Il Vescovo e l’ecumenismo – Incontro della Congregazione per i Vescovi
IL VESCOVO E L’ECUMENISMO
Cercare quel che unisce
Non ho la pretesa di esaurire il vastissimo tema dell’ecumenismo che abbraccia dimensioni teologiche, spirituali e pastorali talora non poco complesse. Queste poche pagine vogliono semplicemente introdurre ad un tema che resta prioritario nella vita della Chiesa di oggi e di domani. Il titolo, “il Vescovo e l’Ecumenismo”, se delimita l’orizzonte delle riflessioni nello stesso tempo manifesta una delle sollecitazioni più chiare emerse del Concilio Vaticano II. Tutti i Papi, dal beato Giovanni XXIII a Paolo VI a Giovanni Paolo I a Giovanni Paolo II sino a Benedetto XVI, hanno fatto dell’ecumenismo una priorità del loro pontificato. Non che in passato non fosse presente nei papi e (nei vescovi) l’anelito all’unità dei cristiani, ma non c’è dubbio che dal Concilio Vaticano II in poi il dialogo ecumenico si è imposto in maniera nuova nell’ambito della Chiesa cattolica. Del resto, uno degli scopi della convocazione del Concilio fu proprio il raggiungimento dell’unità dei cristiani: “Il ristabilimento dell’unità da promuoversi tra tutti i cristiani, è uno dei principali scopi del sacro Concilio Vaticano II” scrive fin dall’inizio il Decreto Unitatis redintegratio (n.1), di cui lo scorso anno abbiamo ricordato i 40 anni dalla promulgazione.
Tale Decreto ha segnato in maniera irreversibile l’impegno della Chiesa cattolica nel dialogo ecumenico. E la provvidenzialità di tale scelta è sancita, tra l’altro, dagli straordinari progressi fatti nelle relazioni ecumeniche in questi ultimi cinquanta anni. A dire il vero apparve chiaro fin dalla celebrazione stessa del Concilio, come tutta la bibliografia storica riconosce. Per comprendere anche solo un poco il clima di quei giorni, riporto qualche parola di Oscar Culmann che fu uno degli osservatori non cattolici: “Quando ogni mattina vedo che noi occupiamo dei posti, che sono quasi posti di onore, di fronte ai cardinali; quando il segretario del Concilio ogni mattina, dopo la messa, pronuncia l’exeant omnes e noi possiamo rimanere ai nostri posti, mi meraviglio sempre di nuovo del modo in cui siamo veramente integrati in questo Concilio e, facendo mia la parola del card. Bea sul miracolo, penso soprattutto a ciò che i Concili del passato hanno significato per i cristiani che non erano cattolici!”.
Anche Benedetto XVI ricorda quei giorni. Qualche anno dopo scrive: “Ho davanti agli occhi l’immagine dell’Aula Conciliare, dove gli Osservatori delegati delle altre Chiese e Comunità ecclesiali stavano attenti, ma silenziosi… Questa immagine ha fatto posto nei decenni successivi alla realtà di una Chiesa in dialogo con tutte le Chiese e Comunità ecclesiali di Oriente e di Occidente. Il silenzio si è trasformato in parola di comunione. Un enorme lavoro è stato compiuto a livello universale e a livello locale. La fraternità tra tutti i cristiani è stata riscoperta e ristabilita come condizione di dialogo, di cooperazione, di preghiera comune, di solidarietà”(Osservato Romano, 18 novembre 2006). Il Papa non si nasconde che “molto cammino resta ancora da fare”(Ivi), ma la via è già tracciata e va perseguita con decisione. E’ una via che non va percorsa ricercando consensi o compromessi sempre più avanzati, ma accogliendo dall’Alto il dono dell’unità. La Pastores Gregis ha un apposito passaggio in tal senso: “La preghiera del Signore Gesù per l’unità fra tutti i suoi discepoli costituisce per ogni vescovo un pressante appello ad un preciso dovere apostolico: Non è possibile attendersi questa unità come frutto dei nostri sforzi; essa è principalmente dono della Trinità alla Chiesa”(n.64).
In ogni caso è indubbio che in questi ultimi cinquanta anni si sono compiuti progressi assolutamente inimmaginabili anche solo pochi anni prima, sebbene non manchino raffreddamenti rispetto alle speranze sorte nell’immediato post-Concilio. A tale proposito riporto un piccolo episodio. L’attuale patriarca di Mosca, allora vicino al metropolita Nikodim, il vescovo russo che morì tra le braccia di Giovanni Paolo I e che aveva pubblicato una biografia di Giovanni XXIII, racconta che il metropolita a quell’epoca aveva previsto persino le tappe per giungere all’unità entro il Duemila. Forse era un sogno ingenuo, ma c’era. E al momento della elezione a Patriarca di Mosca il metropolita Kirill, memore di Nikodim, ne portava sul petto le insegne. In ogni caso, di fronte a coloro che si lasciano prendere dal pessimismo, va ripreso lo spirito dei padri dell’ecumenismo, a partire da Giovanni XXIII che “era solito dire che ciò che ci divide come confessori di Cristo è molto minore di quanto ci unisce. In questa affermazione è contenuta l’essenza stessa del pensare ecumenico. Il Concilio Vaticano II è andato nella medesima direzione… Esistono dunque le basi per un dialogo, per l’estensione dello spazio dell’unità, che deve andare di pari passo con il superamento delle divisioni, in grande misura conseguenze della convinzione del possesso esclusivo della verità”(Giovanni Paolo II).
Deve irrobustirsi questa coscienza se si vuole continuare il dialogo tra i cristiani sulla scia degli anni passati. Ed è la stessa ecclesiologia di comunione che ci spinge a farla crescere. Il muro che divideva i cristiani gli uni dagli altri ha subito uno scossone quando i cristiani hanno iniziato a guardarsi in maniera nuova gli uni gli altri. Si delineava una visione dell’ecumenismo che allontanava sia gli irrigidimenti che il tatticismo. Era una visione di natura spirituale: “quelli che credono in Cristo e hanno ricevuto debitamente il battesimo sono costituiti in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa cattolica”(UR 3). Papa Benedetto, nella usa visita alla chiesa luterana di Roma il 14 marzo scorso, notava: “Oggi ascoltiamo molte lamentele sul fatto che l’ecumenismo sarebbe giunto a un punto di stallo, accuse vicendevoli; tuttavia penso che dovremmo anzitutto essere grati che vi sia già tanta unità… Credo che dovremmo mostrare al mondo soprattutto questo: non liti e conflitti di ogni sorta, ma gioia e gratitudine per il fatto che il Signore ci dona questo e perché esiste una reale unità, che può diventare sempre più profonda e che deve divenire sempre più una testimonianza della parola di Cristo, della via di Cristo in questo mondo”. Con gli occhi così illuminati gioiamo dell’unità già presente, ringraziamo il Signore per il dono che tale unità rappresenta e ci mettono assieme in cammino per accoglierla in pienezza. Se tale coscienza sbiadisce e l’interesse reciproco si affievolisce anche il cammino ecumenico rallenta.
L’ecumenismo, un modo di vivere la fede cristiana
L’ecumenismo, se posto nell’orizzonte della “communio”, non è pensabile come una cosa in più da fare, bensì come un modo di essere, di sentire la Chiesa, di vivere la fede cristiana. Lo rilevava con chiarezza l’allora cardinale Ratzinger in un dibattito tenuto nella facoltà valdese di Roma nel 1993 (i Valdesi sono una denominazione del protestantesimo italiano). Dopo aver richiamato che l’unità tra i cristiani è un dono di Dio, l’allora cardinale affermava: “Se Dio è il primo agente della causa ecumenica, il comune avvicinamento al Signore è la condizione fondamentale di ogni vero avvicinamento delle chiese. Con altre parole, ecumenismo è anzitutto un atteggiamento fondamentale, è un modo di vivere il cristianesimo. Non è un settore particolare, accanto ad altri settori. Il desiderio dell’unità, l’impegno per l’unità appartiene alla struttura dello stesso atto di fede, perché Cristo è venuto per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi. La caratteristica fondamentale di un ecumenismo teologico e non politico è dunque la disponibilità di stare e di camminare insieme anche nella diversità non superata; la regola pratica è fare tutto ciò che possiamo fare noi per l’unità e lasciare al Signore quanto può fare soltanto il Signore”.
E continuava sottolineando l’obbligo spirituale che i cristiani hanno di camminare insieme se vogliono essere discepoli di Gesù, sino a dire che l’ecumenismo è un obbligo spirituale. Si comprende perché Papa Benedetto XVI, fin dal primo giorno del suo pontificato, abbia posto l’ecumenismo come uno degli scopi del suo pontificato. Al Congresso Eucaristico Nazionale Italiano, svoltosi a Bari, ed era la prima uscita dal Vaticano, disse: “vorrei ribadire la mia volontà di assumere come impegno fondamentale quello di lavorare con tutte le energie alla ricostituzione della piena e visibile unità di tutti i seguaci di Cristo. Sono cosciente che per questo non bastano le manifestazioni di buoni sentimenti. Occorrono gesti concreti che entrino negli animi e smuovano le coscienze, sollecitando ciascuno a quella conversione interiore che è il presupposto di ogni progresso sulla via dell’ecumenismo (cfr Ai rappresentanti delle Chiese e comunità cristiane e di altre religioni non cristiane, 25 aprile 2005). Chiedo a voi tutti di prendere con decisione la strada di quell’ecumenismo spirituale, che nella preghiera apre le porte allo Spirito Santo, che solo può creare l’unità”.
Per una nuova coscienza
Tale determinazione del Papa va raccolta dai vescovi e dalle loro Chiese. L’impegno ecumenico, infatti, non è scontato. Anzi, è facile anche per i cattolici lasciarsi sorprendere da una sorta di autoreferenzialità. Faccio un solo esempio: non è difficile sentirsi esentati dalla preoccupazione ecumenica se nella propria diocesi, o nella propria parrocchia, non ci sono fratelli e sorelle di altre confessioni cristiane. Noi vescovi, proprio per la partecipazione al collegio episcopale, siamo obbligati ad avere e a far crescere tale coscienza. E’ un obbligo entrato anche nella legislazione canonica sia latina che orientale (can 755 del CJC e cann. 902-904 del CCEO). E il Direttorio per il ministero pastorale dei vescovi, emanato dalla Congregazione per i Vescovi, lo sottolinea con chiarezza. E mi piace sottolineare che è un vanto per la Chiesa Cattolica; nessun altra ha posto nei propri codici analoghe disposizioni. Il Catechismo della Chiesa cattolica allarga questo impegno a tutti i cristiani. Per questo non può esserci né vescovo, né chiesa locale, che non debba far propria la preghiera di Gesù: ut unum sint, e che non senta la responsabilità di operare per l’unità dei cristiani.
E’ una responsabilità propria dei vescovi accogliere l’attitudine ecumenica della Chiesa universale anche attraverso la conoscenza dell’insegnamento magisteriale a tale riguardo. La lettura del decreto conciliare Unitatis redintegratio è indispensabile per immergersi nello spirito ecumenico suscitato dal Concilio. Ed è altresì necessario avere tra le mani il successivo testo applicativo preparato dal Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani: Direttorio per l’applicazione dei principi e delle norme sull’ecumenismo (n. 207), che mi permetto di offrire questa sera in una riedizione a cura della Commissione Ecumenica della CEI. Ci sono poi testi magisteriali che assumono una importanza straordinaria per l’ecumenismo, come la prima enciclica sull’ecumenismo, Ut unum sint, emanata da Giovanni Paolo II a 30 anni dal Concilio. Il Papa vi ribadisce, aggiornandoli, i principi dell’ecumenismo cattolico offrendo altresì nuove indicazioni per il proseguimento della ricerca. È singolare, per fare un solo un esempio, che dopo pochi anni la stessa terminologia di fratelli separati tende ad essere sostituita da altre denominazioni (altri cristiani, comunità non in piena comunione, e così oltre). Si vuole sempre più sottolineare la saldezza della fraternità tra i cristiani: “La fraternità universale dei cristiani è diventata una ferma convinzione ecumenica”(UUS 42). Nel testo dell’enciclica appare particolarmente coraggioso l’invito di Giovanni Paolo II a chiedere agli altri cristiani di aiutarlo a comprendere come esercitare il “Primato”.
Questi tre testi citati sono indispensabili per una adeguata coscienza dell’ecumenismo nella Chiesa cattolica. Un altro documento particolarmente utile è l’enciclica Orientale lumen, ove Giovanni Paolo II delinea la ricchezza della tradizione d’Oriente che i cattolici latini non possono non conoscere e non accogliere. E conoscono bene tale ricchezza i nostri confratelli delle Chiese Cattoliche di rito orientale o bizantino, alcuni dei quali sono qui tra noi. Naturalmente ci sono poi gli altri testi delle diverse Conferenze Episcopali nei quali si affronta l’aspetto ecumenico con un’attenzione particolare alle situazioni locali. Per quel che concerne l’Italia, penso alle problematiche relative all’intercomunione o ai matrimoni misti. E’ indispensabile offrire indicazioni per evitare abusi e scorciatoie dannose, e soprattutto per camminare con chiarezza e correttezza nel dialogo ecumenico (mi permetto di consegnarvi l’ultimo testo sui matrimoni misti tra Cattolici e Battisti, firmato lo scorso anno in Italia). Oltre i testi nell’ambito cattolico è indispensabile uno sguardo sulla letteratura teologica e spirituale delle altre Chiese cristiane. Si tratta di un patrimonio straordinariamente ricco. Basti pensare al mare magnum delle opere dei Padri orientali, dei monaci del deserto, come pure ai preziosi scritti, soprattutto spirituali, degli uomini della Riforma.
Le tre grandi divisioni nella storia cristiana
Prima di offrire una breve sintesi delle relazioni della Chiesa cattolica con le altre Chiese e Comunità cristiane, credo sia opportuno anche solo accennare alle tre grandi divisioni avvenute nel corso dei duemila anni di storia cristiana. E’ indispensabile conoscere questa storia per comprendere la complessità del dialogo ecumenico e per evitare dannose semplificazioni e altrettanto pericolose scorciatoie.
La prima divisione riguarda le Antiche Chiese d’Oriente: ossia la Chiesa Armena, che oggi ha quattro catholikosati: a Echtmiadzin, a Beiruth, a Gerusalemme e ad Ankara; la Chiesa Copta, presente sia in Egitto che in Etiopia; le Chiese Siriache e Assira, presenti nell’attuale Libano, in Irak e in India (nel VII secolo la loro missione era giunta sino in Manciuria, Cina). Si tratta di Comunità che, al momento della divisione, vivevano al di fuori dei confini dell’Impero romano. Queste tre famiglie di Chiese, nonostante le forti differenze tra loro, furono accomunate dal rifiuto delle decisioni cristologiche di Calcedonia (alcune avevano rifiutato già quelle di Efeso). Sono chiamate, oggi, Antiche Chiese d’Oriente. La persecuzione che subirono da parte dell’imperatore, il quale prese spunto anche da questa disobbedienza teologica per colpirle, allargò il fossato che le separava dalle Chiese dell’Impero romano. E, per circa mille e cinquecento anni, esse non hanno avuto rapporti né con Roma né con Costantinopoli, vivendo isolate dal resto della cristianità. È facile immaginare i guasti che questo ha comportato. Solo negli ultimi decenni c’è stato un provvidenziale riavvicinamento, peraltro veloce per quel che concerne le questioni cristologiche. Sono state, infatti, firmate dichiarazioni teologiche congiunte che hanno chiarito le divergenze che causarono la divisione. Non si è però giunti all’unione, sia per la questione del primato del Papa di Roma che resta ancora irrisolta, sia per i pesi storici e psicologici di mille e cinquecento anni di separazione che ingombrano pesantemente gli animi.
La seconda divisione fu sancita nel 1054 con le scomuniche reciproche tra Roma e Costantinopoli. Questa volta la separazione avvenne all’intero dei confini dell’impero tra i cristiani d’Oriente e quelli d’Occidente. Il motivo scatenante fu l’inserzione nel Credo del filioque da parte di Roma. In verità si trattava della conclusione, come rileva Congar, di un processo di reciproca estraniazione che durava ormai da lungo tempo. Ovviamente, dal momento delle scomuniche reciproche, le tensioni e le differenze si sono acuite e consolidate nei secoli successivi per tutto il secondo millennio (cf. UR 14). Le scomuniche furono annullate contemporaneamente nell’ultimo giorno del Concilio. Anche questa volta, però, non si è giunti al ristabilimento dell’unità. Si rende necessario – e questo è vero anche con le Antiche Chiese d’Oriente e con il protestantesimo – un cammino inverso a quello dell’allontanamento.
È un cammino che implica, oltre il dialogo teologico, anche quello della carità, ossia la purificazione della memoria, il superamento dei pregiudizi, la mutua conoscenza, la cooperazione pratica nel campo pastorale, culturale, sociale e politico, e poi incontri e ospitalità reciproca oltre che l’allargamento delle amicizie. Solo in tale contesto può avvenire una osmosi virtuosa tra il principio petrino della Chiesa latina e il principio sinodale delle chiese orientali. Certo è che la separazione fra le due Chiese, quella d’Oriente e quella d’Occidente, di cui forse non si comprendono ancora a sufficienza i danni, ha fortemente indebolite ambedue. Riprendendo l’immagine cara a Giovanni Paolo II si potrebbe dire che per circa mille anni, le due Chiese hanno respirato con un polmone solo. Ed è difficile in tali condizioni una respirazione regolare e una ossigenazione adeguata. Per accennare ad uno dei guasti più rilevanti direi che tale impoverimento ha favorito la successiva tragica divisione del XVI secolo fra cattolici e protestanti. Si racconta che durante i lavori del Concilio di Trento, il cardinale Bessarione, originario di Trebisonda, dicesse più o meno: “Dov’è l’Oriente, dov’è l’Oriente!”.
Questa terza divisione, sebbene sia avvenuta all’interno dello stesso mondo occidentale, è risultata più profonda di quella avvenuta con le Chiese orientali, perché ha portato divergenze non solo di natura storica, sociologica, psicologica e culturale, ma anche nell’interpretazione della verità rivelata (UR 19). Paradossalmente, ad esempio, proprio il sacramento dell’unità, l’Eucarestia, è divenuto una pietra d’inciampo e un punto di aspre polemiche e di profonde differenze. La questione non riguarda soltanto la reale presenza di Cristo nell’eucaristia ma anche il carattere sacrificale della celebrazione eucaristica, cui è da aggiungere la questione della sacramentalità e della validità del ministero ecclesiale a cui si deve aggiungere la diversa comprensione della successione apostolica (cf. UR 22). In tali questioni, soprattutto con gli Anglicani e i Luterani, il dissidio è ancora profondo. Perciò, mentre nello scisma fra Oriente e Occidente la struttura sacramentale ed episcopale della Chiesa è stata conservata, in quello occidentale (forse tranne l’alto-anglicanesimo e la Scandinavia) si è creato un altro tipo di chiesa che, oltretutto, ha portato ad una frantumazione che è ancora in corso.
Tale processo di frantumazione, a dire il vero, ha suscitato interrogativi all’interno dello stesso mondo protestante. Nel tardo Settecento, ad esempio, di fronte all’evidente scandalo delle divisione, rilevato soprattutto nelle terre di missione, alcuni cristiani appartenenti a diverse Confessioni cercarono di raccordarsi tra loro. Nacque così il primo accenno di ecumenismo moderno: e nasceva per motivi missionari. Nel corso dell’Ottocento tale attitudine si irrobustì notevolmente nel mondo protestante sino a sfociare nel Novecento alla formazione di organismi ecumenici più ampi.
Il 2010, due anniversari: Conferenza di Edimburgo e Segretariato per l’Unità dei Cristiani
Quest’anno ricordiamo il centenario della Conferenza Missionaria di Edimburgo celebrata nell’estate del 1910 a cui parteciparono Protestanti, Anglicani ed un ospite ortodosso. Tale Conferenza viene considerata la nascita del movimento ecumenico. Con essa, infatti, si aprirono nuove prospettive soprattutto nella traduzione interconfessionale della Scrittura e nell’impegno degli studenti cristiani per la pace nel mondo. A distanza di oltre un secolo, «l’intuizione di quei coraggiosi precursori è ancora attualissima», ha sottolineato papa Benedetto XVI nel gennaio scorso ricordandone il centenario. Quei cristiani seppero trasformare la Conferenza da un momento di discussione sulle difficoltà dell’attività missionaria in un’occasione per iniziare una nuova stagione nei rapporti tra i cristiani. Il cambio di prospettiva appare ancora più straordinario se si tiene conto del contesto nel quale esso maturò; infatti la Conferenza di Edimburgo era stata convocata per discutere della natura della missione alla luce delle difficoltà che erano sorte nell’annuncio del vangelo all’interno del protestantesimo che pure era sorretto da ingenti risorse umane e economiche. L’unità della Chiesa era uno dei temi all’ordine del giorno di un’assemblea, prevalentemente anglosassone, esclusivamente protestante.
I partecipanti tuttavia intrapresero un cammino che condusse successivamente alla creazione di organismi ecumenici, come le Commissioni Fede e Costituzione e Vita e Azione, fino all’istituzione, nel 1948 a Amsterdam, del Consiglio Ecumenico delle Chiese per promuovere progetti e iniziative per una testimonianza comune dei cristiani quale segno tangibile della volontà di vivere l’unità dei cristiani. La sede del Consiglio Ecumenico delle Chiese è a Ginevra e da pochi mesi è stato eletto come nuovo segretario generale, il pastore norvegese Olav Fykse Tveit. Attualmente raccoglie più di 300 Chiese e Comunità cristiane. Non si considera una super-chiesa e neppure l’abbozzo di quel che potrebbe essere l’unica Chiesa di Cristo, ma semplicemente come uno strumento per incontri, riflessioni e aiuto reciproco. La Chiesa cattolica – per problemi di ordine ecclesiologico – non ne è membra, sebbene dopo il Concilio abbia deciso di partecipare ai lavori. Il Consiglio Ecumenico traversa oggi un momento difficile, sia per la tensione tra le Chiese storiche protestanti e il movimentismo pentecostale, sia per una disaffezione sempre più forte dell’Ortodossia di fronte alla labilità ecclesiologica del protestantesimo e alle azzardate posizioni etiche assunte da non pochi di essi. È comunque in corso un forte dibattito per ridefinirne la natura. La Chiesa cattolica, pur avendo rapporti diretti con il Consiglio, preferisce tuttavia avere dialoghi bilaterali con le singole Chiese (attualmente ne sono aperti 15).
Nella crescita del dialogo ecumenico un ruolo fondamentale è stato giocato dalla Chiesa Cattolica soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II. In questo anno ricordiamo i cinquanta anni di vita del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani. Era il 5 giugno 1960, quando Giovanni XXIII, con il “motu proprio” Superno Dei nutu, istituì il Segretariato per l’Unità dei Cristiani affidandogli il compito di curare la partecipazione dei delegati delle altre Chiese e Comunità cristiane al Concilio. Il cardinale Agostino Bea seppe farsi interprete autorevole della volontà del Papa e i delegati presero parte alle sedute conciliari come “osservatori”. Nel 1966, a Concilio concluso, Paolo VI rese il Segretariato un organismo permanente della Curia Romana, confermando il cardinale Bea alla presidenza. Nel 1988 Giovanni Paolo II lo trasformò in un Pontificio Consiglio nel quadro del riordino della Curia Romana. In questi cinquant’anni di impegno il Pontificio Consiglio ha operato per far crescere nella Chiesa Cattolica un autentico spirito ecumenico secondo quanto indicato dal Vaticano II e per sviluppare il dialogo e la collaborazione con le altre Chiese, sotto la guida dei cardinali Johannes Willebrands, uno dei più stretti collaboratori del cardinale Bea, Idris Cassidy e Walter Kasper, che da poche settimane ha lasciato la presidenza a mons. Kurt Koch, vescovo emerito di Basilea.
Il dialogo con gli Ortodossi
Con il Concilio Vaticano II si è sviluppato un vero e proprio movimento ecumenico attraverso un ricco dialogo fraterno con gli altri cristiani. L’icona più evidente di quegli anni fu lo storico abbraccio tra Paolo VI e il Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, Atenagora, a Gerusalemme nel gennaio 1964. Ho accennato ai dialoghi con le Antiche Chiese di Oriente, con le quali importanti documenti cristologici sono stati firmati. L’incontro con queste Chiese si colora oggi del dramma che stanno vivendo all’interno del grande mondo musulmano nel Medio Oriente o in India. Non è questa la sede per parlarne, ma non c’è dubbio che la nostra vicinanza – assieme anche a quella con le omologhe Chiese unite a Roma – deve far crescere la solidarietà e la preghiera verso di loro.
Con le Chiese ortodosse il dialogo si è sviluppato in maniera sorprendete. Sarebbe troppo lungo delineare anche solo sommariamente gli innumerevoli passi compiuti sulla via dell’unità che hanno avuto gli ultimi Pontefici primi protagonisti. Neppure vi faccio cenno. Benedetto XVI ha dato una accelerazione alla ripresa dei lavori della Commissione teologica mista cattolico-ortodosso dopo una lunga sospensione che ne aveva fatto temere la fine. E’ stato redatto un testo, il Documento di Ravenna, sottoscritto dalla Chiesa Cattolica e dalle Chiese Ortodosse nel 2007, come base per ulteriori approfondimenti delle questioni ecclesiologiche. Nei giorni prossimi, dal 20 al 27 settembre, si terrà a Vienna una nuova sessione plenaria della Commissione per fare il punto circa il ruolo del Vescovo di Roma nel primo Millennio.
Ovviamente il dialogo con le Chiese Ortodosse non si esaurisce nella redazione e nel dibattito su tale documento. Ci sono anche i numerosi rapporti bilaterali che continuano. Tra questi il più evidente è il singolare rapporto con il Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli che, anche in seguito alla visita di Benedetto XVI in Turchia, si è arricchito nella convergenza su alcuni temi, come la salvaguardia del creato, sui quali i cristiani sembrano essere in grado offrire una comune testimonianza. Al tempo stesso si è aperta una stagione nuova nei rapporti con la Chiesa Ortodossa Russa. Questa stagione, annunciata dai commenti positivi al momento dell’elezione di Benedetto XVI, è il risultato di numerosi fattori, tra i quali spicca la scoperta di una convergenza nella volontà di riaffermare e difendere i valori del patrimonio spirituale del cristianesimo di fronte a un processo dilagante di secolarizzazione, soprattutto in Europa. In questo versante si è instaurato un rapporto privilegiato tra Chiesa Cattolica e Chiesa Ortodossa Russa. E’ vero che questa nuova stagione nei rapporti con Mosca aveva mostrato i suoi primi segni sotto il Patriarca Alessio II, ma è indubbio che l’elezione di Kirill, per lunghi anni responsabile del Dipartimento per gli affari esteri del Patriarcato di Mosca, perfetto conoscitore della Chiesa Cattolica, sta aprendo una nuova e promettente pagina.
Il dialogo con la Chiesa Ortodossa è alimentato, indirettamente, anche dal clima ecumenico che vivono le Chiese Ortodosse nel loro complesso. Infatti, anche se rimangono forti le tensioni al suoi interno, appaiono nuovi segni positivi. Si è conclusa, ad esempio, la divisione tra le due Chiese ortodosse russe: il patriarcato di Mosca e la Chiesa russa ella Diaspora si sono unite, dopo decenni di ferocemente polemica contrapposizione, che non era venuta meno con il crollo del muro di Berlino. Al termine di un processo, che ha meravigliato gli stessi partecipanti, si è creata un’unica Chiesa Russa, sotto il Patriarcato di Mosca. Ed è stato particolarmente importante la visita di Bartolomeo I a Mosca, invitato dal Patriarca Kirill, perché ha superato tensioni che rischiavano di lacerare in maniera più ampia i rapporti all’interno della stessa Ortodossia.
Le Chiese Ortodosse, inoltre, hanno trovato una forma comune per affrontare la questione delle comunità fuori dai rispettivi territori canonici; si tratta di una questione non secondaria per il dialogo ecumenico, dal momento che i flussi migratori hanno determinato la nascita di numerose comunità, soprattutto in Europa Occidentale; in molti casi la presenza di queste nuove comunità ha dato origine a una serie infinita di discussioni riguardo alla loro appartenenza canonica, teoricamente rivendicata dal Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli. Nel 2009 a Chambésy viene stabilito l’istituzione di Conferenze episcopali ortodosse nazionali, sotto la presidenza del locale rappresentante del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, proprio per delineare una linea comune nell’azione pastorale e, di conseguenza, ecumenica per le comunità ortodosse in un unico stato. Molti altri sono gli elementi che potrebbero essere evocati per delineare una nuova attenzione all’unità nella Chiesa Ortodossa, che pure mantiene la sua rigidità nell’affrontare la questione delle Chiese unite a Roma nel corso dei secoli, così come la difficoltà a ripensare il proprio passato in termini non semplicemente agiografici.
Uno spazio nuovo si è aperto, per lo meno in Europa, ma non solo, a motivo della diaspora degli ortodossi fuori del loro tradizionale territorio canonico. La loro presenza, piuttosto numerosa, ha richiesto alle comunità cattoliche di accoglienza l’approfondimento di temi e di dimensioni per una attenta testimonianza ecumenica. La Conferenza Episcopale Italiana, ad esempio, ha pubblicato quest’anno un Vademecum per la pastorale delle parrocchie cattoliche verso gli orientali non cattolici proprio per fornire uno strumento in grado di favorire la comprensione della pluralità delle tradizioni cristiane e di percorrere quei rapporti in linea con un corretto spirito ecumenico. Molti sono i campi in cui è possibile un’incontro e una collaborazione, da quella della istituzione di una giornata nazionale per la Salvaguardia del creato, com’è avvenuto in Italia e che viene celebrata il 1 settembre, appunto come nel Patriarcato Ecumenico, alle altre iniziative di preghiera, di ascolto comune delle Scritture, all’impegno per la giustizia e la solidarietà. E così oltre.
Le Chiese cattoliche di rito bizantino
Nel contesto dell’Ortodossia è bene fare almeno un cenno alle Chiese cattoliche di rito bizantino. Esse, ovviamente, non rientrano nel discorso ecumenico, proprio perché sono cattoliche; ma, quel duplice legame che le unisce da una parte a Roma e dall’altra alla tradizione bizantina, le rende presenti nel dibattito. Non possiamo farne la storia, ma la presenza tra noi di alcuni vescovi bizantini o “uniati”, mi autorizza a spendere – lo faccio però con qualche timore – almeno una parola sulla loro lunga e complessa vicenda che spesso è stata segnata da incomprensioni, oppressioni e martirio. Nell’ambito delle Chiese dell’Antico Oriente e dell’Ortodossia, a partire per lo più dal secolo XVIII, alcune comunità di rito bizantino si sono unite a Roma (di qui il termine “uniati”). Oggi, accanto ad ogni Chiesa dell’Antico Oriente e dell’Ortodossia vi è la rispettiva comunità unita a Roma. Attorno ad esse si sono addensate numerose polemiche da parte delle Chiese ortodosse perché le vedono come il modello cattolico dell’unità. In tal caso l’ecumenismo sarebbe, appunto, l’assorbimento dell’Ortodossia da parte del Cattolicesimo. Tale prospettiva, in verità, non è affatto contemplata. E cade quindi ogni ragione di polemica in questo senso. I problemi sono in verità di altra natura e affondano le loro radici nella storia, nella psicologia e nella cronaca di questi anni, soprattutto dopo la caduta del regime comunista. Basti pensare al problema sorto in Ucraina ove è presente una grande comunità cattolica di rito bizantino che era stata soppressa da Stalin. La questione è divenuta particolarmente difficile e rappresenta una delle principali difficoltà nei rapporti con Mosca. La soluzione richiede sapienza e generosità da parte di tutti.
Diversa è invece la posizione dei maroniti, che in Libano hanno la loro sede patriarcale. Questa Chiesa, di rito antiocheno, è però da sempre unita a Roma. La sua presenza in Libano rende questa terra particolarmente cara all’Occidente cristiano. Il Libano resta l’esempio di come il cristianesimo può vivere in Oriente anche se è una minoranza rispetto ai musulmani. I cristiani d’oriente – apro qui una doverosa parentesi che comprende anche le altre Chiese cattoliche non di rito latino – lamentano che, mentre tra gli ebrei e i musulmani la solidarietà non conosce confini, tra i cristiani invece è normale la dimenticanza da parte dell’Occidente dei loro fratelli orientali. In effetti, noi vescovi occidentali dovremmo porre molta più attenzione a questa porzione della Chiesa anche perché da essa abbiamo ricevuto la fede. Non possiamo dimenticare questo debito. E sarebbe davvero imperdonabile se l’Oriente diventasse un museo privo di comunità cristiane, anche per la nostra dimenticanza. La presenza cristiana nel Medio Oriente, come anche in India ove loro possono rivendicare rispetto agli indù una antichissima origine, è una garanzia di pluralità.
E’ perciò particolarmente opportuna la celebrazione, nel prossimo ottobre, del Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente. Papa Benedetto, consegnando l’Instrumentum laboris, diceva: “Questa Assemblea desidera inoltre incoraggiarvi nella testimonianza della vostra fede in Cristo, che voi rendete nei Paesi dove questa fede è nata ed è cresciuta… E’ un’occasione per i cristiani del resto del mondo di offrire un sostegno spirituale e una solidarietà per i loro fratelli e sorelle del Medio Oriente… per porre in risalto il valore importante della presenza e della testimonianza cristiane nei Paesi della Bibbia… Spesso agite con artigiani della pace nel difficile processo di riconciliazione. Voi meritate la riconoscenza per il ruolo inestimabile che rivestite. E’ mia ferma speranza che i vostri diritti siano sempre più rispettati, compreso il diritto alla libertà di culto e la libertà religiosa, e che non soffriate giammai di discriminazioni di alcun tipo”.
Il dialogo con gli anglicani e i protestanti
Il dialogo con il mondo protestante vive una stagione di grande difficoltà, pur in presenza di tanti segni di speranza. Le difficoltà del momento non dipendono solo dall’essere giunti alle questioni che più dividono la Chiesa cattolica dalle Chiese storiche protestanti, quanto dalla situazione nelle quali si trovano queste chiese, in particolare la Comunione anglicana. Infatti negli ultimi anni, nonostante la presenza dell’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams, la Comunione anglicana sembra correre il rischio di un suo radicale ripensamento, dopo una serie di decisioni prese unilateralmente. La linea adottata dalla Chiesa episcopaliana degli Stati Uniti riguardo all’ordinazione di vescovi dichiaratamente omosessuali e le formule di benedizione di sposi dello stesso sesso da parte di comunità anglicane canadesi hanno scavato una profonda divisione all’interno della Comunione anglicana non solo tra le singole Chiese ma anche nelle stesse Chiese; si sono create delle fratture che sembrano difficilmente sanabili, con il distacco di alcune comunità statunitensi dalle proprie diocesi proprio per manifestare il proprio dissenso rispetto a decisioni prese a maggioranza.
Nonostante i tentativi di Rowan Williams, convinto sostenitore del dialogo ecumenico a partire dalla propria comunità, gli anglicani non sono ancora riusciti a trovare un modus vivendi che tenga conto dell’emergere di queste posizioni, che hanno determinato delle contrapposizioni, anche da un punto di vista geografico, poiché alla Chiesa episcopaliana degli Stati Uniti si sono contrapposte le Chiese anglicane africane che non solo hanno interrotto i rapporti ma hanno anche promosso una missione di evangelizzazione e di assistenza per gli episcopaliani che non si riconoscono nelle decisioni prese dalla propria chiesa nazionale. In questo contesto, in luglio, la Chiesa di Inghilterra ha votato, a maggioranza, per l’elezione delle donne vescovo, un altro tema sul quale è evidente l’esistenza di un profondo dissenso all’interno della Comunione anglicana e sul quale non si possono ignorare le ricadute in campo ecumenico. Di fronte a questa situazione il dialogo con la Comunione anglicana, vive una stagione di grande incertezza, anche se viene riaffermata continuamente la volontà di proseguire nel dialogo che negli anni del post concilio ha prodotto incontri e documenti di grande valore per la comprensione del comune patrimonio spirituale e dogmatico.
Una parola va riservata alla costituzione apostolica De coetibus anglicanorum, pubblicata nel novembre 2009; con essa si è voluto definire un percorso per gli anglicani che hanno abbandonato la Comunione Anglicana ormai dai anni, in seguito alla decisione favorevole alla possibilità dell’ordinazione delle donne e quindi veniva a sanare una situazione che si trascinava da qualche anno. La presentazione di questo percorso, fatta a Londra congiuntamente dall’arcivescovo anglicano di Canterbury e dall’arcivescovo cattolico di Westminster, mostra quanto saldo sia il dialogo ecumenico tra Roma e Canterbury, nonostante la difficile situazione nella quale si trova la Comunione anglicana.
La Federazione Mondiale Luterana vive una stagione, per certi versi, simile a quella della Comunione anglicana; infatti anche al suo interno non sono mancate le proposte, soprattutto nella Chiesa Evangelica Luterana degli Stati Uniti, per consentire l’ordinazione degli omosessuali dichiarati, così come di ammettere nuove forme di famiglie, ma la recente Assemblea di Stoccarda, nel luglio scorso, ha preferito soprassedere circa una decisione univoca, anche perché numerose sono state le voci contrarie da queste proposte, in particolare dall’Africa, riproponendo la stessa contrapposizione che sta vivendo la Comunione anglicana. La Federazione luterana ha preferito proseguire sulla strada di una purificazione della memoria, concludendo un lungo percorso di riconciliazione con la comunità mennonita; si tratta di un accordo, limitato per il numero dei fedeli coinvolti, ma dall’alto valore simbolico, dal momento che i mennoniti si richiamano alle comunità anabattiste che furono violentemente perseguitate da Lutero.
Con la ratifica di questo documento la Federazione Luterana ha voluto anche indicare il modo con il quale intende preparare la celebrazione del 500° anniversario della nascita della Riforma nel 2017. Il dialogo con la Federazione Luterana vive una stagione di attesa, dopo la firma della Dichiarazione comune sulla giustificazione nel 1999, successivamente sottoscritta anche dal Consiglio Mondiale Metodista. Con le diverse Comunità protestanti, anche con quelle che solo da poco sono entrate nel dialogo ecumenico, come gli Avventisti, esiste una forte sintonia su alcuni temi, come la salvaguardia del creato, la lotta contro ogni forma di violenza, la difesa della libertà religiosa, che configurano un comune impegno in nome del Vangelo, anche se su questi temi si ha poi una convergenza anche di molti non-cristiani.
Una frontiera nuova si è aperta con la crescita dei nuovi movimenti pentecostali. E’ una enorme galassia cresciuta nel corso del Novecento in maniera impressionante. Mentre le Confessioni storiche continuano a diminuire, questi nuovi movimenti, assieme a vecchie e nuove sette, crescono con sorprendete rapidità e non solo nell’emisfero meridionale del pianeta. La loro espansione è stata così stupefacente da far dire a qualcuno che si tratta di una vera e propria nuova Riforma. Basti pensare che all’inizio del Novecento gli aderenti erano poche migliaia ed ora sono quasi cinquecento milioni, di cui novanta in Cina. In base alle proiezioni, prima del 2050, dovrebbero superare il miliardo. Qualche studioso vede in tali movimenti la futura forma del cristianesimo del terzo millennio. A differenza di alcune Confessioni tradizionali protestanti, costoro sono chiari sulla fede nella divinità di Gesù Cristo e soprattutto sono saldi nel difendere i valori etici; non mancano ovviamente coloro che praticano un proselitismo aggressivo soprattutto nel Sud del mondo. In ogni caso, rappresentano uno stimolo per un rinnovamento spirituale ed evangelico delle antiche Chiese, ed anche per la Chiesa cattolica. Il Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani emanò, qualche anno fa, un interessante documento sulle “Sette” e sulla sfida che rappresentano alla nostra pastorale. L’interrogativo che pongono prima ancora che sul piano teologico ci spinge a riflettere sul coinvolgimento esistenziale dei fedeli nella fede cristiana che spesso nelle chiese storiche è poco presente e poco visibile.
La Bibbia e il dialogo ecumenico
Una nuova prospettiva nel dialogo ecumenico è stata aperta dal Sinodo dei Vescovi sulla Parola di Dio celebrato a Roma due anni or sono e di cui attendiamo l’Esortazione Apostolica. La Bibbia appare come un nuovo e privilegiato terreno per i rapporti tra i cristiani. In essa – come rileva un inchiesta internazionale – tutti i cristiani si trovano ad affrontare gli stessi problemi e le stesse aspettative. In verità già i padri conciliari lo avevano intuito quando scrivevano: «tra gli elementi o beni, dai quali, presi insieme, la stessa chiesa è edificata e vivificata, alcuni, anzi parecchi ed eccellenti, possono trovarsi fuori dei confini visibili della chiesa cattolica: la parola di Dio scritta, la vita della grazia, la fede, la speranza e la carità, e altri doni interiori dello Spirito Santo ed elementi visibili; tutte queste cose, che provengono da Cristo e a lui conducono, appartengono di diritto all’unica chiesa di Cristo» (UR 3).
In una recente inchiesta in diciassette paesi del mondo si evidenzia il notevole cammino realizzato nel campo biblico particolarmente dai cattolici: negli ultimi 40 anni è stata cancellata la “distanza” con il mondo protestante. Si rileva peraltro una straordinaria attenzione alla Bibbia da parte sia di credenti che di non credenti. Una riflessione approfondita meriterebbe la diversità di approccio alla Bibbia che si rileva nei diversi paesi esaminati in particolare per quel che riguarda la galassia pentecostale. Ph. Jenkins, nel volume I nuovi volti del cristianesimo, ritiene che nelle comunità pentecostali dell’America Latina, dell’Africa e dell’Asia gli atteggiamenti nei confronti della Bibbia sono molto diversi rispetto a quelli che hanno le denominazioni protestanti storiche del Nord. E non si tratterebbe unicamente di una lettura più “entusiasta, immediata e diretta” delle Scritture, magari anche con una tentazione fondamentalista rispetto a quella più individualista e illuminista delle Chiese del nord del mondo, ma di un diverso modo di considerare il testo sacro. Ed è singolare che uno dei motivi delle rivendicazioni interpretative è la chiara dimensione di popolo che queste comunità hanno rispetto a quelle storiche del Nord ridotte di numero e di peso.
E’ comunque un fatto che il campo biblico è quello ove si sta compiendo il progresso più evidente e dove è in atto una fattiva collaborazione. Pur non mancando i problemi, di cui alcuni anche delicati, le Scritture permettono un più robusto incontro tra i cristiani. La Pontifica Commissione Biblica già in passato parlava di un “imperativo ecumenico… per tutti i cristiani… a rileggere i testi ispirati, nella docilità allo Spirito Santo, nella carità, nella sincerità e nell’umiltà, a meditare questi testi e a viverli, in modo da giungere alla conversione del cuore e alla santità di vita, che, insieme alla preghiera per l’unità dei cristiani, sono l’anima di tutto il movimento ecumenico”. Il significato ecumenico della lettura della Bibbia, in un ascolto sia sincronico che diacronico, non è tuttavia ancora ben compreso nella sua ricchezza. Là dove viene praticato emerge un notevole patrimonio spirituale che porta non poco beneficio a tutti. Potremmo applicare anche qui l’espressione del Vaticano II sulla cattolicità come scambio dei doni: «in virtù di questa cattolicità le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e per uno sforzo comune verso la pienezza dell’unità»(LG 13).
La ricchezza di questo ascolto comune – soprattutto quello fatto nell’orizzonte della preghiera – giova alla crescita spirituale di tutti, rende più audaci nel far maturare la comunione già esistente, allontana dalla tentazione di vivere la propria identità in maniera autosufficiente spingendo quindi a non ripiegarsi su se stessi. Attraverso l’ascolto delle Scritture il Signore continua a radunare il suo popolo e farlo crescere nell’amore e nella verità. Quel che Gregorio Magno diceva a proposito della lettura spirituale (“Divina eloquia cum legente crescunt”) si può applicare anche nel campo ecumenico: “l’unità tra i credenti cresce con l’ascolto delle Scritture”. Questa via è tra quelle che maggiormente manifestano l’ecumenismo spirituale che resta il cardine di ogni dialogo ecumenico.
Il dialogo ecumenico sarà senza dubbio più fruttuoso se, concentrandosi spiritualmente sulla Parola di Dio, cederà il primo posto al dialogo di Dio con tutti i cristiani. Su questa strada si supererà più facilmente anche quel malessere che oggi appare qua e là nel dialogo ecumenico. La Parola di Dio ammonisce tutti i cristiani contro ogni chiusura e incoraggia nel cammino dell’unità. Benedetto XVI lo sottolinea con particolare forza: “Non siamo infatti noi a fare o ad organizzare l’unità della Chiesa. La Chiesa non fa se stessa e non vive di se stessa, ma dalla Parola creatrice che viene dalla bocca di Dio. Ascoltare insieme la Parola di Dio, praticare la Lectio Divina della Bibbia, cioè la lettura legata alla preghiera, lasciarsi sorprendere dalla novità, che mai invecchia e mai si esaurisce, della Parola di Dio, superare la nostra sordità per quelle parole che non si accordano con i nostri pregiudizi e le nostre opinioni, ascoltare e studiare nella comunione dei credenti di tutti i tempi: tutto ciò costituisce un cammino da percorrere per raggiungere l’unità della fede, come risposta all’ascolto della Parola”(Oss. Rom. 27 gennaio 2007).
I Padri, che definiscono la Scrittura come il farsi carne del Logos, affermano che la Chiesa vive della Scrittura come dell’Eucarestia: entrambe sono Corpo di Cristo e nutrimento dell’anima. Nell’ascolto della Parola di Dio i cristiani non solo si trovano già sulla via dell’unità, ma ne ricevono un vigore nuovo. E forse l’icona di Emmaus può rappresentare bene il cammino ecumenico: il lungo ascolto porta verso la “frazione del pane”: allora i nostri occhi si apriranno per riconoscere il Risorto. E’ vero che la Lectio non è la panacea per risolvere i problemi ecumenici, ma appare oggi la via privilegiata per raggiungere l’unità visibile dei cristiani. Su di essa dobbiamo affrettare il passo, la Parola infatti per sua stessa natura tende alla comunione piena della mensa eucaristica e all’amore per il prossimo.
Traduzione e diffusione comune della Bibbia
Vorrei sottolineare un ulteriore aspetto che può vedere i cristiani già uniti in un comune impegno: la traduzione e la diffusione della Bibbia. Già nel 1968 vennero redatti i Principi comuni per la collaborazione interconfessionale per la traduzione della Bibbia, aggiornati successivamente nel 1987. Ormai le traduzioni protestanti della Bibbia sono sempre più utilizzate dai cattolici e viceversa. In pochi decenni sono stati realizzati più di 300 progetti in comune. Negli anni ’90 la collaborazione delle Società Bibliche si è estesa alla Chiesa Ortodossa Russa e al Patriarcato Ecumenico di Constantinopoli, raggiungendo così una sempre più effettiva e piena cooperazione in ogni aspetto del lavoro (traduzione, stampa e diffusione della Bibbia). La più importante di queste ini¬ziative comuni è la Traduction oecuménique de la Bible (TOB) frutto del lavoro di biblisti prote¬stanti e cattolici provenienti dall’area di lin¬gua francese. In misura mi¬nore anche la Chiesa ortodossa e biblisti orto¬dossi hanno collaborato a questa impresa. Nel 1972 furono pubblicati il Nuovo Testamento e tre anni più tardi l’Antico Testamento coi libri deuterocanonici, sia nella versione delle Socie¬tà bibliche unite in un unico volume con note abbreviate, sia in una versione integrale più ampia con estese introduzioni e note. Va ricordata la Eineits Ubersetzung, in Germania, anche se ultimamente sono sopraggiunte alcune difficoltà.
In ogni caso le Società Bibliche sono oggi impegnate insieme alle Chiese cristiane in circa 800 progetti di traduzione o revisione della Bibbia nelle lingue di tutto il mondo. E la diffusione riguarda circa 500 milioni di testi biblici ogni anno (Bibbie, Nuovi Testamenti, singoli libri biblici o loro selezioni). Negli anni ’60 si è consolidata una collaborazione specifica tra l’Alleanza Biblica Universale con studiosi cattolici per l’edizione critica del testo greco del Nuovo Testamento, The UBS Greek New Testament. Alcuni cattolici inoltre sono stati invitati a far parte del Comitato responsabile del progetto di analisi dei problemi di critica testuale dell’Antico Testamento in vista di una nuova edizione critica della Biblia Hebraica (la Quinta editio).
Il lavoro sino ad ora svolto è stato preziosissimo. Molto però resta da fare. La Bibbia è stata già tradotta in 2454 lingue diverse (interamente però unicamente in 438, il solo Nuovo Testamento in 1168, e solo alcuni libri, ad esempio i Vangeli o i Salmi, in altre 848); restano ancora altre 4500 lingue in attesa di essere confrontate con le Sante Scritture. Se poi si calcola che le Società Bibliche hanno distribuito nel 2006 circa 26 milioni di Bibbie, vuol dire che si è raggiunto solo l’1% o il 2% dei 2 miliardi di cristiani. Di fronte alla urgenza di diffondere la Bibbia è auspicabile che i due organismi più noti, la Federazione Biblica Cattolica e le Società Bibliche, sebbene siano istituzioni molto diverse, si incontrino sul comune terreno della diffusione delle Bibbie nel mondo. E’ stato significativo un accordo firmato, proprio durante il Sinodo, dalle due Istituzioni per favorire traduzioni e diffusione della Bibbia.
Il dialogo con il popolo ebraico
Un cenno merita anche il dialogo tra la Chiesa cattolica e l’Ebraismo. La recente visita di Benedetto XVI alla Sinagoga di Roma ha voluto rinnovare il rapporto privilegiato dei cristiani con il popolo ebraico, nel ricordo della prima storica visita di Giovanni Paolo II alla Sinagoga. Il richiamo del papa alle Dieci Parole costituisce un’indicazione precisa della natura e degli scopi del dialogo ebraico-cristiano in una prospettiva che pone al centro l’esperienza di una comune lettura, pur con accenti diversi, della prima parte della Bibbia, un patrimonio spirituale di valori che cristiani e ebrei sono chiamati a condividere e a difendere.
Il rapporto con il popolo ebraico assume un significato particolare per il dialogo ecumenico, così come si è venuto configurando nel Vaticano II, dove si giunse alla promulgazione di uno schema sulle religioni non cristiane, con all’interno un capitolo sull’ebraismo, dopo un vivace dibattito che aveva preso le mosse dalla presentazione di un testo sull’ebraismo da inserire nello schema sull’ecumenismo come sosteneva il cardinale Bea. Seppure il testo sull’ebraismo non rimase nel decreto Unitatis redintegratio, dal Vaticano II emerse l’idea che il dialogo ebraico-cristiano dovesse costituire la premessa del dialogo ecumenico proprio per il radicamento di questo sulla Scrittura, su quel Patto eterno di Alleanza che Dio ha stabilito con il popolo ebraico. Si deve quindi procedere a una sempre migliore conoscenza delle tradizioni esegetiche, spirituali, dottrinali, storiche del popolo ebraico anche perché questa conoscenza costituisce una barriera formidabile contro ogni forma di antisemitismo. La memoria storica delle terribili vicende che hanno coinvolto gli ebrei nel corso dei secoli, in particolare nel XX secolo con la drammatica e unica esperienza dello Shoah, aiutano a comprendere le difficoltà del dialogo ebraico-cristiano che ha alle spalle secoli di persecuzioni e di intolleranze.
L’ecumenismo dell’amore e della verità
Per quel che concerne più direttamente l’impegno dei pastori nelle diocesi o nelle parrocchie è determinante irrobustire e allargare la via del dialogo dell’amore e dell’ecumenismo spirituale. Non è una via laterale o parallela a quella del dialogo teologico; al contrario, è l’alveo che la fonda. Se il dialogo della verità è più confacente ai teologi è vero che quello della carità è una via ampia che deve coinvolgere tutti i credenti. Richiede tuttavia, oggi soprattutto, coraggio e creatività. Il patriarca Atenagora, con grande sapienza ecclesiale ed ecumenica, diceva: “Il dialogo propriamente teologico deve nascere all’interno del dialogo d’amore”. La teologia, in questo modo, viene come costretta dall’amore a privilegiare e a sottolineare ciò che ci unisce, come del resto è accaduto nella realizzazione delle numerose Dichiarazioni comuni tra le Chiese, che hanno sgombrato il campo a tanti equivoci. Se l’amore si affievolisce è facile tornare a sottolineare quel che divide. Non che si debba dimenticare ciò che divide; anzi è doveroso chiarirlo. Ma la tensione all’unità è radicata nell’amore cristiano.
Non dobbiamo ovviamente rassegnarci di fronte alla inevitabili difficoltà e neppure scoraggiarci per qualche rallentamento. Qualche anno fa il cardinale Ratzinger diceva: “Ci eravamo illusi troppo, quando credevamo che i colloqui teologici potessero in un tempo più o meno breve restaurare l’unità della fede. Ci eravamo persi per strada, mettendoci in testa che un tale scopo potesse essere raggiungibile una volta per tutte in un tempo prefissato. Per un lungo tratto di cammino avevamo scambiato la teologia con la politica, il dialogo sulla fede con la diplomazia. Volevamo fare noi stessi ciò che solo Dio può fare”(J.Ratzinger, Vi ho chiamati amici, Cinisello Balsamo 2006, p.74). Non era ovviamente intenzione del cardinale bloccare tale impegno, tutt’altro. Ma con altrettanta decisione affermava che i cristiani dovevano intraprendere la via dell’amore come ricerca della fede: “Dovremmo finalmente sottometterci sempre al criterio dell’amore di Dio e del prossimo e cercare di venire incontro, a partire da esso, alle grandi sfide del nostro tempo… La fede deve essere un’educazione costante all’amore, al timore reverenziale di fronte alla fede dell’altro, alla tolleranza, alla collaborazione nella diversità, alla rinuncia, alla disponibilità attiva per la pace. La fede deve essere esercitata e vissuta come una simile pratica del bene… Più importante di tutti i fini immediati di politica ecclesiale è la maturazione quotidiana di ciò che è essenziale: di una fede che opera per mezzo dell’amore”(p. 77).
E’ una convinzione che Ratzinger ha ripetuto da Papa: “Ciò che, comunque, va innanzitutto promosso, è l’ecumenismo dell’amore, che discende direttamente dal comandamento nuovo lasciato da Gesù ai discepoli. L’amore accompagnato da gesti coerenti crea fiducia, fa aprire i cuori e gli occhi. Il dialogo della carità per sua natura promuove e illumina il dialogo della verità.: è infatti nella piena verità infatti che si avrà l’incontro definitivo e cui conduce lo Spirito di Cristo”(Oss. Rom. 18, feb.2006). L’invito a proseguire il cammino ecumenico coincide con l’esortazione a vivere in profondità la propria fede, senza mai staccare lo sguardo dal Signore e camminando con amore accanto ai fratelli. Il calore dell’amore spingerà i fratelli a bruciare le inadempienze e i limiti della storia a scoprire con maggiore profondità la verità della comunione in Gesù Cristo.
Il Papa concludeva con il racconto dell’Anticristo di Solov’ev: “Nell’istante dell’ultima decisione si vede che in tutte e tre le comunità – quella di Pietro, di Paolo e di Giovanni – vivono dei sostenitori dell’Anticristo, che fanno sottilmente il suo gioco e sono a lui sottomessi; allo stesso modo, però, si vede come in tutte e tre le comunità siano presenti dei veri cristiani, che mantengono la fedeltà al Signore fino all’ora del Suo ritorno. Dinanzi a Cristo i separati si riconoscono intorno a Pietro, Paolo e Giovanni; i veri cristiani, che erano divisi, si riconoscono ora come da sempre uniti, mentre al contrario, la schiera dell’Anticristo, viene convinta e travolta dalla sua menzogna. Alla luce del Redentore si rivela chi erano e sono gli uni come gli altri”(Ivi, p. 7-78). Non si tratta però di spostare alla fine dei tempi questa visione, concludeva il cardinale. Essa va vissuta oggi. E terminava: “L’ecumenismo non è altro che vivere già ora nella luce escatologica, nella luce del Cristo che torna… In cammino verso di Lui, noi siamo in cammino verso l’unità”.
Ecco perché l’ecumenismo, mentre tiene saldo lo sguardo sulla verità, deve accelerare il passo sulla via dell’amore. L’amore evangelico, in certo modo, fa vivere l’unità in anticipo, malgrado le imperfezioni e le diversità. E nell’amore c’è già la dimensione teologica della comunione. Un amore che non sia una parola vuota, ma amicizia fatta di rapporti personali, di fedeltà, di interesse e di attenzione per l’altro, di memoria anche dei problemi altrui, di conoscenza delle vicende altrui, e anche di perdono vicendevole. Quest’amicizia fa superare le divisioni, fa svanire i pregiudizi, brucia l’ignoranza e mette in comunicazione l’uno con l’altro. Essa permette la preghiera comune senza che si abbiano fughe in avanti. Sì, l’amore permette e rafforza l’ecumenismo della preghiera. Se è salda nell’amicizia, la pazienza che sa attendere è un grande valore.
È in questo orizzonte che i vescovi sono interpellati in prima persona perché favoriscano nelle rispettive diocesi e nelle parrocchie la nascita e la crescita di questa nuova amicizia con i cristiani delle altre Chiese e Confessioni cristiane. È quanto mai opportuno – ad esempio – tessere legami fraterni con vescovi e diocesi non cattoliche, favorendo incontri, scambi, pellegrinaggi, preghiere comuni. Vorrei dire che è oggi indispensabile un ecumenismo di popolo, se così possiamo dire. E questo è possibile unicamente all’interno di questo orizzonte di amore e di preghiera. E’ urgente che cresca nei fedeli la coscienza della fraternità tra tutti i cristiani. Non dimentichiamo che uno dei motivi del fallimento del Concilio di Firenze fu la mancata ricezione tra il popolo ortodosso delle decisioni prese dai loro metropoliti. C’è bisogno della crescita di una fraternità ampia nei fedeli delle diverse tradizioni cristiane per un ecumenismo che coinvolga le comunità cristiane.
E questo è il vasto campo affidato a noi vescovi. Per mia esperienza personale ho potuto toccare con mano l’incredibile ricchezza che si acquisisce negli incontri tra vescovi di diverse Chiese e Confessioni cristiane. Grazie a Dio, non mancano esempi positivi di relazioni in questo senso. Come pure sono numerosi i gruppi e i movimenti in tutte le Chiese che vivono questa amicizia: essi si legano alla Bibbia e alla tradizione antica della Chiesa, sostengono i valori cristiani e si sforzano a vivere il Vangelo e – senza abbandonare nulla della propria tradizione – stringono reti di comunione e di amicizia che traversano le diversi confessioni senza per questo cadere in una sorta di sincretismo ecumenico. Un esempio singolare è rappresentato dall’esperienza di Taizé, ma anche dagli incontri ecumenici promossi da comunità cattoliche, come i Focolarini, Sant’Egidio, Bose e altre ancora. Sta crescendo insomma un ecumenismo dell’amore che traccia una via provvidenziale per la crescita della comprensione e della stima reciproca. Come si può intuire non è una via astratta, soggettiva o privata, essa prende avvio da cuori che si stringono attorno al Signore Gesù e con lui pregano il Padre perché i cristiani siano “una cosa sola”.
L’esempio dei martiri mostra l’efficacia della via dell’amore anche nel campo ecumenico. L’enciclica Ut unum sint, che si apre con il richiamo ai martiri del Novecento, afferma che in essi l’unità è già perfetta. La loro testimonianza è un tesoro preziosissimo per la vita spirituale ed ecumenica di tutti. Non si tratta infatti di “eroi” solitari, bensì di una massa di uomini e di donne, appartenenti a tutte le confessioni cristiane, che nel corso dell’ultimo secolo hanno testimoniato la fede cristiana sino all’effusione del sangue. Il loro sangue è una scuola di amore e di unità per tutte le Chiese. E’ un segno in più di quel che già ci unisce. E il martirio dei cristiani è continuato anche in questo primo decennio del nuovo millennio. Si tratta di cattolici, faccio l’esempio del vescovo mons. Padovese, del sacerdote romano don Santoro, oppure dei protestanti membri delle Società Bibliche uccisi in Turchia e a Gaza, o dei 18 uccisi nel Kashmir, e tanti altri ancora in Iraq, in India. Ebbene, far emergere questi tesori di unità e gustarli assieme con maggiore frequenza e visibilità è la via perché l’ecumenismo tocchi anche il cuore della gente e si allarghi in quella fraternità ch’è patrimonio di tutti. Roberto Angeli, un prete italiano finito nel lager nazista per aver aiutato gli ebrei, scriveva: “Nella baracca 26 di Dachau, in mezzo a preti cattolici di ogni paese, pastori protestanti, pope ortodossi, tutti sacerdoti allo stato puro – senza poteri, né orpelli, né privilegi – rosi dalla fame e dal freddo, torturati dai pidocchi e dalla paura, senza più nessuna dignità oltre quella invisibile del sacerdozio, imparammo a scoprire l’essenza della vita e della fede”. I martiri, coloro che danno la vita per amore, sono una efficace scuola per affrettare l’unità dei cristiani.
Mons.Vincenzo Paglia
Vescovo di Terni-Narni-Amelia
Presidente della Federazione Biblica Cattolica