La tutela del diritto alla salute: impegno della Chiesa tra tradizione e innovazione

Chiesa e diritti umani

Il rapporto della Chiesa con il vocabolario e la pratica dei diritti umani è stato, dal punto di vista storico non sempre lineare. Nella grande ‘bipartizione’ dei Patti delle Nazioni Unite del 1966 si sono unite da una parte le famiglie dei diritti civili e politici e dall’altra quelle dei diritti economici, sociali e culturali. La differenza è sottolineata nell’articolo 2 dei due testi: per i diritti civili e politici, gli Stati si impegnano a garantire effettivi mezzi di ricorso in sede giudiziaria ed esecuzione di qualsiasi pronuncia di accoglimento di tali ricorsi; per i diritti economici, sociali e culturali, invece, l’impegno è semplicemente a operare con il massimo delle risorse disponibili per assicurare progressivamente la loro piena realizzazione. E’ una differenza imposta dal vincolo delle risorse, la cui importanza, per restare all’Italia, è stata riconosciuta da rilevanti sentenze della Corte Costituzionale. È anche con specifico riferimento all’assistenza sanitaria che si è fatto ricorso a formule come “diritti condizionati” o “gradualità delle riforme”, in particolare in un contesto caratterizzato da crescenti vincoli di bilancio. Tornerò più avanti su questo punto. Prima, però, vorrei leggere due articoli, uno per ciascuno dei due Patti.

Il primo comma dell’articolo 18 del Patto sui diritti civili e politici stabilisce che “ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale diritto include la libertà di avere o di adottare una religione o un credo di sua scelta, nonché la libertà di manifestare, individualmente o in comune con altri, e sia in pubblico sia in privato, la propria religione o il proprio credo nel culto e nell’osservanza dei riti, nelle pratiche e nell’insegnamento”. L’articolo 12  sui diritti economici, sociali e culturali, dedicato alla salute (precede l’articolo sull’istruzione), recita: “1) Gli Stati Parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo a godere delle migliori condizioni di salute fisica e mentale che sia in grado di conseguire. 2) Le misure che gli Stati Parti del presente Patto dovranno prendere per assicurare la piena attuazione di tale diritto comprenderanno quelle necessarie ai seguenti fini: a) la diminuzione del numero dei nati-morti e della mortalità infantile, nonché il sano sviluppo dei fanciulli; b) il miglioramento di tutti gli aspetti dell’igiene ambientale e industriale; c) la profilassi, la cura e il controllo delle malattie epidemiche, endemiche, professionali e d’altro genere; d) la creazione di condizioni che assicurino a tutti servizi medici e assistenza medica in caso di malattia.

E’ stato molto facile, per la Chiesa, schierarsi senza esitazioni per la promozione dei diritti sociali, mentre per il riconoscimento della piena libertà di pensiero, di coscienza e di religione il percorso è stato decisamente più lungo e anche accidentato. Senza andare al Sillabo, ricordiamo l’enciclica Libertas di Leone XIII, al quale si deve il merito di aver dato un impulso decisivo alla dottrina sociale della Chiesa. Leone XIII, nel 1888, affermava che “non è assolutamente lecito invocare, difendere, concedere una ibrida libertà di pensiero, di stampa, di parola, d’insegnamento o di culto, come fossero altrettanti diritti che la natura ha attribuito all’uomo”. Vi erano anche ragioni per tale affermazione, intendiamoci; ma è solo con il Decreto Dignitatis humanae, del 7 dicembre 1965 del Concilio Vaticano II, che si afferma con chiarezza il diritto alla libertà religiosa: “Il contenuto di una tale libertà è che gli esseri umani devono essere immuni dalla coercizione da parte dei singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potere umano, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa: privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata”. Questo diritto “si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana quale l’hanno fatta conoscere la parola di Dio rivelata e la stessa ragione” e “deve essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell’ordinamento giuridico della società”.

Benedetto XVI, dialogando con Habermas, riconoscerà che, così come “la ragione dev’essere ammonita sui suoi limiti ed esortata a imparare una disponibilità all’ascolto verso le grandi tradizioni religiose dell’umanità,” allo stesso modo la ragione può funzionare, “per così dire, come organo di controllo, movendo dal quale la religione deve necessariamente farsi purificare e ordinare continuamente, il che era del resto anche il pensiero dei Padri della Chiesa”. Possiamo probabilmente dire che questo è uno di quei casi.

Bibbia e cura dei malati

Appare invece quasi superfluo ricordare che l’attenzione della Chiesa nei confronti di chi è colpito dalla malattia si radica in uno dei tratti essenziali della tradizione cristiana. Sino a poter dire che la cura e la guarigione dei malati è centrale nelle Sante Scritture e particolarmente nei vangeli. Nel Siracide, per fare un solo esempio nell’Antico Testamento, si scrive: “Al povero stendi la tua mano, perché sia perfetta la tua benedizione. La tua generosità si estenda a ogni vivente e al morto non negare la tua grazia. Non evitare coloro che piangono e con gli afflitti mostrati afflitto. Non indugiare a visitare un malato, perché per questo sarai amato. In tutte le tue opere ricordati della tua fine e non cadrai mai nel peccato” (Siracide 7, 36-40). Ho citato per intero questo passo per sottolineare il collegamento con la questione della povertà e l’invito a una generosità che si estende a ogni vivente.

Un cenno più lungo lo faccio alla tradizione evangelica che lascia un notevole spazio all’azione taumaturgica di Gesù. Gli evangelisti fanno aprire il ministero pubblico di Gesù con azioni di guarigione di malati. E non è solo di un primum nell’ordine temporale. La cura dei malati è una dimensione centrale nella sua missione, parte integrante della sua opera. Gesù cura i malati nel senso più profondo: non solo li cerca e li ascolta, li guarisce. Sappiamo che i due termini, “curare” e “guarire”, pur essendo molto simili, hanno però una sfumatura diversa. Ma su quato non mi dilungo. Ma una cosa è evidente: la guarigione dalla malattia è una costante insopprimibile nella vita di Gesù. Anzi è parte di uno dei due poli nei quali viene sintetizzata la sua missione: “Gesù andava attorno per tutta la Galilea, in­segnando nelle loro sinagoghe predicando la buona novella del Regno e curando ogni sorta di malattie e di infermità.”(Mt 4,23). Ed è bella la scena descritta da Luca: “Al calar del sole, quelli che avevano infermi colpiti da mali di ogni genere li condussero a lui. Ed egli, imponendo su ciascuno le mani, li guariva” (Lc 4,40). Anche Marco la riporta: “Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era radunata davanti alla porta. Guarì molti che erano afflitti da varie malattie e scacciò molti demoni”(Mc 1, 32-34). Luca, che Paolo chiama “medico caro”(Col 4,14), è l’evangelista che dà spazio all’azione di guarigione di Gesù: più di un quarto dei primi dieci capitoli (120 versetti su 425); e, nei quattro Vangeli, su 53 miracoli riportati, ben 30 sono miracoli di guarigione.

Gesù confida il suo potere di guarigione anche ai discepoli: “Egli diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e di infermità”. E poco più avanti li esorta: “pre­dicate che il Regno di Dio è vicino, guarite gli infermi, resuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni”. Mi parrebbe evidente affermare che la missione dei discepoli debba modellarsi su quella di Gesù. Quindi: annunciare il Vangelo e guarire le malattie. In tale orizzonte, la guarigione non appare come un’azione laterale all’annuncio, è piuttosto il segno visibile che il Regno di Dio è iniziato. Per Gesù è chiaro che i discepoli debbono continuare la sua stessa opera; anzi, lui chiede che sia ancor più ampia, come dice lui stesso ai suoi: “In verità, in verità vi dico, anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi”. E poi vi è il noto passaggio di Matteo sul giudizio finale: “ero malato e mi avete visitato” (Mt, 25, 36).

Quest’ultima è diventata una delle opere di misericordia corporale. E ha ragione lòa tradizione cristiana ha esteso il dovere di “visita” a quello dell’assistenza senza limiti di coraggio, di sacrificio, di disponibilità sino a dare la propria stessa vita. La storia della Chiesa è seganta da questa “compassione senza limiti” per i malati e i deboli. Un solo esempio: nella “formula di vita” dei Camilliani, ministri degli infermi, si legge che tutti coloro che ad essa vorranno conformarsi “devono promettere, se venisse la peste (che Dio non lo voglia!), di servire gli appestati”. “Tutta la Compagnia, sia i sacerdoti sia i laici, sarà tenuta ad assistere gli appestati”.

Il rapporto tra Chiesa e malati è strettissimo, sino a spingere la tensione alla “salute”  intesa come salvezza piena. Si potrebbe anche dire che Chiesa e Medicina hanno uno scopo che in parte si sovrappone, appunto, liberare dalla malattia. Se la medicina interviene in un aspetto della vita umana, la Chiesa lo fa per la sua integralità. In ogni caso dovrebbero sovrapporsi nel non abbandonare mai il malato. Non a caso le comunità cristiane, fin dall’antichità, non hanno esitato a chiamare Gesù “medico dei cristiani” e la Chiesa “vera e propria clinica”. E’ nota l’espressione di Ireneo: “Il Signore è venuto come medico di coloro che sono malati”, peraltro ispirata dalla stessa frase di Gesù: “non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati” (Mc 2,17). E Origene insegnava: “Sappi vedere (nei Vangeli) che Gesù guarisce ogni debolezza e malattia non solo in quel tempo in cui queste guarigioni avvenivano secondo la carne, ma ancora oggi guarisce; sappi vedere che non è disceso solo tra gli uomini di allora, ma che ancora oggi discende ed è presente. Ecco, infatti, io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo”. Potremmo continuare a lungo in citazioni di questo genere, da quella della Liturgia di San Marco: “Signore…Medico delle anime e dei corpi, visitaci e guariscici”, a un’antica iscrizione cristiana: “Ti prego, Signore, vieni in mio aiuto, tu solo medico”.

Ovviamente questa serie di invocazioni non significano una squalifica dell’arte medica. E’ vero esattamente il contrario: non si comprende la storia della medicina occidentale senza la storia della Chiesa. Si tratta di venti secoli di amore per i malati da parte dei cristiani. Un amore mai interrotto, anche se non sempre è stato come il Vangelo lo avrebbe richiesto. E’ però indubitabile che la medicina occidentale nasce e si afferma sulla scia di quell’attenzione ai malati che, senza l’azione dei cristiani, non sappiamo quanto e come si sarebbe affermata. La storia occidentale rileva che la medicina è iniziata come tale in ambito monastico quando si è chiarita la distinzione tra i poveri e i malati, superando quell’indistinto iniziale relativo agli “ospizi”, costruiti accanto alle cattedrali, che accoglievano i poveri e tra essi anche i malati. Non posso dilungarmi su questo aspetto della storia che richiederebbe una trattazione a parte. 

Chiesa e salute

Faccio ora solo un velocissimo cenno al Magistero della Chiesa circa il tema della salute, solo per non lasciar vuota la casella. Mi pare opportuno però sottolineare che è nel XIX secolo che viene riconosciuta l’importanza della tutela della salute come sfida legata allo sviluppo industriale e del mercato del lavoro nelle società moderne. La questione della salute perciò viene iscritta sin dall’inizio all’interno della dottrina sociale della Chiesa. Accenno solo alla Rerum novarum, il cui obiettivo era di alzare opportunamente un argine all’avanzata dell’onda socialista e fortemente opposta alla Chiesa.  E’ vero perciò che la prospettiva di Leone XIII è ancora fortemente ancorata al ruolo delle associazioni di solidarietà e di mutuo soccorso, tuttavia non è assente quella del welfare State. Sono significativi alcuni passaggi: “La Chiesa concorre direttamente al bene dei proletari col creare e promuovere quanto può conferire a loro sollievo, e in questo tanto si è segnalata, da riscuoter l’ammirazione e gli encomi degli stessi nemici” (24).Il lavoro eccessivo o comunque “non conveniente al sesso e all’età” che “reca danno alla sanità dei lavoratori” è una delle ragioni che giustificano l’intervento, “entro i debiti confini”, della forza e dell’autorità delle leggi (29). Il carattere potenzialmente nocivo per la salute deve essere uno dei fattori presi in considerazione per stabilire i tempi di lavoro (33). L’opera delle associazioni come le “società di mutuo soccorso”, è ordinata, fra l’altro, “a porgere opportuni soccorsi ai bisognosi” “nei casi d’improvvisi infortuni, d’infermità o di altro umano accidente” (36) e si dovrà provvedere affinché all’operaio non solo non manchi mai il lavoro, ma vi siano fondi disponibili per aiutarlo “nei casi di infermità, di vecchiaia, di infortunio”.

Queste indicazioni sono state poi sviluppate, arricchite, aggiornate. È straordinario il ruolo della Chiesa e dei cristiani, in particolare nelle zone più povere del mondo, a sostegno concreto dei diritti degli ultimi, di quelli che papa Francesco ci sollecita continuamente a non considerare “scarti”, ma sempre essere umani come noi. Si tratta di una dimensione ineludibile della continuità fra la fede e le opere. Già il Cardinale Dionigi Tettamanzi, nel suo Dizionario di bioetica, alla voce “ospedale cattolico”, richiamava in questa prospettiva un documento della Conferenza nazionale dei Vescovi cattolici degli USA, dal titolo Direttive etiche e religiose per i sevizi sanitari cattolici: “Il mistero di Cristo getta una luce su ogni sfaccettatura della sanità cattolica: intendere l’amore cristiano come principio ispiratore dell’assistenza sanitaria; considerare la guarigione e la compassione come una continuazione dell’azione di Cristo […]” La Chiesa – prosegue Tettamanzi – “lungo la storia ha sempre reso un servizio al sofferente e al morente: ricoveri per i viandanti, infermerie per i malati, case per bambini, anziani, ospizi, ecc.. Alcune comunità religiose sono sorte con l’impegno specifico di servire gli infermi, sul modello della parabola evangelica del buon samaritano”. È una sintesi di quanto detto finora.

Nella Chiesa si è sviluppata una vera e propria “cultura del diritto alla salute”. La Nuova Carta degli operatori sanitari del Pontificio Consiglio per gli operatori sanitari dedica uno specifico capitolo a “Diritto alla tutela della salute e politiche sanitarie”. Ed è importante sottolineare la prospettiva esplicitamente ‘globale’ di uno sforzo orientato ai principi della solidarietà e della sussidiarietà, per garantire una giusta ed equa distribuzione delle risorse. Si tratta dell’ultimo capitolo del testo: “Il diritto fondamentale alla tutela della salute attiene al valore della giustizia” e la sfida della sua tutela anche per le popolazioni più vulnerabili è “improrogabile”.

Contesto attuale e nuove prospettive: approccio globale

In questo ultimo punto della mia relazione vorrei sottolineare la necessità di un approccio globale relativo al nostro tema, in un duplice significato. In entrambi i casi siamo aiutati in questa riflessione da Papa Francesco. Parlo della bioetica globale a cui la PAV ha dedicato la sua Assemblea Generale lo scorso anno, febbraio 2018, di cui sono usciti gli Atti proprio in questi giorni. La sfida del diritto alla salute è la sfida della disuguaglianza ai suoi diversi livelli. Papa Francesco nel suo messaggio ai partecipanti sottolineava che “trattamenti progressivamente più sofisticati e costosi sono accessibili a fasce sempre più ristrette e privilegiate di persone e di popolazioni, ponendo serie domande sulla sostenibilità dei servizi sanitari. Una tendenza per così dire sistemica all’incremento dell’ineguaglianza terapeutica. Essa è ben visibile a livello globale, soprattutto comparando i diversi continenti. Ma è presente anche all’interno dei Paesi più ricchi, dove l’accesso alle cure rischia di dipendere più dalla disponibilità economica delle persone che dalle effettive esigenze di cura” (Francesco, Messaggio al Presidente della PAV del 16 novembre 2017).

A livello globale, in particolare, è sufficiente misurarsi con i dati relativi ai primi traguardi del terzo obiettivo (assicurare la salute e il benessere per tutti e per tutte le età) dell’Agenda 2030 per intuire la portata della sfida. Dovremmo ridurre, appunto entro il 2030, il tasso di mortalità materna globale a meno di 70 per ogni 100.000 bambini nati vivi; ridurre in tutti i paesi la mortalità neonatale a non più di 12 per ogni 1.000 bambini nati vivi e la mortalità dei bambini sotto i 5 anni di età a non più di 25 per 1.000 bambini nati vivi. Le World Health Statistics del 2018 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ci dicono che per il primo dato la forbice fra i paesi del mondo va da 3 a 1.360 (aggiungendo che ci sono paesi nei quali solo un parto su cinque è assistito da personale sanitario competente), mentre per la mortalità neonatale e per quella dei bambini sotto i 5 anni i numeri della disuguaglianza si distribuiscono fra un minimo e un massimo rispettivamente di 1 e 45 e di 2 e 132.

Queste sono evidentemente disuguaglianze che generano una insopportabile iniquità. E non bisogna guardare ad esse con rassegnazione. Ci sono esperienze che hanno dimostrato e dimostrano, sul campo, che le distanze possono ridursi, che un’assistenza sanitaria di qualità è possibile anche nei paesi e per i popoli meno fortunati. Vorrei citare qui l’esempio di DREAM, il programma della Comunità di Sant’Egidio nato nel 2002 con l’obiettivo di contrastare la diffusione dell’AIDS in Africa. Alla terapia antiretrovirale, che doveva essere fin dall’inizio un “diritto” per tutti, si è aggiunto un complesso di interventi nell’ambito dell’educazione alla salute, della formazione del personale, dell’alimentazione e delle condizioni di vita. I risultati sono stati straordinari, anche se sarebbe stato necessario poter fare molto di più e raggiungere un numero molto più elevato di persone. La “salute globale” è una sfida difficile, che può (e deve) essere vinta.

C’è però anche, come sottolinea il Papa, un problema di disuguaglianze crescenti a livello nazionale. L’ISTAT ha pubblicato nel 2018 un aggiornamento del Focus del 2014 su La mortalità dei bambini ieri e oggi in Italia. Persiste – sottolinea l’ISTAT – una differenza tra il   Sud e Centro-Nord, con l’area meridionale che continua ad essere più svantaggiata in termini di mortalità nei primissimi anni di vita e la mortalità infantile dei residenti di cittadinanza straniera risulta più elevata rispetto a quella dei cittadini italiani, con una distanza che va aumentando negli anni più recenti.

C’è poi da sottolineare che la sfida della salute si vince nella prospettiva di un’etica del rispetto e della responsabilità nella quale “tutto si tiene”. Scrive Papa Francesco: “La natura non è “qualcosa di separato da noi o come una mera cornice della nostra vita. Siamo inclusi in essa, siamo parte di essa e ne siamo compenetrati […] Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale. Le direttrici per la soluzione richiedono un approccio integrale per combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della natura” (Laudato si’, 139)”.

Il diritto alla salute offre un punto di vista privilegiato sulla tesi, ripetuta più volte nella Agenda 2030, della interconnessione e indivisibilità dei 17 Obiettivi intorno alle tre dimensioni dello sviluppo sostenibile: economica, sociale, ambientale. Tutelare la salute delle persone significa lavorare per una società più giusta e, appunto, sostenibile: la povertà, l’analfabetismo, città e ambiente inquinati, sfruttamento sui luoghi di lavoro, conflitti internazionali indeboliscono il diritto ad una assistenza appropriata, calibrata sui bisogni e non sulla capacità di pagare, riducono la speranza di vita, ne umiliano la qualità. C’è molto lavoro da fare. E incontri come questo sono quanto mai opportuni per proseguire il lavoro con maggiore consapevolezza e audacia.

Intervento al convegno “Il diritto alla salute: un impegno civile ed ecclesiale per evitare il declassamento”.  Università Angelicum, 28 febbraio 2019