La Nostra Aetate: quaranta anni di dialogo interreligioso

Intervento al convegno dei delegati diocesani per l'Ecumenismo


 


Cari amici, varie circostanze rendono questo nostro convegno annuale significativo. Anzitutto l’elezione di Benedetto XVI, un Papa che ha avuto il privilegio di partecipare al Concilio, sebbene non come padre conciliare, e che per lunghi anni è stato tra i più stretti collaboratori di Giovanni Paolo II. Fin dal primo giorno del suo pontificato, ha voluto ribadire l’impegno personale per l’ecumenismo e il dialogo. Del resto alcuni anni prima, invitato alla facoltà valdese, disse: “l’ecumenismo è anzitutto un atteggiamento fondamentale, è un modo di vivere il cristianesimo. Non è un settore particolare, accanto ad altri settori. Il desiderio dell’unità, l’impegno per l’unità appartiene alla struttura dello stesso atto di fede, perché Cristo è venuto per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi”. Siamo poi a 40 anni dalla conclusione del Concilio Vaticano II che ha aperto una nuova era nella vita della Chiesa, di cui il nostro impegno ecumenico è un frutto diretto. Lo scorso anno a Bari abbiamo ricordato l’anniversario del Decreto Unitatis Redintegratio. Quest’anno invece vogliamo apriamo il convegno con una riflessione sulla Dichiarazione Nostra Aetate.


Pur essendo il documento più breve del Concilio, è tra quelli più chiaramente profetici. Ha, infatti, colto con grande anticipo una delle questioni più urgenti che si sarebbero presentate alla Chiesa cattolica e al mondo a cavallo del Millennio, ossia la frontiera del dialogo tra le grandi religioni mondiali. Qualcuno giunge ad affermare: “Non c’è pace mondiale senza pace religiosa, e non c’è pace religiosa senza dialogo”. Senza dubbio la Nostra Aetate ha avviato un nuovo orientamento nella Chiesa cattolica verso le altre religioni. La presenza del Rabbino Elio Toaff, a cui mi lega un’antica e solida amicizia, e di padre Bormanns, tra i maggiori esperti dell’Islam, arricchiscono non poco questo nostro incontro: la loro testimonianza che affonda agli anni del Concilio e a quelli immediatamente successivi ce ne farà rivivere lo spirito. Per parte mia cercherò di offrire alcuni spunti di riflessione sulla Nostra aetate rilevando soprattutto i cambiamenti che ha portato nella vita della Chiesa e sottolineando l’urgenza che le comunità cristiane continuino oggi a percorrerne le tracce che ha segnato. Lo svolgimento degli altri giorni di Convegno si articolerà all’interno dell’orizzonte più generale rappresentato dalle tre grandi religioni abramitiche.


 


La Dichiarazione

 


Con la Nostra Aetate il Concilio ha realizzato una svolta che possiamo storica nelle relazioni tra la Chiesa cattolica e le religioni non cristiane. Certo, non è avvenuta per caso. Potremmo dire che tale nuovo atteggiamento è maturato in una Chiesa che, nel Novecento, non ha cessato di praticare l’arte dell’incontro, del colloquio, del dialogo in vari i campi. Non possiamo ripercorrerne ora il lungo cammino, ma le esperienze maturate nel corso del secolo sono rifluite nel testo conciliare, divenuto la magna charta del dialogo della Chiesa con le altre religioni. È tuttavia ormai assodato che il testo finale della Dichiarazione è un frutto proprio del dibattito conciliare. Com’è noto, il primo abbozzo del testo – appena due cartelle dattiloscritte – fu redatto per rispondere all’esigenza di un rinnovato rapporto tra cristianesimo ed ebraismo. Era viva nella Chiesa cattolica la memoria della Shoah avvenuta nel cuore dell’Europa cristiana, ed era ormai anche più chiara la coscienza delle radici ebraiche del cristianesimo. Per questo, fin dalla fase preparatoria si pose attenzione a tale problema. Il 14 e 15 novembre del 1960 il cardinale Bea riunì una sottocommissione nel neonato Segretariato per l’Unità dei Cristiani per trattare appunto le Questiones de Judeis. L’intento era quello di elaborare un testo sugli ebrei che sarebbe dovuto entrare nel decreto sull’ecumenismo. Quando la notizia trapelò, e uscì anche oltre l’aula conciliare, non si fecero attendere le reazioni. Particolarmente forti furono quelle dei cristiani orientali (soprattutto da parte del patriarca melkita, Massimo IV) i quali vedevano nel testo uno sconfinamento nella delicata questione politica Mediorientale. Fu facile per loro far notare che il testo sull’ecumenismo doveva trattare solo questioni interne alle Chiese cristiane.


Tuttavia, la determinazione di Giovanni XXIII sbloccò le prime difficoltà accogliendo però le osservazioni degli oppositori. Senza voler narrare le vicende accorse al testo accenno solo al fatto che prima doveva costituire il paragrafo 4 del Decreto sull’ecumenismo, poi si ipotizzò di spostarlo nell’appendice, successivamente si parlò di inserire qualcosa nella Lumen Gentium e, infine, vista la difficoltà di una tale collocazione, si pensò anche di metterlo nella dichiarazione sulla Libertà religiosa. Man mano però procedeva la discussione appariva sempre più evidente la necessità di redigere un testo a parte, anche perché nell’aula conciliare emergevano gli interventi dell’episcopato mondiale soprattutto asiatico e africano, oltre che mediorientale. Il testo fu quindi allargato all’Islam e alle altre religioni mondiali. E fu portato a votazione il 28 ottobre del 1965 con il risultato di 2221 favorevoli, 88 contrari e 3 voti nulli.


La lunga gestazione della Dichiarazione mostra chiaramente che fu un frutto del dibattito conciliare. Il contenuto della Nostra Aetate  infatti è strettamente legato alla più ampia riflessione conciliare come si manifestava nella Lumen Gentium, nell’Unitatis redintegratio, nella Dignitatis Humanae e nella Gaudium et Spes. Tali documenti manifestavano la nuova coscienza che la Chiesa aveva di se stessa e del suo rapporto con il mondo e quindi anche con le altre religioni non cristiane. Non si deve pertanto isolare il nostro testo dal contesto conciliare. Si deve riconoscere che la Dichiarazione prese avvio dalla nuova coscienza del rapporto tra cristianesimo e ebraismo. Il fatto che sia stata proprio tale riflessione a spingere la Chiesa ad allargare l’orizzonte fino a comprendere le altre religioni ci fa pensare alla visione universalistica di Isaia che vede tutti i popoli accorrere per salire sul monte di Dio. Questo è il sogno nascosto nel cuore della Nostra Aetate.


Non possiamo ignorare il ruolo svolto dall’enciclica programmatica di Paolo VI, l’Ecclesiam Suam. Il Papa voleva porre il dialogo nel cuore stesso della Chiesa. Non si trattava di un accessorio ma di una interiore dinamica spirituale della Chiesa: “La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio”, affermava papa Montini. E chiariva che il dialogo partiva dal primato della predicazione del Vangelo, ossia che si faceva missione nella speranza che i cuori si aprissero alla fede, ma non rinunciava a parlare con tutti. Il dialogo voluto da Paolo VI era legato al comandamento dell’amore. Egli amava dire che per la Chiesa “nessuno le è nemico, che non voglia egli stesso esserlo”. Il dialogo per la pace, quello con tutto quanto c’è di umano, ma anche il colloquio con i credenti non cristiani aveva un ruolo importante nel disegno conciliare di papa Montini. La Nostra aetate non solo accolse la prospettiva dell’enciclica ma si spinse ancora oltre definendo le relazioni con le altre religioni con i termini di “rispetto sincero”, di “annuncio”, di “dialogo” (colloquium), di “testimonianza della fede e della vita cristiane” (2e.f) e di “dialogo fraterno” (fraterna colloquia) riferendosi agli Ebrei (4e). Insomma, annuncio, testimonianza, dialogo, rispetto e collaborazione, dovevano far parte delle relazioni che la Chiesa avrebbe dovuto instaurare con le religioni non cristiane.


Il fondamento di queste relazioni è radicato nella concezione teologica dell’unità della famiglia umana, ossia unità nell’origine e nella fine della storia, unità nella “riconciliazione” e nella salvezza realizzata da Gesù Cristo, unico salvatore del genere umano. Per la Nostra Aetate vi è quindi un disegno unitario di salvezza che domina l’intera storia dell’umanità e che unisce gli uomini con legami tali da spingerli a vivere insieme il loro destino: ad mutuum consortium ducunt (NA 1a). E le religioni, sostiene il testo, non sono estranee a questo progetto. Tralascio di esaminare il contenuto della Dichiarazione, e riporto la brevissima sintesi ma autorevole sintesi che ne ha fatto Benedetto XVI ricordando il 40 della Dichiarazione. Papa Benedetto ne sottolinea la “grandissima attualità, perché riguarda l’atteggiamento della Comunità ecclesiale nei confronti delle religioni non cristiane”. E ne sintetizza i tratti fondamentali: “Partendo dal principio che ‘tutti gli uomini costituiscono una sola comunità’ e che la Chiesa ‘ha il dovere di promuovere l’unità e l’amore’ tra i popoli, il Concilio ‘nulla rigetta di quanto è vero e santo’ nelle altre religioni e a tutti annuncia Cristo, ‘via, verità e vita’, in cui tutti gli uomini trovano la ‘pienezza delle vita religiosa’. Con la Dichiarazione Nostra Aetate – continua papa Benedetto – i Padri del Vaticano II hanno proposto alcune verità fondamentali: hanno ricordato con chiarezza lo speciale vincolo che lega i cristiani agli ebrei, hanno ribadito la stima verso i musulmani ed i seguaci delle altre religioni ed hanno confermato lo spirito di fraternità universale che bandisce qualsiasi discriminazione o persecuzione religiosa”.


Queste brevi ma significative affermazioni di Papa Benedetto, nel mostrare la continuità del Magistero in tale campo, sono un invito ad approfondire il cammino. Ed è importante, a mio avviso, ricordare quanto il testo afferma sin dall’inizio per poter continuare sulla strada tracciata dal Concilio. La Chiesa non si rivolge più, come in passato, solo ai singoli aderenti alle religioni non cristiane ma alle religioni nel loro complesso, riconoscendovi i segni di Dio. Al linguaggio di simpatia verso i non cristiani, si aggiunge la coscienza del valore che le religioni che raccolgono la domanda di Dio nascosta nel cuore dell’uomo. Anche qui appare il metodo giovanneo che spinge a vedere quel che unisce prima ancora di quel che divide. Scrive la Nostra aetate: “Gli uomini attendono dalle diverse religioni la risposta agli enigmi nascosti della condizione umana che, ieri come oggi, turbano profondamente il cuore umano… La Chiesa cattolica non respinge niente di ciò che è vero e santo in queste religioni… Ella esorta dunque i suoi figli affinché, con prudenza e carità, attraverso il dialogo e la collaborazione con coloro che seguono altre religioni, e sempre testimoniando la fede e la vita cristiane, riconoscano, preservino e facciano progredire i valori spirituali, morali e socio-culturali presenti in loro” (NA 1c – 2bc).


La novità del linguaggio e delle prospettive erano intimamente legate a ciò che evocava il termine “dialogo”. L’attenzione veniva portata su ciò che sono i non cristiani, su ciò che gli uomini hanno in comune, o meglio, su ciò che sono in comune e, di conseguenza, su ciò che “li spinge a vivere insieme, ad mutuum consortium” (NA 1a). È ovvio che mettendosi in tale nuovo orizzonte apparivano immediatamente insufficienti i dibattiti teologici sui non cristiani presenti nelle tesi che trattavano de salute infidelium, de possibilitate rationali cognoscendi Deum, de vera religione, nelle quali le religioni non cristiane erano studiate solo per dimostrarne la falsità. Si apriva anche un nuovo orizzonte teologico che faceva muovere i primi passi verso una nuova teologia delle religioni oltre che verso nuovi rapporti da instaurare. L’allora giovane teologo Ratzinger si cimentò nel vasto campo della teologia delle religioni, come lui steso ricorda nelle sue memorie.


 
Dopo il Vaticano II: entusiasmi e difficoltà

 


La Nostra aetate apriva comunque nuovi orizzonti alla Chiesa nei confronti delle grandi religioni. Lo stesso Jacques Maritain parlò, nel libro Le paysan de la Garonne, di un “rinnovamento essenziale”, di un “grande rovesciamento interiore” che consisteva “in un cambiamento d’atteggiamento o d’uno spostamento dei valori… che verte innanzitutto su un modo di vederli (in non-cristiani) rispetto a Dio, e di un modo di amarli molto meglio, in conformità più reale e più profonda con lo spirito del Vangelo”.[1] E padre Goetz, professore all’Università Gregoriana, scriveva: “Il Concilio ha avuto il coraggio d’emettere un giudizio positivo non solamente, come il Vaticano I, sulla capacità dell’uomo di conoscere Dio, ma sull’esperienza religiosa e sulla risposta che l’uomo gli da, nei fatti, nelle diverse società che conosciamo”.[2] Questo giudizio riempiva d’ottimismo e di fiducia. Si riscopriva, nella tradizione della Chiesa, la presenza dello spirito del dialogo, e l’attenzione si spostava sull’homo religiosus, naturalmente predisposto alla ricerca di Dio.


Ed è così che iniziarono in Asia, in Europa e negli altri continenti, gli incontri interreligiosi, nell’ambito del dialogo, della conoscenza reciproca e dell’amicizia. Significative di questo nuovo clima, furono le parole di Paolo VI pronunciate durante il suo discorso d’apertura del Sinodo del 1974 sull’evangelizzazione: “Non possiamo omettere di menzionare le religioni non-cristiane; poiché non devono più essere considerate come rivali o come ostacoli all’evangelizzazione, ma come zone di vivo e rispettoso interesse, come anche d’amicizia futura, e di già iniziata”.[3] La missione si aggiornava rapidamente e si spogliava di quelle forme di conquista, di pessimismo antropologico e di monoculturalismo che si erano manifestate fino ad allora. Scomparve la terminologia che designava i non-cristiani come “pagani”, “idolatri”, “infedeli”; si riconsiderò, nei giusti limiti, l’assioma “Extra Ecclesiam nulla salus” e, ad ogni livello, si rivide la natura e il metodo della missione. Apparve chiaramente che dopo il Vaticano II non si poteva più concepire la missione evangelizzatrice della Chiesa senza il dialogo con tutti e particolarmente con le religioni non cristiane.


L’influsso della Nostra aetate iniziò a farsi sentire immediatamente nella vita della Chiesa. Ricordo alcuni gesti che manifestano il nuovo orizzonte della Chiesa. Nella liturgia, ad esempio, dopo la trasformazione introdotta da Giovanni XXIII nella grande preghiera del Venerdì Santo sugli Ebrei, si inserì una preghiera esplicita “per i non-cristiani”, distinta da quella per i non-credenti, nella quale si chiede per loro di “camminare in presenza di Dio in sincerità di cuore, perché possano conoscere la verità” e per i cristiani di crescere “nell’amore fraterno e nella comprensione del mistero della vita di Dio, per essere nel mondo testimoni più perfetti del suo amore”. E persino nel nuovo Codice di Diritto Canonico entra la nuova visione. Si invitano i vescovi e i parroci a “considerare i non-battezzati come affidati loro da Dio perché, anche in loro, si manifesti la carità di Cristo” (can. 383,4; 528,1). E il canone 364,1 menziona, tra le incombenze dei Nunzi, quella di “sviluppare relazioni opportune (opportuna commercia) tra la Chiesa cattolica e la altre Chiese o comunità ecclesiali, e anche con le religioni non-cristiane”. Si raccomanda inoltre di formare i candidati al sacerdozio “al dialogo (commercium) con persone anche non-cattoliche e non-credenti” (can. 256,1). E il canone 787,1 sprona i missionari a instaurare “un dialogo sincero (dialogum sincerum) con coloro che non credono in Cristo affinché, con un modo adattato al genio e alla cultura di costoro, siano loro aperte delle vie che possano condurli a conoscere il messaggio evangelico”.


Il dialogo è dunque raccomandato non come una tattica ma come un modo per aprire la via ad una autentica conoscenza del cristianesimo oltre che a conoscere meglio le altre religioni. La stessa teologia, debole in questo campo durante il dibattito conciliare, apriva i suoi orizzonti affrontando il tema di Dio confrontandolo con l’incomunicabile trascendenza divina dell’Islam, con l’immanenza cosmica della tradizione induista o con il rigoroso apofatismo del Budda. E allo stesso modo venivano affrontati in maniera nuova i temi della salvezza, dei sacramenti e della vita futura. Gli stessi studi biblici misero maggiormente in luce i processi dell’inculturazione successiva della fede monoteista nella storia e la presenza di “un’economia sapienziale” offerta a tutti gli uomini aldilà del berit patriarcale e mosaico, limitato al popolo ebraico. Nuovi stimoli e nuove comprensioni sono avvenute nella pratica della vita spirituale e anche nelle forme di preghiera e di meditazione. L’istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede circa l’uso di “metodi orientali” non intese condannarli “a priori”: “si può, al contrario, prendere in prestito da essi ciò che ci è utile, a condizione di non perdere mai di vista la concezione cristiana della preghiera, la sua logica, le sue esigenze” (n° 16). Infine, grazie ad un “nuovo sguardo” sulle religioni non-cristiane, è nato il settore della teologia delle religioni, una riflessione necessaria che dovrà svilupparsi negli anni a venire per pensare la fede e testimoniarla in una società pluralista e multireligiosa.


Questo progresso non avvenne però senza ferite. E non sono mancate deviazioni, talora preoccupanti. Alcuni, ad esempio, contrapponevano l’atteggiamento postconciliare a quello detto preconciliare, come se si trattasse di un dualismo manicheo e non invece d’una crescita organica. Altri proclamavano la fine dell’epoca missionaria, soppiantata da quella del dialogo, come se la Chiesa non fosse più depositaria d’un annuncio da portare a tutti gli uomini. Per alcuni, poi, la fine della missione era segnata dalla scoperta dei valori religiosi dei non-cristiani, come se questi non fossero “in relazione” con il Vangelo. Altri ancora dicevano che l’opera missionaria doveva confermare i credenti nelle loro rispettive fede: i buddisti dovevano essere migliori buddisti, i mussulmani migliori mussulmani, e così via. Tali esagerazioni suscitarono non poche reazioni contrarie, con la conseguenza d’imputare al Concilio e in particolare alla Nostra Aetate, le intemperanze di un piccolo numero di persone inesperte o irresponsabili. Insomma, il dialogo venne sospettato di indebolire la missione della Chiesa. Bisogna aggiungere che una ristretta concezione del dialogo da parte della cultura laica, che lo faceva intendere come un esercizio fine a se stesso, ricadeva negativamente sul nuovo atteggiamento avviato dalla Chiesa.


Era però evidente che nella Chiesa il dialogo non poteva essere ricondotto ad uno sterile esercizio socratico. Si trattava invece di un dialogo sui generis, che Paolo VI e il Concilio avevano inseparabilmente legato alla missione evangelizzatrice della Chiesa. E ciò obbligava i teologi e gli uomini di Chiesa a ritornare sul concetto di dialogo, per valorizzarne il contenuto nell’ambito della Chiesa e situarlo nelle prospettive dell’evangelizzazione. Tutto ciò raffreddò le facili euforie e portò a comportamenti più realisti e responsabili. Ed in effetti negli anni ’60 e ’70 si precisarono alcune linee guida per il dialogo della Chiesa con le religioni non-cristiane sia attraverso una visione più chiara della missione evangelizzatrice della Chiesa sia con una visione più profonda della teologia delle religioni. È in questo contesto che va compresa la stessa Dominus Jesus che tanto dibattito ha suscitato.


Una cosa comunque vorrei sottolineare. Il cammino del dialogo è stato aperto, percorso e guidato dai Papi. Penso a Giovanni XXIII il quale, ad una Delegazione di Ebrei recatasi in visita da lui il 17 ottobre 1960, li accolse dicendo: “Sono Giuseppe, vostro fratello”. Nel gennaio 1964, Paolo VI si recò a Gerusalemme e a Betlemme portando il suo personale saluto sia agli Ebrei che ai Mussulmani. Nel dicembre dello stesso anno, a Bombay, dichiarò ad un folto pubblico di rappresentanti delle religioni dell’India: “Non dobbiamo incontrarci solamente come turisti, ma come pellegrini che si mettono in cammino alla ricerca di Dio, non solo negli edifici di pietra ma nel cuore degli uomini”. “Lo scopo del Dialogo, amava dire Paolo VI, è di manifestare agli uomini l’amore di Cristo”. In questo senso, Paolo VI e Giovanni Paolo II hanno fatto gesti significativi che manifestavano innanzitutto il loro desiderio di riconciliazione e di solidarietà tra gli uomini di religioni differenti. Paolo VI fece restituire al governo turco, in segno di pace con l’Islam, lo stendardo della flotta mussulmana sconfitta dai cristiani durante la battaglia di Lepanto, e ha iniziato a ricevere  ufficialmente, e in tutta cordialità, i capi e i rappresentanti delle religioni non-cristiane. Presso di lui, si presentarono di volta in volta il Dalai Lama, i Patriarchi buddisti della Tailandia e del Laos, i responsabili delle organizzazioni religiose del Giappone, personalità religiose del Sikkismo, del Giaianismo e del Taoismo, senza dimenticare i rappresentanti delle Organizzazioni mussulmane ed ebree.


Giovanni Paolo II ha confermato il cammino del dialogo con il suo particolare carisma. Fin dalla sua prima enciclica Redemptor Hominis e dal suo primo pellegrinaggio a Yasna Gora, l’incontro con le religioni non-cristiane appare come una delle priorità del suo ministero universale. E poi il discorso ai giovani Mussulmani a Casablanca (19 agosto 1985), la visita alla Sinagoga di Roma (13 aprile 1986) e soprattutto la Giornata di Assisi (26 ottobre 1986), che ha colpito il mondo dei cristiani e dei non-cristiani e ha introdotto il dialogo interreligioso nella coscienza e nella missione dell’umanità, come risposta al disegno d’unità che Dio ha sulla famiglia umana. E sono particolarmente commosso nel ricordare questo evento avendo avuto modo più volte di parlarne con lo stesso Giovanni Paolo II che volle, attraverso l’iniziativa della Comunità di Sant’Egidio, che fosse continuato in ogni modo.


 


La risposta delle altre religioni

 


Ci si potrebbe domandare, ora, quale sia stata la risposta delle religioni non cristiane al dialogo proposto dalla Chiesa cattolica. Ovviamente ci vorrebbe una relazione apposita per mostrare la ricchezza delle realizzazioni che ne sono seguite. C’è gioia e sorpresa tra i credenti non cristiani, ma anche sfiducia ed incredulità, e tra questi due estremi innumerevoli posizioni intermedie che oscillano tra il “si” e il “ma”. “Dal giorno in cui la chiesa ha iniziato a parlare bene dell’Induismo, da parte loro gli induisti hanno iniziato a parlare bene dei cristiani” mi diceva un vescovo indiano qualche settimana fa. Sì, c’è anche da dire che talora alcuni, soprattutto nell’ambiente musulmano, hanno pensato che la Chiesa intendesse rinunciare alla diffusione del Vangelo e non ha nascosto la delusione constatando ben presto che non era questo il caso!


Si deve comunque riconoscere che è stato il mondo ebraico a rispondere in maniera più ampia e incisiva: non mancano certo problemi ma non c’è dubbio che le amicizie nate, le relazioni intessute, e gli incontri realizzati manifestano una nuova e irreversibile stagione di “fraternità” tra cristiani ed ebrei. Una piccola ma significativa realizzazione è la giornata di riflessione ebraico-cristiana che la Chiesa italiana ha voluto celebrare congiuntamente con l’ebraismo italiano il 17 gennaio di ogni anno. Sono altresì numerosi gli incontri con i musulmani soprattutto in Italia che senza dubbio vanno intensificati. Non ci nascondiamo le difficoltà che si rilevano in varie parti del mondo e anche in Italia, ma ci sono anche musulmani con i quali si intesse un dialogo fecondo. Vi è poi la costellazione delle religioni – Giapponese, Scintoismo, Buddismo e Nuove Religioni – le quali hanno accolto l’invito al dialogo con soddisfazione. Si può affermare che ogni tradizione religiosa ha reagito secondo le sue premesse. L’Induismo, nelle sue componenti classiche, ha interpretato il dialogo nel senso che gli è più congenito, da intendersi come una “armonia delle religioni” , giudicando così di non avere nulla da aggiungere alle sue posizioni tradizionali.


Ma al di là di queste risposte, tutte soggette ai loro diversi condizionamenti, non si può negare che una nuova sensibilità sia nata nell’universo delle religioni a seguito della Nostra aetate e del suo invito “a promuovere insieme, per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori morali la pace e la libertà” (NA 3b). A diversi gradi e in diverse forme le religioni hanno reagito positivamente agli appelli per collaborare insieme alla promozione dell’uomo e per alleviare la sofferenza dei poveri e dei piccoli. Certo, non si sono registrati risultati spettacolari, ma chiunque abbia avuto contatti con le Chiese e le comunità Cristiane d’Africa e d’Asia sa che ciascuna di esse ha piccole e grandi realizzazioni che tuttavia spingono il pianeta a edificarsi in maniera più umana.


Purtroppo esistono ancora zone e focolai di tensione tra Sikhs e Indù, tra Sciiti e Bahaiti, tra Musulmani e Indù, tra Musulmani e Buddisti, tra Indù e Cristiani tra Musulmani e Cristiani, tra Ebrei e Musulmani, ma nessuno ignora che le cause del conflitto non sono generalmente religiose. Se da una parte vediamo che gli uomini di religione talora si lasciano manipolare da forze oscure, dall’altra vediamo segnali positivi: in quasi tutti gli stati caratterizzati dal pluralismo religioso si sono costituiti Consigli nazionali dei Rappresentanti delle Religioni. I cristiani ed in particolare i cattolici sono stati incoraggiati dalla Nostra aetate a partecipare attivamente alla costituzione di questi gruppi, quando non ne sono stati essi stessi i promotori: l’obiettivo è incoraggiare il dialogo e favorire una armoniosa coesistenza tra i diversi gruppi religiosi di una stessa nazione. Non meno significativa è stata la creazione in numerosi paesi d’Europa, America e Asia, di una organizzazione interreligiosa che ha come scopo la conoscenza, il dialogo e la collaborazione tra le diverse credenze religiose.


 


Lo Spirito di Assisi

 


Giovanni Paolo II con la convocazione dell’incontro di preghiera a Assisi nel 1986 diede la realizzazione plastica alla Nostra Aetate. Il Papa, anticipando ancora una volta i tempi, comprese il ruolo che le religioni avevano nel determinare un clima di pace oppure nell’incoraggiare i conflitti. C’era in lui la viva percezione del ruolo che le religioni cominciavano ad avere nello spazio pubblico, nella determinazione delle identità e nei conflitti. Giovanni Paolo II volle riprendere l’iniziativa della Chiesa cattolica nel campo della pace, in un periodo in cui questo settore era in buona parte monopolizzata dai paesi dell’Est e dalle sinistre. E’ interessante notare come, nei successivi appuntamenti che si richiamavano allo spirito di Assisi e nella convocazione da lui voluta nel 2002 nella città umbra, abbia ribadito sempre il suo interesse a questo tipo di dialogo.


Lo scenario del mondo di questo inizio di millennio si presenta molto diverso da quello in cui il Concilio aveva inaugurato la via del dialogo. Allora (e negli anni successivi) era prevalente l’idea – specie nel campo delle scienze umane – che le religioni fossero destinate al declino con l’affermazione universalizzata della secolarizzazione. Questa veniva considerata un processo di portata universale che avrebbe investito tutti i mondi, anche extraeuropei. Non solo ma pure nel mondo cristiano il destino della secolarizzazione era stato accettato in taluni settori come ineluttabile e introiettato con il senso dell’inevitabile eclissi del cristianesimo. Oggi si vede bene come le religioni abbiano assunto un ruolo pubblico e mostrino una diversa resistenza all’erosione della secolarizzazione. La globalizzazione ha introdotto una ridefinizione di tutte le identità (nazionali, etniche, religiose, locali), che richiedono un nuovo ruolo alla religione stessa. Il grande problema è – si pensi al dibattito sul fondamentalismo – in che direzione si spendono le religioni.


Il mondo contemporaneo si presenta tutt’altro che omogeneo dal punto di vista religioso. La convivenza tra comunità religiose diverse è problematica in tante parti del mondo. Non sempre è facile. La convivenza pone nuovi problemi alle comunità religiose stesse. La vita quotidiana, gli uni a fianco degli altri, pone nuove questioni sul senso dell’alterità e sulla gestione dei  rapporti concreti con gli altri. In alcune parti del mondo la situazione di tensione sembra confermare la realtà di uno scontro di religione e di civiltà. Ci si potrebbe chiedere: di fronte a queste tensioni il dialogo non è una terribile ingenuità?


Cari amici, il Vaticano II, con l’affermazione del valore del dialogo interreligioso e con quella della libertà religiosa, ha indicato la via scelta dalla Chiesa cattolica. Questa via non è condivisa da tutte le esperienze cristiane del nostro tempo, specie quelle neoprotestanti: è un fatto che non si deve dimenticare. Il cattolicesimo, con la sua diffusione mondiale, con la sua impronta missionaria è forse l’unica Chiesa che sa e può risponde alla sfida della globalizzazione. Per la Chiesa cattolica l’impegno per la libertà religiosa di tutti è un’acquisizione di grande rilievo che si accompagna con la pratica del dialogo (seppure a vari livelli: dalla cortesia del vicinato alla discussione tra intellettuali o all’incontro tra le autorità religiose). Le limpide pagine della Dichiarazione esortano i cristiani a rendere testimonianza della loro fede, ma anche a riconoscere e far progredire “per mezzo del dialogo e la collaborazione con i seguaci delle altre religioni” quei valori spirituali morali e socio-culturali presenti nelle religioni non cristiane. Il dialogo e la collaborazione con le religioni non cristiane non sono tanto una moda di una stagione liberal, ma corrispondono a quell’intima vocazione della Chiesa di lavorare, per tante strade, all’unità del genere umano.


Giovanni Paolo II, il primo papa entrato in una sinagoga e in una moschea, ha sempre cercato il colloquio con le religioni non cristiane. Nel suo libro-intervista interpreta le parole della Nostra Aetate come il riconoscimento dei semina Verbi presenti nelle religioni: “possiamo affermare –scrive- che, qui, la posizione del Concilio è ispirata da una sollecitudine veramente universale. La Chiesa si lascia guidare dalla fede che Dio Creatore vuole salvare tutti in Gesù Cristo, unico mediatore tra Dio e gli uomini…”. E conclude: “invece di meravigliarci che la Provvidenza permetta una tanto grande varietà di religioni, ci si dovrebbe piuttosto stupire dei numerosi elementi comuni che in essa si riscontrano”. E’ in questa prospettiva che Giovanni Paolo II ha costantemente incoraggiato la crescita dello spirito di Assisi, non come un impulso al relativismo, ma come la comprensione approfondita del legame tra religiosità, dialogo e pace.


La Chiesa cattolica, da almeno quarant’anni, proprio per il suo radicamento internazionale nel cuore di tante culture, ha intuito che il mondo delle religioni è un grande problema del futuro a cui porre attenzione. Lo ha fatto mentre i riflettori della pubblica attenzione erano puntati sul conflitto tra Occidente e comunismo (e le religioni sembravano quantité négligeabile). Il cardinale Ratzingher ha scritto: “chi è cristiano ritiene che la storia delle religioni sia una storia reale, una strada la cui direzione significa progresso, e il cui cammino significa speranza. Costui deve svolgere il suo servizio come uno che spera, che imperturbabilmente sa che il fine della storia, pur attraverso tutti i fallimenti e le contese degli uomini, si compie…”.


Lo Spirito di Assisi significa stare con speranza nel mondo delle religioni, radicati nella propria identità ma aperti ad un’attenzione universale. Non c’è dialogo senza una profonda identità. E la comunicazione della fede agli altri, la missione, risponde alla logica profonda dell’identità cristiana. L’equazione (“più dialogo, meno missione”) ha una rozzezza che poco corrisponde alla dinamica spirituale della vita cristiana. “Non è rinunciando alla verità – scrive il cardinale Ratzinger – che l’incontro delle religioni sarà possibile, ma impegnandosi più profondamente in essa. Lo scetticismo non riunisce, non più del semplice pragmatismo”.


Cari amici, il dialogo tra le religioni avviene in un momento complesso e difficile per il mondo. Ma proprio per questo è ancor più urgente cogliere il cuore del messaggio della Nostra Aetate che pulsa nel profondo della storia umana. Giovanni Paolo, con grande sapienza religiosa, non cessava di ricordare che “le religioni mantengono viva la consapevolezza della comune appartenenza alla grande famiglia umana… Esse – continuava papa Woitjla – debbono ricordare agli uomini di ogni popolo che, seppure diversi tra loro, sono tutti fratelli. L’energia di pace e la concordia che può scaturire dalle religioni è un tesoro prezioso, che non va nascosto né accantonato. Povere di mezzi umani, le religioni sono ricche di quell’aspirazione alla comunione tra i popoli che trova radice, appunto, nel rapporto sincero con Dio. Ricordando agli uomini e alle donne di questo mondo il loro trascendente destino, esse possono educare gli uomini a camminare insieme senza guerre né contrapposizioni”.



[1] Maritain, Le paysan de la Garonne, Desclée de B, Paris 1966

[2] Goetz, La Chiesa e le religioni, Studia Missionaria, P.U.G. Roma 1966, p. 51

[3] Osservatore Romano, 29 settembre 1974