo di rapportarsi che, appunto, senza sopprimere le differenze fa evitare però lo scontro. In questo orizzonte, la discordia non significa inimicizia, la differenza non equivale a disastro, e l’altro da me non è più il nemico da sconfiggere e abbattere. Laici e credenti debbono affrontare assieme l’impegno per pace, per la giustizia, per la difesa dell’uomo e per la costruzione di un mondo nuovo.


In varie occasioni ho avuto modo di affrontare questo nuovo rapporto che deve instaurarsi tra laici e credenti. E, quando l’incontro è stato condotto senza pregiudizi, si sono toccate corde profonde, direi spirituali, senza fermarsi nelle secche di una politica di corto respiro. Ricordo gli incontri con Arrigo Levi, o con Giuliano Amato, e Umberto Eco in Italia, o in Portogallo con Mario Soares, o a Barcellona con Felipe Goncales, e in Francia con Jean Daniel. Qui il discorso sulla “laicità” potrebbe andare lontano. Cito solo la presa di posizione del primo ministro francese, Lionel Jospin, sulla Carta Europea, quando non voleva si parlasse di “eredità religiosa dell’Europa”. Fu immediata la reazione di studiosi come Ricoeur, Delumeau, Girad, Juliard…, e poi René Remond. Quest’ultimo, nel volume “Le christianisme en accusation”, giunge a parlare di una “cultura del disprezzo” nei confronti del cattolicesimo, anche se non manca da parte sua di accusare atteggiamenti inadeguati di un certo cattolicesimo di fronte alla modernità. Ma in Francia, come in Italia, c’è anche un interessante dibattito tutto interno al mondo laico, come quello tra il Luc Ferry e De Sponville, ambedue non credenti. Per loro la posta in gioco non è la scelta tra trascendenza e immanenza, bensì tra materialismo e spiritualità.


In Italia, se da una parte il dibattito si è fatto molto vivace, dall’altra rischia di bloccarsi nelle maglie della politica, perdendo così l’orizzonte “religioso” o “spirituale” che gli è proprio. In taluni casi il dibattito si è ristretto all’ambito politico chiedendosi se i credenti debbono o no mettere da parte la loro fede per essere davvero democratici. Ci si richiama, impropriamente, alla nota frase di Bonhoeffer: in politica i credenti debbono comportarsi “Etsi Deus non daretur”, “Come se Dio non ci fosse”. In altri casi, come nella polemica seguita al G8 di Genova, ci si incaglia sul rapporto tra Chiesa ed Occidente, “accusando” la prima di antioccidentalismo per alcuni rilievi critici fatti verso una globalizzazione selvaggia che non tenesse conto anche dei poveri e della salvaguardia dell’ambiente. Altro respiro, invece, presentano posizioni più attente alla dimensione etica o culturale del cattolicesimo, come quella di chi lo delinea come la forma culturale più alta di una religione universale (Perniola). Si giunge a dire, parafrasando Benedetto Croce: “perché non posso non dirmi cattolico”; ma di un cattolicesimo inteso come “una fede senza dogma” o “senza ortodossia”. Aggiungendo che, in una “età della credulità” com’è la nostra, il cattolicesimo è una forma solida di sentire e, quindi, opportunamente da custodire.


Ma quel che a mio avviso è sempre più urgente far emergere in tali dibattiti è la categoria della spiritualità o, se volete, dell’Altro, del mistero. Se per un verso, infatti, si sostiene la necessità di una morale, di un’etica dei comportamenti, e sono in tanti ad augurarselo, dall’altra se ne vede anche l’insufficienza se ci si pone di fronte alle questioni sollevate dalla nuova situazione del mondo che vertono sul senso stesso dell’uomo e dell’esistenza. Riprendendo il pensiero del noto filosofo ebreo, Habraham Heschel, potremmo dire che la crisi contemporanea non è dovuta anzitutto a conflitti economici, ma ad una paralisi spirituale. E cita Isaia: “Gli inviati di pace piangano amaramente…I patti sono rotti, i testimoni disprezzati, non c’è rispetto per l’uomo” (33,8).


E’ singolare che anche tra i laici si inizia a parlare esplicitamente di “fede laica”, di “religiosità laica” da recuperare. Norberto Bobbio, un noto filosofo laico italiano, non solo supera la vecchia controversia che opponeva la religione allo stato, ma giunge a sostenere la necessità della “religione” per la stessa democrazia: “A meno che non esista un’altra forza capace di toccare le motivazioni interiori all’azione, bisogna accettare l’idea della necessità della religione”. E coglie nella dimensione del mistero il punto di congiunzione tra fede laica e fede religiosa: “Se fede laica vuol dire fede nell’uomo, mi domando se questa non sia altrettanto soggetta al dubbio quanto quella religiosa. Allora non resta che il senso, che può anche essere angoscioso, ma è l’ultimo termine cui giunge la nostra ragione, del mistero. Non è forse questo senso del mistero che unisce profondamente e indissolubilmente gli uomini della fede laica e quelli della fede religiosa?”


Queste affermazioni fanno eco alle parole Heschel sul mistero: “Il mistero non è il risultato di un bisogno: è un fatto. L’ondata di mistero non è un pensiero della nostra mente ma una presenza potentissima al di là della mente”. “L’etica non basta più – afferma Claudio Napoleoni, un laico italiano recentemente scomparso – quando amare l’altro significa trovare in lui il segno del mistero o, se si vuole, del divino. Diversamente l’etica non è più nulla, si trasforma di volta in volta in politica o in diritto, perdendo la sua cifra caritativa”.



Il termine globalizzazione non del tutto innocente: per alcuni è sinonimo progresso, per altri il contrario. Jean Baudrillard, ad esempio, distingue tra globalizzazione e universalità, riferendo la prima alla tecnica, al mercato, al turismo, all’informazione, e la seconda ai valori, alle libertà, ai diritti degli uomini, alla democrazia. E sostiene che la globalizzazione appare irreversibile, non così invece l’universalità. Al di là di tali interpretazioni, non c’è dubbio che ci troviamo di fronte a sfide epocali. C’è quella del liberismo, e non mi soffermo a considerarla tanto è nota. C’è la sfida della biotecnologia. Jeremy Rifkin, uno studioso americano che si occupa dell’innovazione scientifica e tecnologica, termina il suo volume Il secolo biotech: “La rivoluzione della biotecnologia ci obbligherà a riconsiderare molto attentamente i nostri valori più profondi e ci costringerà a porci di nuovo seriamente la domanda fondamentale sul significato e sullo scopo dell’esistenza…Tutti gli aspetti della nostra realtà individuale e di quella parte della vita che dividiamo con gli altri saranno toccati e seriamente modificati nel secolo della biotecnologia” (p 370). Ed in effetti l’orizzonte delle sfide si allarga a quelle relative alle libertà, ai diritti dell’uomo, alla coscienza, insomma alla centralità o meno dell’uomo nella cultura contemporanea. C’è chi parla di post-umanità, di una cultura in cui l’uomo è solo oggetto della tecnica e della sperimentazione; una fase ben diversa da quella dell’umanesimo ateo, per dirla con De Lubac, ove era la centralità dell’uomo a scacciare Dio. Oggi, l’uomo a non sembra accupare più la centralità della scena.


La “modernità”, con la quale la Chiesa ha ricercato l’incontro, è cambiata: l’ottimismo scientifico, la certezza del progresso, l’idea di una generale liberazione dell’umanità attraverso le ideologie totalizzanti hanno prodotto un mondo dove i problemi non sono affatto risolti. Le grandi crisi politiche (pensiamo solo alla questione israelo-palestinese e a quella balcanica) mostrano una incredibile fragilità del mondo. Insomma, il “moderno”, il “post-cristianesimo”, non appare essere il migliore dei mondi. Se poi si guarda al passato, anche solo al Novecento, chi può dirsi senza peccato? Quale istituzione, religiosa o laica, può dirsi innocente?



Ai credenti e ai laici è chiesto un sussulto. Si potrebbe riprendere l’esortazione evangelica: “Duc in altum!”, “prendete il largo!” E’ urgente inventare nuove “vie di senso”, interrogarsi sulle prospettive della salvezza, combattendo superstizioni e idolatrie, sincretismi ingannatori e fondamentalismi devastanti, praticare la vita interiore e difendere la pace. In forma sintetica, mi permetterei di dire che i credenti debbono essere più credenti, tornando alle radici della loro fede; e i laici debbono essere più laici, recuperando dalle radici della loro cultura la forza dell’utopia e del sogno sul mondo. Questo processo di approfondimento, questo ritorno alle proprie sorgenti spirituali è indispensabile per affrontare i nuovi scenari aperti dalla “globalizzazione”.


Le Chiese conoscono bene quanto sia facile tradire il Vangelo. Giovanni Paolo II, con sapiente intuizione, ha chiesto perdono per i tradimenti avvenuti nel corso della storia. Il senso era anche quello di rimettere la Chiesa sul nastro di partenza, perché sapesse trarre dal Vangelo quella energia di misericordia e di fraternità che non è stata ancora manifestata. Questo ritornare nel profondo della propria fede, che mette in questione la propria stessa esistenza, è ciò che per il credente significa la santità, ossia essere più credenti. P.Men, un prete russo ucciso barbaramente nel ’90, affermava che pur essendo passati duemila anni siamo ancora all’abc del Vangelo.


Per i laici non so bene cosa voglia dire scendere nel profondo della loro tradizione, o anche cosa possa significare, ad esempio, chiedere perdono. Ma anche loro debbono chiedersi come essere più laici. L’amico Jean Daniel si chiedeva qualche tempo addietro: come essere santi laici? Oppure, si può essere santi senza Dio? Era lo stesso interrogativo di Camus: “Si può essere santi senza Dio?” E lo scrittore aggiungeva: “E’ il solo problema concreto che oggi io conosca”.


Davanti al nuovo millennio, davanti alla globalizzazione, il dialogo laici-credenti deve ruotare attorno ad interrogativi come questi che ho or ora accennati. Credo sia questa la via per prenderci sul serio tra noi e per evitare la banalizzazione e l’autoreferenzialità. Per ambedue è facile restare chiusi nei propri recinti, religiosi o laici. Al contrario, bisogna praticare quella che Paul Ricoeur chiamava la “ospitalità delle convinzioni”. Ne guadagneremo tutti. Se si scende al fondo delle proprie fedi, o delle proprie convinzioni, è più facile incontrarsi. Ed è qui che si coglie quell’energia che muove i santi e gli spiriti alti. Il vescovo Pietro Rossano diceva: “Riteniamo di poter affermare che la santità salverà il mondo. Perché soltanto essa è capace di muovere liberamente gli uomini a servire Dio e i fratelli”. Laici e credenti debbono avere un sussulto spirituale, e si ritroveranno di fronte alle antiche e ingenue domande di sempre: possiamo sperare di costruire un mondo senza violenza, senza miseria, senza egoismo? Ma questa volta non soli, bensì assieme e con nuova energia.


E’ la “via amoris”, la via dell’amore, della solidarietà e dell’uguaglianza. Il Vangelo richiama i credenti a globalizzare l’amore. E’ una via che non passa lontano, ad esempio, dalla difesa dei Diritti dell’uomo, che Jean Daniel ha immaginato come una sorta di religione dei non credenti. Questa frontiera, se accostata ai dieci comandamenti e al discorso della montagna, si lega non poco alla rivelazione ebraico-cristiana. Ci troveremo assieme e più forti per affrontare le sfide della globalizzazione. Cari amici, potrei dire, paradossalmente, il mondo non è in crisi perché siamo in profondo disaccordo, ma forse perché siamo debolmente d’accordo.