La gratuità nell’era del mercato globale

Intervento all'incontro Uomini e Religioni di Barcellona

 

Nella opinione comune “gratuità” e “mercato” appaiono due termini opposti e non componibili. La gratuità, che è parte del dono, infatti escluderebbe ogni prospettiva di mercato. Il “do ut des”, proprio della logica del mercato, è del tutto estraneo al comportamento della gratuità che non solo non richiede ma addirittura esclude la reciprocità. A dire il vero, ultimamente, il dibattito sul tema si è intensificato sia sul piano filosofico che su quello economico. Ed è senza dubbio un fatto positivo il dibattere su tale dimensione della vita. C’è comunque chi ritiene che la gratuità, per la sua alta dimensione, non può comunque entrare sul piano dell’economia e tanto meno del mercato. Uno dei filosofi che si è cimentato in questo dibattito è filosofo decostruzionista francese Jaques Deridda. Egli ritiene che la gratuità e il dono sono da escludere nel terreno economico: essi, a motivo della esclusione della reciprocità e del contraccambio, non possono operare sul piano del mercato. Il dibattito comunque è entrato anche tra gli studiosi dell’economia e del mercato. L’enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI affronta chiaramente il tema e lo innesta anche nel piano dello sviluppo economico.

Non è questa la sede per addentrarci in tale dibattito. Volendo però dare anche solo un accenno di risposta a Deridda va chiarito che il senso del dono e quindi della gratuità non si pone sul piano dell’atto unilaterale del donante senza avere alcuna prospettiva, insomma, una sorta di gesto buono ma come un “vuoto a perdere”. La gratuità senza dubbio non richiede la reciprocità, ma non in qualsiasi modo. La reciprocità e quindi il dono sebbene non esigono una risposta immediata sul piano del “do ut des”, tuttavia intendono però operare all’interno della storia, incidere nei rapporti tra le persone in maniera opposta alla logica mercatista dello scambio. Chi dona gratuitamente agisce in vista della costruzione di una società nuova, più fraterna, appunto non mercatista. La gratuità quindi e il dono escludono l’interesse egocentrico dell’utilitarismo personale o di gruppo, ma nello stesso tendono e con decisione ad edificare una società nella quale i rapporti di solidarietà sono al primo posto, molto prima del proprio interesse individuale o di gruppo. Tale prospettiva non è astratta, è molto concreta e immette nella società una energia nuova che la fermenta in senso solidaristico.

E’ quanto appare con chiarezza nella ultima enciclica di Benedetto XVI a partire dall’incipit: Caritas in veritate. La Caritas – secondo il pensiero biblico a cui Benedetto XVI si ispira – non è un termine che esprime l’agire umano ma che definisce l’essere stesso di Dio. Appunto: Deus caritas est, come scrive l’apostolo. Gli autori del Nuovo Testamento quando si trovarono nella necessità di descrivere l’amore cristiano furono costretti a trovare un termine greco allora desueto, agape, perché le due parole allora in uso, eros e philia, non erano adeguate ad esprimere il contenuto dell’amore di Gesù, un amore che non conosce né limiti né reciprocità e che giunge sino ad amare i nemici, anzi a dare la propria vita per tutti. Ma tale dimensione non è come un “vuoto a perdere”. Gesù non ha amato non importa perché, non è morto senza nessuno scopo. Egli ha vissuto l’agape di Dio per liberare l’umanità dal peccato e dalla morte e instaurare una socialità nuova e fraterna. La gratuità non tende verso il vuoto, bensì a vincere la solitudine e creare la nuova fraternità tra tutti a partire con i più deboli.

I cristiani sono chiamati a fermentare l’intera vita dell’uomo in tutti i suoi aspetti, quello economico compreso. Benedetto XVI comunque non intende sminuire il valore del mercato. Scrive: “La Chiesa ritiene da sempre che l’agire economico non sia da considerare antisociale”. E chiarisce che “il mercato non è e non deve perciò diventare, di per sé, il luogo della sopraffazione del forte sul debole. La società non deve proteggersi dal mercato, come se lo sviluppo di quest’ultimo comportasse ipso facto la morte dei rapporti autenticamente umani”. Ma aggiunge: “E’ certamente vero però che il mercato può essere orientato in modo negativo, non perché sia questa la sua natura, ma perché una certa ideologia lo può indirizzare in tal senso”. E avverte: “Non va dimenticato che il mercato non esiste allo stato puro. Esso trae forma nelle configurazioni culturali che lo specificano e lo orientano. Infatti, l’economia e la finanza, in quanto strumenti, possono essere mal utilizzati quando chi li gestisce ha solo riferimenti egoistici”. E quando non è la caritas o la gratuità a guidare l’uomo ma l’egoismo, allora: “Si può riuscire a trasformare strumenti di per sé buoni in strumenti dannosi. Ma è la ragione oscurata dell’uomo a produrre queste conseguenze, non lo strumento di per se stesso. Perciò non è lo strumento a dover essere chiamato in causa ma l’uomo, la sua coscienza morale e la sua responsabilità personale e sociale” (35).

L’economia e il mercato, pertanto, non possono essere ricondotti al solo agire tecnico. Essi, come qualsiasi attività umana, richiedono un’etica, un orientamento, e non un’etica o un orientamento qualsiasi. E qui c’è un passo in avanti di Benedetto XVI. Oggi, nella condizione di mercato globale, non basta più riferirsi ad un’etica generica, come ad esempio hanno fatto i pensatori sia del primo capitalismo che del socialismo, i quali parlavano della indispensabilità dell’etica nel processo economico. Certo, scrive Benedetto XVI, “l’economia ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamento”, ma aggiunge: “non di un’etica qualsiasi, bensì di un’etica amica della persona”(45).

E qual è l’etica amica della persona? Lo vediamo meglio attraverso anche solo un cenno al secondo termine che apre l’enciclica, la Veritas. La Veritas è ci mostra la visione di cui abbiamo oggi bisogno: ossia il primato, anche nella economia e nel mercato, del “bene comune”. E si intende il bene comune della città, del Paese, dell’intera “famiglia dei popoli”. Di fronte alla frantumazione degli orizzonti e al risorgere dei mondi “particolari”, la Veritas ci ripropone davanti agli occhi la visione universale. Benedetto XVI scrive a tale proposito che “lo sviluppo dei popoli dipende soprattutto dal riconoscimento di essere un’unica famiglia”. “Caritas” e “Veritas” sono due dimensioni inseparabili che rendono l’uomo artefice della vita sociale, politica, economica, culturale e religiosa della città, degli Stati e dell’intero pianeta.

L’azione verso il bene comune, compreso l’agire economico, richiede la tutela della dignità di ogni uomo, l’impegno ad edificare una società che sia umana per tutti. Non si deve più lasciare campo libero all’individualismo assoluto (ab-solutus, ossia sciolto da ogni vincolo). Anche il processo economico richiede un’etica segnata dal “dono” e dalla “gratuità”. La semplice “giustizia” – indispensabile per il corretto vivere in una società – da sola non basta, ha bisogno della caritas, che “eccede la giustizia”, sottolinea Benedetto XVI. E questo perché uno dei pilastri della gratuità resta l’attenzione al più debole, al più bisognoso. Tale attenzione è parte integrante di una corretta economia.

Lo sviluppo della società, pertanto, non si realizza attuando le regole del mercato, degli scambi mercantili o dalle manovre finanziarie in maniera disgiunta dall’etica della gratuità e del dono, ma anche accogliendo le prospettive morali della gratuità e del dono che mettono l’uomo al centro dell’azione e della progettazione anche economica. Scrive Benedetto XVI: “Lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio di gratuità come espressione di fraternità”. E ancora: “Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare, e la perdita di fiducia è una perdita grave”(35).

In sintesi possiamo dire che Benedetto XVI va oltre il capitalismo etico riconducibile ad Adam Smith. Se quest’ultimo sosteneva che La ricchezza delle nazioni è creata dall’uomo mosso dall’egoismo, secondo la celebre affermazione sul perché il panettiere e il birraio ci forniscono ogni giorno il pane e la birra, Benedetto XVI afferma che crea La ricchezza (e la grandezza) delle nazioni oggi nasce e si sviluppa nello spirito dell’altruismo solidaristico. Il papa intacca così la concezione liberale che distingue la fase della creazione della ricchezza (che deve essere autonoma da ogni vincolo salvo quella della rigida regola del mercato) da quella successiva della distribuzione (che spetta alla politica). Negli ultimi secoli, infatti, si è pensato con convinzione generale che all’economia sarebbe spettato il compito di produrre la ricchezza, seguendo rigorosamente le regole del profitto, mentre alla politica quello di ridistribuire la ricchezza seguendo i principi della giustizia e dell’equità. E’ accaduto, comunque che in alcuni paesi, quelli socialisti, la politica ha invaso totalmente il campo economico, mentre nei paesi capitalisti è avvenuto il contrario. E’ vero che ci sono stati paesi in cui si è tentato un sapiente bilancio, penso al dosaggio dell’intervento pubblico nelle aziende cosiddette a partecipazione statale. Ma non mi addentro su questo campo. E’ tuttavia indispensabile ripensare in maniera nuova il complesso rapporto tra economia, politica e le altre istituzioni della società in rapporto al bene comune di tutti. E’ questo l’orizzonte da ripensare, sapendo che la responsabilità del bene comune non appartiene in maniera esclusiva a nessuna delle istituzioni, ma a tutte le istituzioni della società, da quella economica a quella politica, da quella religiosa a quella culturale e così oltre. E in tutte deve affermarsi come cardine ispiratore di questo nuovo modello di sviluppo – è questo il cuore dell’enciclica di Benedetto XVI – non la forza dell’egoismo, come affermavano i padri del capitalismo, che porta al ripiegamento sui propri interessi, bensì a forza della “caritas”, dell’altruismo che prevede l’intervento del “dono”, del “gratuito”, e quindi la capacità di andare oltre se stessi. E’ la condizione perché si possa avere quella visione di cui oggi si sente la mancanza, ossia il bene comune dell’intera famiglia umana.

VIVERE INSIEME IN UN TEMPO DI CRISI

UOMINI E RELIGIONI – BARCELONA 2010