Cristo, oggi

Intervento alc onvegno della fondazione Corriere della Sera, Milano


Se si scorrono i tre grossi volumi del noto biblista cattolico nordamericano John Meier sulla figura storica di Gesù di Nazaret si resta sorpresi dalle sue conclusioni. L’autore, dopo una lunga e rigorosa ricerca storica condotta prescindendo da ciò che la fede cristiana afferma su Gesù, ne sintetizza le conclusioni con un sorprendente titolo: “Un ebreo marginale”. Lo studioso, con questo titolo riassuntivo, vuole sottolineare la marginalità di Gesù nel suo tempo. Una marginalità che non è dovuta solo alle autorità religiose e politiche, ma a Gesù che ha scelto, in certo modo, lui stesso di essere marginale: a trenta anni infatti lasciò casa e lavoro e si mise a fare il predicatore itinerante insegnando dottrine non condivise; e a causa di tali insegnamenti fu ucciso come un criminale sull’infamante patibolo della croce. In ogni caso, nella letteratura giudaica e pagana del primo secolo, la sua vicenda risulta come un puntino sullo schermo del radar. Gesù, insomma, era un marginale in tutti i sensi. Potremmo dire che, se fosse esistita a quel tempo, l’emittente al Jazeera non ne avrebbe parlato, e tanto meno lo avrebbe fatto la CNN.


Comunque nessun critico serio oggi dubita dell’esistenza di Gesù, anche se non pochi si chiedono cosa sia possibile conoscere del Gesù storico. È un dibattito che ha segnato non poco la letteratura teologica del secolo scorso. In ogni caso, ridotti all’essenziale, i dati storici accettati dalla critica ci dicono che Gesù era un ebreo, nato in terra di Israele sotto il regno di Erode il Grande, probabilmente 5 o 6 anni prima della nostra era, ossia prima di Cristo (l’errore è dovuto a un calcolo sbagliato di Dionigi il Piccolo che regolò nel VI secolo il calendario che ancora oggi seguiamo). E’ certo poi che Gesù fu un predicatore con un seguito di discepoli. Morì giovane, probabilmente il venerdì 7 aprile dell’anno 30, crocifisso a Gerusalemme, mentre era governatore Ponzio Pilato, ed imperatore di Roma, Tiberio.


Queste scarne notizie, ovviamente, non rendono ragione del posto che Gesù occupa nella storia e nella cultura del nostro pianeta. Certamente oggi Gesù non è un marginale: più di un miliardo di persone si dicono suoi seguaci, tanto da chiamarsi “cristiani”; resta altresì l’ebreo più conosciuto della storia, e sono sempre più frequenti gli studiosi ebrei che prendono in attento esame la sua figura sottolineandone il legame con l’ebraismo; alcuni di loro, i cosiddetti “ebrei messianici” lo ritengono il Messia; è uno dei più grandi profeti dell’Islam, assieme ad Abramo, Mosè e Maometto; da gruppi di induisti è venerato come un Salvatore; numerosi uomini sapienti lo ritengono un maestro a cui ispirarsi; molti umanisti lo considerano uno dei più alti esempi di moralità, e così oltre. È indubbiamente molto più noto di allora. Ma non cessa di far discutere. Le risposte sono state e continuano ad essere le più varie.


In realtà, il vero scandalo – radice di ogni discussione su di lui – sta nella sua pretesa di essere vero uomo e vero Dio. Tale pretesa è divenuto il credo, il cuore stesso, del cristianesimo. È senza dubbio una pretesa, paradossale. Gli ebrei vi vedevano una scandalosa violazione del monoteismo che costituiva il centro della loro fede; mentre i greci, pur non avendo particolari problemi circa la discesa sulla terra di un essere divino, non potevano accettarne l’identificazione in un vero uomo per di più crocifisso. Eppure è questo che i cristiani credono e che Paolo ha mirabilmente cantato nella lettera ai cristiani della comunità di Filippi: “Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome”(2, 5-11).


Lungo i secoli questo paradossale mistero è stato difeso strenuamente contro coloro che volevano negarlo, attutirlo, distorcerlo, piegarlo. Ci sono state lotte e lacerazioni durissime. Le grandi divisioni della cristianità sono tutte dovute alla polemica attorno alla natura divino-umana di Cristo. La prima divisione avvenne nel IV secolo che divise i cristiani dell’impero da quelli fuori l’impero sulla questione delle due nature di Cristo. E la seconda avvenne all’inizio del secondo millennio sul filioque, ossia sulla interpretazione del rapporto del Figlio all’interno della Trinità. Per dirla in maniera sintetica, il pendolo oscillava pericolosamente da una parte o dall’altra alla ricerca di una spiegazione plausibile a questo mistero della divinio-umanità di Cristo. Non possiamo ripercorrerne la storia. Ne faccio solo un cenno per suggerire la focosità del dibattito. Due grandi città del mediterraneo, Alessandria d’Egitto e Antiochia di Siria, furono i poli principali della polemica. Ad Alessandria si tendeva ad enfatizzare l’aspetto divino di Cristo, mentre ad Antiochia quello umano. Nel frattempo apparivano altre interpretazioni, dallo gnosticismo che rappresentava attenuava il carattere divino di Cristo sino a negarne l’umano, all’arianesimo che riteneva Gesù una essere intermedio tra Dio e l’uomo.


Quel che si può affermare, in ogni caso, è che la questione cristologia ha da sempre attraversato i secoli e, in certo modo, si ripresenta anche oggi. Tenere saldo il filo rosso del mistero di Cristo, vero uomo e vero Dio, è il grande e affascinante compito della Chiesa, anche di quella odierna. Tanto spesso, purtroppo, i nostri dibattiti si perdono in viottoli periferici e smarriamo il cuore della ricerca del volto di Dio che la questione cristologia racchiude. Credo che ai cristiani di oggi sia chiesto di ridire la fede di sempre, di riproporre il mistero di Cristo, ma con un linguaggio che riesca a toccare il cuore dell’uomo di questo inizio di millennio. Sono passati più di duemila anni dalla nascita di Gesù di Gesù di Nazareth e si ripropone la stessa domanda di allora. La pose lui stesso ai discepoli: “Chi dite voi che io sia?”. Sì, cari amici: chi è Gesù? E per chi crede: come dirlo a se stesso e all’uomo che gli sta accanto?


Gesù è vero uomo

Il punto di partenza lo vedrei in quella drammatica scena del pretorio di Gerusalemme, quando Pilato presentò alla folla quell’uomo giusto, sfigurato dalla flagellazione e con una corona di spine sulla testa e un manto regale rosso sulle spalle per burla. IL Governatore gridò alla folla: Ecce homo! (Ecco l’uomo!). Non sapeva che con quelle parole affermava una verità profonda: Gesù era l’uomo, era vero uomo. Giovanni lo scriverà alcune decine di anni dopo nel prologo del suo Vangelo: “La Parola di Dio si è fatta carne, ha abitato tra di noi e noi abbiamo visto la sua gloria.” Può accadere, anche oggi, che i cristiani dimentichino l’umanità di Gesù rischiando così  di cadere in una sorta di nuovo monofisismo che li porta a Dio senza passare per l’uomo. È la ricerca del divino nelle sembianze del miracolistico, dell’esoterico, del meraviglioso. Ma se si guardano i Vangeli, Gesù non si è mai manifestato come un superuomo venuto con potenza. Talora noi gli applichiamo tratti divini che lui non ha mai avuti nemmeno dopo la resurrezione. La stessa entrata di Gesù in Gerusalemme, ritenuta in genere maestosa, non ha avuto nessun tratto di gloria. Anzi, i Padri della Chiesa sottolineano che è entrato su un asinello e non su un cavallo bianco come facevano i potenti di allora. Quello di Gerusalemme è stato un corteo di affezionati che peraltro si è spento subito nel grido unanime della folla: crucifige! E nella narrazione del Vangelo di Luca quasi non si capisce se sia entrato o no in Gerusalemme, visto che l’evangelista nota che Gesù appena è entrato si è messo subito a piangere sulla città. Solo una volta ha mostrato tratti che andavano al di là dell’essere umano: nella trasfigurazione sul Tabor. Solo tre persone però vi hanno assistito. Il Gesù che tutti normalmente vedevano era semplicemente un uomo: lo hanno visto stanco, sudato, affamato e assetato, ed è morto tragicamente gridando a Dio: “Perché mi hai abbandonato?” E nelle narrazioni dopo la risurrezione non è che appaiano cose straordinarie. Quando si rappresenta nelle chiese la resurrezione in genere si delinea un Cristo glorioso, giovane, saettante nel cielo, vittorioso. In verità nessuno l’ha mai visto così. I Vangeli ci dicono che la Maddalena ha visto un ortolano, i discepoli un pescatore lungo il lago, i due di Emmaus un viandante più o meno sporco di terra e di sudore. Tutti hanno fatto fatica a riconoscerlo. Che cosa è avvenuto allora nella storia di quest’uomo? Direi, l’eccesso dell’amore.


Alcuni uomini e alcune donne sono diventati suoi discepoli e, stando con lui, vivendo con lui, hanno visto in quel che diceva e in quel che faceva i segni di Dio. Non l’hanno compreso subito, ma via via dicevano di lui: “E’ un profeta, è un maestro!” Non capirono neppure la sua morte in croce. Prima la ostacolarono e poi la fuggirono. Il cambiamento radicale avvenne il primo giorno dopo quel sabato di aprile, quando lo videro tornare in mezzo a loro. I racconti pasquali non descrivono l’evento della risurrezione ma l’esperienza dell’incontro che quei discepoli ebbero con Gesù risorto. Quello stesso Gesù con il quale erano stati per tre anni, e che avevano visto morire sulla croce, ora stava di nuovo con loro: aveva vinto la morte. Era davvero il Cristo, il Messia che, risorgendo dai morti aveva vinto il male, la sofferenza e la morte. L’esperienza della risurrezione rappresenta il momento di svolta nella vita di quel piccolo gruppo di discepoli spaventati per la terribile e infamante morte del loro maestro. La risurrezione li trasforma in una comunità che proclama il trionfo sul male e sulla morte. Gesù era divenuto Cristo. È dal momento della risurrezione che prende avvio la fede in Gesù uomo e Dio. Fu allora, non prima, nonostante i miracoli, che i discepoli iniziarono a comprendere il mistero di Cristo. E sulla loro esperienza si fonda la Chiesa che viene per questo chiamata anche apostolica.


Sulla fede pasquale degli apostoli, trasmessa di generazione in generazione sino ad oggi, si fonda la comunità cristiana. In quell’uomo Gesù Dio si è rivelato e ha vinto definitivamente la morte. È questa la via che abbiamo per incontrare Dio: attraverso l’umanità di Gesù giungiamo a conoscere il Verbo “che era fin da principio”, come scrive il Prologo di Giovanni. La via per giungere a Dio passa per l’umanità di Gesù. Qui si gioca la Verità del cristianesimo rispetto alle altre religioni. Il cristianesimo infatti è una fede, prima che una religione. È l’adesione totale della propria vita a Gesù di Nazareth e non l’adesione a un pacchetto di verità, ad una ideologia. C’è una differenza tra fede e religione. La fede è l’adesione totale a una persona, in questo caso a Cristo, mentre la religione è una costruzione di riti, di regole, di credenze. Un filosofo francese contemporaneo, non credente ma attento al cristianesimo, ha espresso questo concetto con una definizione sintetica: il cristianesimo è la “réligion de la sortie de la réligion” per essere soprattutto una fede, ossia un’adesione ad una persona che riconosciamo nostro salvatore. Non si tratta dunque di deificare Gesù o di apprendere che Gesù è Dio e poi scoprirne i tratti umani. Il cammino del cristiano è inverso: Gesù di Nazareth è la buona notizia che ci manifesta Dio.


Se ci confrontiamo con l’islam scopriamo la differenza con la nostra fede cristiana. L’islam, che pur venera Gesù chiamandolo “Messia, messaggero di Dio e profeta”, ritiene che non è morto in croce, che all’ultimo momento sia stato sostituito da qualcun altro che gli somigliava, il Cireneo o un’altra persona; certamente non lui. Il Messia infatti non può morire sulla croce. La fede cristiana invece afferma che Gesù è morto davvero, dopo una vita spesa da uomo a favore degli altri uomini. È morto ignominiosamente, ma ingiustamente. Ed è morto continuando ad amare ed accettando di essere amato. All’alba di Pasqua i tratti dell’amore – l’unica realtà che la Bibbia afferma essere più forte della morte – hanno permesso di vedere che lui era vivente, risorto. La vita terrena di Gesù è stata tutt’intera una manifestazione di Dio che ha avuto il suo culime nella morte e nella risurrezione. Quando diceva ai discepoli: “Chi ha visto me ha visto il Padre”, parlava del suo volto umano. Ebbene, quel volto era la massima trasparenza di Dio. Gesù di Nazareth ha narrato Dio al mondo attraverso la sua umanità.


Certo possiamo chiederci anche noi, come hanno fatto da sempre i cristiani, perché Dio si è fatto uomo? Nel III secolo, quando ormai il cristianesimo era ormai consapevole della propria specificità, Ippolito di Roma si esprimeva così: “Noi sappiamo che il Verbo si è fatto uomo della nostra stessa pasta, uomo come noi siamo uomini perché se non fosse così, invano ci avrebbe domandato di imitarlo”. Se quest’uomo Gesù fosse stato di un’altra sostanza, come avrebbe potuto chiedere a noi, deboli per natura, di comportarci nella vita come lui si è comportato?” E’ un testo molto chiaro della fede cristiana: Dio, che nessuno può vedere, si è manifestato in Gesù. A partire di qui possiamo dire che il cristianesimo è un monoteismo, ma non è lo stesso monoteismo dell’ebraismo o dell’islam; ed è qui che qualunque espressione cristiana, per l’ebraismo e per l’islam, risuona come bestemmia qualora si comprenda la portata dell’affermazione che sigilla il prologo del quarto Vangelo: “Dio nessuno l’ha mai visto” e, secondo tutta la Scrittura, nessuno mai lo vedrà se non nell’abbraccio della morte. Eppure il quarto Vangelo dice che il Figlio unigenito del Padre ce ne ha fatto il racconto, exeghèsato, ossia “ce ne ha fatto l’esegesi”, il commento.


Gesù è vero Dio


Cristo, vero uomo, è anche vero Dio. Normalmente noi cristiani parliamo di incarnazione. Ma forse potremmo dire meglio umanizzazione, ossia Dio diventa uomo. L’Antico Testamento è scandito da un adagio: “Chi vede Dio muore.” Era un modo per esprimere la santità di Dio, la sua totale alterità al mondo. Eppure l’Antico Testamento raccoglieva la grande aspirazione dell’uomo espressa dall’insistente preghiera: “Mostrami o Dio il tuo volto!” La risposta era sempre: “Chi vede Dio muore”. Una sola volta Dio si mostrò sul monte ad Elia, ma solo dal di dietro. Con Gesù la risposta cambia radicalmente: è possibile vedere il volto di Dio. Scrive l’evangelista Giovanni: “nessuno ha mai visto il Padre se non il Figlio e colui al quale il figlio lo voglia rivelare”. Gesù ha raccontato agli uomini in maniera definitiva Dio: chi vede Cristo vede il Padre. E Gesù lo ripete con molta forza: “Nessuno può andare a Dio se non attraverso di me”. È questa pretesa che scandalizzò i giudei di allora. Ma se uno non conosce Gesù, non può pretendere di vedere il Padre. Questo è il proprium del cristianesimo.


In questo tempo di dialogo e di incontro con le altre religioni, è necessario ridire la specificità del cristianesimo, ossia che Dio si è fatto uomo in Gesù Cristo. Gesù ha reso Dio un “buona notizia”; e lo ha narrato, raccontato, non solo con le parole ma con la sua stessa vita. In tal modo ha ridimensionato tutte le immagini ed i volti di Dio che gli uomini si sono fabbricati e che continuano a fabbricarsi con le proprie mani. Gesù ha così giudicato tutte le proiezioni umane che sovente attribuiscono a Dio un volto perverso, che non è certo il suo volto. Qualche volta, anche all’interno delle Scritture, vi è la proiezione su Dio di immagini che contrastano con il Padre di cui Gesù ci ha parlato. Ecco perché la tradizione cattolica ha sempre privilegiato i quattro Vangeli rispetto a tutte le altre Scritture. È a dire che tutte le altre Scritture vanno interpretate a partire dal Vangelo e dalla narrazione di Dio fatta da Gesù. E accade anche oggi che noi credenti attribuiamo a Dio un volto costruito secondo le nostre categorie, i nostri schemi, le nostre credenze; e può accadere che predichiamo, senza appoggiarci al Vangelo che norma normans, un Dio con noi e contro gli altri, il Dio degli eserciti e vendicativo, capace di mettere paura ai non credenti, e che abbatte i nemici. Gesù ha posto fine, una volta per tutte, a queste narrazioni di Dio. Con questo non si vogliono ovviamente escludere le altre religioni, tutt’altro. Il Concilio Vaticano II  ha riconosciuto in esse i “semina verbi”, appunto i semi del Verbo, i segni del Figlio. Non possiamo dilungarci su questo tema di grande attualità. Voglio solo dire che noi cristiani abbiamo l’urgente compito di dialogare con tutte le esperienze religiose, in tutte infatti vi è la scintilla di Dio, appunto il segno del Figlio. Un monaco d’Oriente amava dire che i cristiani debbono risvegliare il Cristo che riposa nelle altre tradizioni religiose perché comprendano sempre più la Verità di Dio. Ed è per noi cristiani una regola l’esortazione di Pietro quando dice: “Rispondete a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza”(1Pt 3,15).


Gesù ci ha parlato di Dio in una maniera straordinaria: lo ha reso “Vangelo”, ossia una buona notizia per il mondo. Il Padre di cui Gesù ci parla è davvero un Padre buono e misericordioso con tutti e per tutti. Se apriamo il Vangelo scopriamo quanto sia alta e bella la narrazione di Dio. Ed è una narrazione opposta a quella pensata e creduta dalla cultura atea contemporanea. Gli uomini, soprattutto dall’Ottocento in poi, hanno creduto che per salvare la loro libertà avrebbero dovuto uccidere Dio. È la tradizione culturale dell’umanesimo ateo che ha caratterizzato gran parte della cultura contemporanea. Certo, non sono mancate le colpe dei cristiani che spesso non hanno saputo mostrare il volto del Dio di Gesù Cristo. Noi cristiani dobbiamo sapere di non essere autorizzati a proporre altre narrazioni di Dio da quelle fatteci da Gesù. Perciò, per fare un esempio, se durante la sua vita Gesù non ha mai castigato nessuno, non è lecito affermare che Dio stia lì pronto per castigarci; se Gesù ha sempre amato e perdonato i peccatori, noi dobbiamo affermare che Dio continua ad amare i peccatori e ricercarli perché si ravvedano e cambino vita.


Non voglio dire ovviamente che l’ateismo contemporaneo sia la conseguenza di false immagini di Dio talora presentate dai cristiani. C’è anche l’orgoglio antico dell’uomo – narrato fin dalla prima pagina biblica – che vuole mettersi al posto di Dio. Tale orgoglio, che ha fatto della morte di Dio la condizione della libertà umana, ha portato la storia ad esiti tragici. Il filosofo italiano Natoli riassume così la tragica parabola: “L’uomo moderno ha cercato di conquistare l’infinito in termini positivi, ha perseguito la propria autoaffermazione contro Dio per prenderne il posto. Per l’uomo moderno il farsi Dio (da parte dell’uomo) ha coinciso con lo sforzo di espandere la propria potenza fino a pervenire a un assoluto delirio di onnipotenza”. L’esito di questa esaltazione da onnipotenza – continua Natoli – porta l’uomo “ad aspettative che non può soddisfare e l’accresciuta potenza non lo scioglie affatto dalla sua costitutiva finitezza, ma gliela rende solo insopportabile. Nel tentativo di ‘prendere il posto di Dio’, l’uomo si scopre un Dio mancato. La modernità, specie nei suoi esiti estremi, si è tormentata da una tracotante negazione di Dio e un bisogno di salvezza senza Dio. Ma gli uomini moderni non riescono più a credere. Non resta loro che la disperazione. E, allora, sono ‘orfani di Dio’. L’esito non poteva essere più fallimentare”.


E ancora una volta in Gesù Cristo Dio viene incontro all’uomo. Paolo VI, guardando l’evento conciliare con il quale la Chiesa si avvicinava all’uomo, disse: “la religione del Dio che si è fatto uomo s’è incontrata con la religione dell’uomo che si fa Dio”. Cari amici, “Dio è morto”, gridava l’uomo di Nietszche sulla piazza del mercato. “L’uomo è morto” gridiamo noi ricordando i drammi del Novecento, guardando le guerre che non riescono a terminare, assistendo ignavi alla morte di milioni di uomini, di donne, di bambini per fame per sete per AIDS per dissenteria, osservando la distruzione dell’ambiente e l’assalto alla manipolazione genetica; e si potrebbe ancora continuare con il terrorismo, con la minaccia nucleare, con un generale imbarbarimento della vita.


Cristo, vero uomo e vero Dio, ci spinge a ritrovare sia l’uomo che Dio. E o si trovano assieme o non si trova nessuno dei due. Non è possibile giungere a Dio senza passare per l’uomo, e neppure ritrovare l’uomo senza cogliere Dio o almeno il lembo del suo mantello, il mistero. La stretta alleanza tra Dio e l’uomo si è manifestata in Gesù Cristo ed è divenuta inseparabile. Non c’è confusione indistinta, c’è una unione inseparabile. L’esemplificazione più chiara di questa unione è esposta da Gesù stesso – e non  poteva che essere così – quando si identifica con il debole. Torna la marginalità di cui parlavo all’inizio, insopprimibile nel cristianesimo. Nell’ultimo giorno – dice Gesù – non ci sarà chiesto se abbiamo mangiato e bevuto con lui, insomma se abbiamo a no fatto delle eucaristie; non ci sarà chiesto se abbiamo sentito o ascoltato le sue omelie. Ci sarà chiesto se lo abbiamo riconosciuto nel tessuto umano di ogni girono in chi aveva fame, in chi aveva sete, in chi era nudo, in chi era prigioniero, in chi era straniero, in chi era vittima. Ecco dov’è l’immagine del Dio di Gesù Cristo, o meglio il luogo ove possiamo incontrarlo. Nella tradizione dell’Oriente cristiano vi è una splendida espressione: accanto al sacramento dell’altare vi è il sacramento del fratello: in ambedue è presente Cristo.


L’unione tra l’amore per Dio e per il prossimo è peculiare nel Vangelo. Il credente ebreo ripeteva tre volte al giorno lo shemah: “Ascolta Israele il Signore nostro Dio, il Signore è uno, tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta la tua vita e con tutte le tue forze.” Qui si fermava il comandamento. E l’ebreo ancora oggi prega più volte ripetendo questo precetto dell’amore di Dio. Quando Gesù viene interrogato su quale sia il primo di tutti i comandamenti (Marco 12), Gesù non si è limitato a citare lo shemah Israel ma vi ha tessuto assieme anche le parole del Deuteronomio e del Levitico: “Amerai il prossimo tuo come te stesso.” È una grande innovazione fatta da Gesù. Il comandamento dell’amore di Dio equivale al comandamento dell’amore del prossimo. Luca infatti li unisce in un solo e grande comandamento che abroga tutti gli altri: “Dove c’è l’amore per un uomo, lì c’è anche l’amore per Dio”.


Cari amici, l’eccesso di amore è la novità assoluta portata da Cristo. Il Nuovo Testamento usa il termine “agape”, impiegato, invece, pochissimo dalla cultura greca che preferiva “eros” e “philia”. Con “agape” si introduceva una nuova e impensata concezione dell’amore: un amore che non si nutre della mancanza dell’altro (“eros”) e che nemmeno semplicemente si rallegra della sua presenza (“philia”), ma, appena concepibile dagli uomini, trova il suo modello culminante nel calvario di Cristo: amore disinteressato, gratuito, perfino ingiustificato, perché continua ad agire – ed è il meno che si possa dire – al di fuori di ogni reciprocità. Con questo termine, perciò, che esprime la radicalità più assoluta, si può persino sintetizzare tutta la vicenda biblica: Dio “scende” sulla terra per amare gli uomini sino alla fine. In tal senso l’agape non viene dagli uomini, scende dall’alto, perché è Dio stesso. San Giovanni, infatti, afferma: “Dio è amore”. Il cristianesimo – in questo si differenzia da altre fedi – più che religione che divinizza l’uomo, è la religione di un Dio che per amore si fa uomo. Gesù crocifisso è l’esito paradossale ma necessario di questo itinerario. Ed è anche l’amore che vince la morte e apre il tempo finale della pienezza della vita.


Per questo l’agape, cuore della vita del credente, è superiore a tutte le virtù. Non c’è nulla al disopra: né la profezia della tradizione ebraico-cristiana; né l’ineffabile lingua degli angeli; e nemmeno la speranza; e neppure la conoscenza, la quale in questo mondo è così misera sì che conosciamo Dio solo confusamente, come attraverso uno specchio, dentro “enigmi”. L’amore è superiore persino alla fede. Nel Vangelo di Matteo, Cristo ha detto: “Se avrete fede quanto un granellino di senape potrete dire a questo monte spostati da qui a lì, ed esso si sposterà. Niente vi sarà impossibile”. E San Paolo con un incredibile capovolgimento: “Se avessi tutta la fede tanto da poter trasportare i monti, ma non avessi l’amore, non sarei nulla”. Tutto passerà, anche la fede e la speranza. Al termine resterà solo l’amore.