“La felicità alla luce del Vangelo”

Intervento al convegno nazionale delle Acli


Parlare della felicità non è né consueto, né usuale e, tuttavia, è essenziale, perché la felicità è ciò che tutti desiderano, ma è molto difficile incontrarla in questo tempo. In molti Paesi del “terzo mondo” ci sono guerre, fame e morte; nel mondo occidentale, invece, ci sono tranquillanti, eutanasia, suicidio; c’è, insomma, la strana ricerca di una felicità sbagliata. Per questo io credo che le Acli, mettendo nel cuore della riflessione questo tema, ci svegliano, cosicché nessuno di noi possa dire di non sapere. In un momento in cui a Brescia ci sono in pochi giorni otto morti per violenza nessuno può dire: “Io non c’ero”.


Credo che nessuno possa essere felice se chiude gli occhi e si tappa  le orecchie, se alza muri e blocca frontiere. Non è possibile essere felici da soli; parlare oggi di “stato di felicità” è penoso e potremmo arrivare a parlare di “declino della felicità”. In effetti ce n’è poca in giro, come sono rare le passioni, le utopie, gli slanci, i sogni. Se penso ai grandi ideali dell’egualitarismo e della solidarietà che un tempo muovevano le folle, oggi sono guardati con sospetto e ritenuti persino pericolosi. L’individualismo, espressione un tempo demonizzata sia dagli ambienti cattolici che in quelli socialisti, esprime invece oggi comportamenti comuni e consolidati.


C’è una sfasatura nel senso della felicità perché oggi essa è intesa come una vita ricca e  tranquilla, ove è bandito lo spazio mentale per l’altro e per tutto quello che va oltre se stessi e le proprie preoccupazioni. Insomma, la felicità è pensare a sé, e per di più farlo in tono mediocre. Qualsiasi altra idea di felicità che non sia benessere per sé oppure una vita tranquilla, fa paura. Ecco perché si fugge dalla felicità. Per questo motivo ritengo opportuno e lungimirante un convegno su questo tema: bisogna riflettere su un argomento così decisivo per la vita personale e collettiva perché noi non possiamo fuggire. A noi cristiani è data un’eredità che il mondo non ha, quella, appunto, dell’amore che è l’unica via della felicità. C’è un obbligo morale per noi cristiani: dare al mondo quella eredità che abbiamo avuto per grazia e che non possiamo tenere nascosta.


 


La felicità evangelica è qualcosa che il mondo non ha come non l’avremmo avuta noi se non l’avessimo ricevuta, la felicità evangelica è un dono di Dio. Anche nel primo testamento era un dono: la terra dove scorrevano latte e miele è stata donata agli ebrei da Dio. All’ingresso della terra di Canaan fu scritto “Amerai il prossimo tuoi come te stesso”  perché in origine la terra era stata divisa fra tutte le famiglie, nella stessa quantità, così che nessuno ne rimanesse privo, questo era il senso di una felicità completa. La felicità nel primo testamento, quindi, veniva sempre proiettata dai profeti nel futuro, nei giorni ultimi in quel Regno che divenne il cuore della predicazione di Gesù, un Regno donato da Dio in cui pace, giustizia e amore erano di casa. Per Gesù, però, il Regno, la felicità, non era proiettato alla fine, all’avvenire: “Il Regno di Dio è in mezzo a voi” dice Gesù. Lo è in maniera dialettica, in una lotta costante contro il male come fu per Gesù, ma pace, giustizia e felicità non erano nell’”escatologia”.


Quando Gesù venne portò uno “sconquasso” che stupì il Battista, il quale mandò i discepoli davanti a Gesù per chiedergli: “Sei tu quello che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” Ed Egli rispose: “Dite ciò che avete visto: i ciechi vedono, gli storpi camminano, ai poveri è stato annunciato un anno di grazia”. Nei Vangeli è scritto che ovunque Gesù andasse si creava intorno a lui un clima di festa, di felicità che non aveva nulla di escatologico, ma era un clima reale per chi lo aspettava davvero, poveri, deboli, malati, peccatori.


 


Secondo il Vangelo, il manifesto della felicità sono le “Beatitudini”. In esse Gesù propone un’idea di felicità che contrasta con quella corrente di ieri e di oggi. Cosa vuol dire, che i poveri sono beati? Gesù vuol forse intendere che se uno è povero, malato, perseguitato, è felice? No, i poveri sono felici non perché poveri, ma perché finalmente non sono più abbandonati: il Figlio stesso di Dio è sceso sulla terra per essere loro vicino e per liberarli dalla povertà e dall’oppressione: Dio ha scelto di essere accanto a loro. Per ciascuno di loro era arrivato un amico che li liberava e per questo erano felici.


La beatitudine evangelica è una forza che ci possiede, è il Cielo che scende sulla terra, che invade la nostra vita. È un’energia che cresce e ci coinvolge, che tormenta e rende inquieti. La beatitudine evangelica fa impazzire gli psicologi, rovescia i valori terreni, è il contrario del benessere individuale, della filautìa, l’amore per sé stessi. La felicità evangelica non è pensabile sulla misura individuale, è una sorta di estasi, un uscire da sé verso l’Altro e verso gli altri. Ề il modo di essere felice di Dio e la felicità è l’essere stesso di Dio. Egli, perfettissimo, è sceso sulla terra perché “era triste”, aveva bisogno della compagnia umana per essere felice perché la sua gioia è rendere felici noi, questa è la felicità evangelica, quella eredità che il mondo non ha.


Dio non è una monade isolata in alto, felice della sua potenza, la sua felicità è sulla croce, è con Gesù che passa il suo tempo con gli ultimi e non con Erode. Questa è la felicità che non conosce neanche la reciprocità: il Verbo ha lasciato il cielo per renderci felici, anche a costo di avere la porta sbattuta in faccia, come avvenne quella notte a Betlemme e, 33 anni dopo, di essere crocifisso fuori di Gerusalemme. Questa è la via della felicità.


E’ un linguaggio duro potremmo fare come quei discepoli a Cafarnao che, quando Lui parlò di sé stesso come di pane che si dava, dissero: “Questo linguaggio è duro, chi può comprenderlo?”. Pietro, rapito da Gesù, rispose per tutti: “Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna”, cioè di felicità.


Il Vangelo è l’unico modo per ritrovare la strada verso l’utopia dell’amore; le beatitudini ne sono il manifesto e ci fanno comprendere che la “buona notizia” che noi cristiani dobbiamo dare al mondo è quella di scegliere di amare Dio e gli ultimi; anzi, questa è la via che è scritta dentro di noi, “nei nostri cromosomi”, qualunque altra via non rende l’uomo felice.


Quando Dio creò l’uomo, il punto più alto della sua opera, guardandolo disse: “Non è bene che l’uomo sia solo”. Come a dire che da soli non si può essere felici. Non è bene che l’uomo sia solo perché la felicità sta solo nella compagnia di chi è simile a noi: questa è la via della felicità che il mondo oggi sembra aver smarrito.


La felicità è legata al rapporto con Dio, ad un rapporto di fiducia, di fede. Questa convinzione faceva dire ad un monaco ortodosso. “Chi non ha fede, non ha felicità”. Non voleva certo escludere dalla felicità chi non crede. Anche il non credente può trovare la felicità, ma sicuramente non nel ripiegamento su se stesso e sui propri affari. La felicità, anche nel campo della non credenza, è possibile solo nel rapporto gratuito con gli altri, a partire dai più poveri; chi si mette sulla strada dell’amore, anche non credente, trova come sua compagna la felicità.


Potremmo applicare anche alla felicità quel che il Vangelo di Matteo, al capitolo 25, attribuisce alla carità, quando Gesù dice al termine dell’esistenza del non credente che si presenta di fronte al suo tribunale: “Venite benedetti dal Padre, ricevete in eredità il Regno promesso per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare”.


Ề sulla via dell’amore – che è una via larga, mai scontata o banale – che si incontra la felicità. Nell’amore si incontrano tutti coloro che scelgono, pur appartenendo a fedi e culture diverse, di amare gli altri prima di se stessi. Ề l’unica via della felicità piena e duratura.


 


Voglio concludere con un’ultima riflessione: la felicità non sta nel ricevere, ma nel dare.


Lo disse Gesù, anche se i Vangeli non lo riportano. Fu Paolo a riportarlo quando prima di lasciare gli anziani della comunità di Efeso li raccolse e disse così: “Voi sapete che nelle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù che disse: vi è più gioia nel dare che nel ricevere!” (At 20,35). Paolo ricorda agli anziani il suo rapporto personale con i poveri: li aiutava con il lavoro delle sue mani. Il verbo “sostenere” significa “prendersi cura”, così come il samaritano si prese cura dell’uomo mezzo morto abbandonato sulla via che da Gerusalemme scende verso Gerico. L’apostolo vuole sottolineare la responsabilità che ciascun credente deve avere verso i poveri e i deboli.


Chi immaginava che il prefetto del Santo Ufficio, divenuto Papa, non mettesse anzitutto i puntini sulle “i” sulle questioni teologiche? Quale è stata la prima parola di Benedetto XVI? L’Amore. Dio è amore, e ha toccato il cuore della felicità e non smette di dire: “La Chiesa presenti al mondo un Dio che ama, presenti un Dio dal volto umano e la Chiesa sappia amare”.


Questa è la nostra felicità, in questo senso è beato chi dà, non chi riceve, e per questo la Didachè scrive riecheggiando il testo di Paolo: “Dà a chiunque ti chieda, e non pretendere la restituzione. Infatti, il Padre vuole che i suoi doni vengano dati a tutti. Beato chi dà, secondo il precetto, perché costui è incensurabile”. E aggiunge: “Guai a chi riceve! Se accetta per bisogno è senza colpa, ma se non è bisognoso, verrà punito sia per il motivo che per lo scopo per i quali ha accettato”. Ề un invito a comprendere che la felicità senza i poveri non esiste, perché la nostra felicità è strettamente legata alla loro.


Le parole di Gesù riportate da Paolo sono una sfida che noi cristiani dobbiamo raccogliere. Si tratta di vivere e quindi di mostrare nei nostri volti, nei nostri comportamenti che c’è più gioia nel dare che nel ricevere. Il giovane ricco del Vangelo se ne andò triste perché non volle dare quel che aveva. Francesco d’Assisi raggiunse la perfetta letizia quando comprese l’amore. L’amore cristiano non è una virtù, è una forza interiore, un’energia spirituale che cambia il cuore di chi l’accoglie e riesce a trasformare il mondo: rompe infatti ogni barriera, avvicina i lontani, accomuna gli estranei, rende familiari i nemici, valica abissi insuperabili, entra nella pieghe e nelle piaghe più nascoste della società e cerca di lenirle e curarle con attenzione. Per sua natura l’amore cristiano è profetico; compie anche miracoli; non ha limiti; è per l’impossibile. L’amore è un modo di concepire la vita e di viverla. Una Chiesa che non conosce limiti all’amore, cristiani che non conoscono nemici da combattere ma solo uomini e donne da amare, è ciò di cui il mondo ha bisogno. È la nostra felicità.


Lo riconobbe Francesco d’Assisi quando vinse la repulsione di abbracciare il lebbroso. Appena lo vide, come era normale, fu tentato di scansarlo. Ma quell’energia di amore che gli aveva invaso il cuore lo spinse a scendere da cavallo, ad avvicinarsi al lebbroso e a baciarlo e abbracciarlo. Scriverà più tardi nel testamento: “Ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di anima e di corpo”. Quel gesto gli aveva cambiato il gusto della vita. Scrivono le Fonti: “Pieno di gioia e di ammirazione, poco tempo dopo volle ripetere quel gesto”. Stando con i lebbrosi aveva finalmente trovato quella felicità che non gli dava la vita precedente.


  


*Intervento non rivisto dall’autore

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