La Carta dei diritti della famiglia – Lettura e commento

I trenta anni che sono passati dalla pubblicazione a cura del Pontificio Consiglio per la Famiglia della Carta dei diritti della famiglia non ne hanno affievolito l’attualità. Anzi, è facile rilevare, da parte di chiunque legga la Carta attentamente, che tutte le indicazioni che sono presenti in essa, nessuna esclusa, mantengono una forte, duplice valenza: quella di una descrizione dell’identità della famiglia (affidata al Preambolo) estremamente corretta e quella di un’altrettanto corretta (e condivisibile) esortazione (ai governi, agli Stati, alle società civili, alle Organizzazioni internazionali, alle famiglie stesse e last but non least a tutti gli uomini e a tutte le donne di buona volontà) perché l’impegno per la tutela e la promozione della famiglia siano potenziato e non venga mai meno (esortazione che costituisce il filo rosso dei dodici, densi articoli della Carta stessa). Un documento attuale, quindi, che è doveroso leggere e rileggere e di cui è ancor più doveroso diffondere la conoscenza.

Che la Carta dei diritti della famiglia appartenga al novero dei più bei documenti di respiro internazionale degli ultimi decenni è quindi fuori questione. E’ un bel documento. Potremmo anche considerarlo  un documento rassicurante, proprio per la sua perdurante attualità, per la forza con cui ribadisce verità condivise fino al limite dell’auto-evidenza e proprio per l’impegno con cui reitera esortazioni di cui non si può minimizzare la rilevanza? Ci piacerebbe rispondere affermativamente a questa domanda, ma non è possibile. Riletta oggi, la Carta non è un documento rassicurante, ma è un documento inquietante. Questa è la vera ragione per la quale è utile rileggerla e tornare a riflettere su di essa: non è un documento da archiviare e da affidare alle letture degli storici; è un testo che, al di là della serena pacatezza delle sue affermazioni e delle sue indicazioni, ci provoca.

Dunque documento inquietante? Dunque un documento provocatorio?  Sì, perché la sua lettura ci impone di prendere atto che in questi ultimi trent’anni è ampiamente mutata la sensibilità collettiva, quella delle persone, delle società, dei governi. Chi ha occhi per vedere e orecchie per ascoltare non può non rendersi conto che, nel contesto di un’accelerazione della storia senza eguali, siamo divenuti testimoni del manifestarsi di una duplice frenesia, che vede al suo centro proprio la famiglia, cioè l’istituzione comunemente ritenuta la più solida e la più stabile e che la scuote dalle fondamenta, da una parte riconfermandola nel suo valore, ma dall’altra alterandola nella sua identità. Una duplice frenesia, cioè una dinamica culturale francamente paradossale, che lascia sconcertati e in merito alla quale ancora non abbiamo elaborato tutte le dovute riflessioni.

Da una parte è facile rilevare che, grazie al dilatarsi di quella che nel Preambolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo venne a suo tempo correttamente definita come una vera e propria fede nei diritti umani, la famiglia negli ultimi anni ha ottenuto in tutto il mondo il riconoscimento che le è dovuto (il che è il presupposto indispensabile per l’impegno contro tutte le torsioni e le deformazioni che continuano a tormentarla). Ed infatti il dibattito sull’identità della famiglia e sulla sua dignità appare, da un punto di vista teoretico e dottrinale, sostanzialmente concluso. I principi indicati nel Preambolo della Carta dei diritti della Famiglia non trovano più dottrinalmente confutazione alcuna (se non su punti marginali, sui quali è opportuno continuare a impegnarsi, ma il cui mancato riconoscimento non incrina la considerazione appena fatta) e, cosa ancor più significativa, essi sembrano essersi definitivamente incarnati in tutte le culture interculturali che caratterizzano il mondo contemporaneo. I fenomeni migratori, di cui abbiamo tutti una forte percezione, ma di cui solo pochi sono in grado di valutare l’ampiezza e la profondità, hanno contribuito, anche e soprattutto grazie alla costituzione di nuove famiglie inter-etniche, alla formazione di quel fenomeno che è stato efficacemente qualificato come meticciato culturale  (un’ espressione, questa,che può suonare gradevole così come sgradevole, ma che certamente è molto efficace per descrivere e nello stesso tempo avvalorare una delle dinamiche più significative del mondo di oggi come mondo globalizzato).

Queste rasserenanti osservazioni colgono però solo un aspetto della realtà in cui viviamo. Se infatti a livello dottrinale il concetto di famiglia presentato e difeso nella Carta appare inoppugnabile, se a livello di esperienza vissuta la famiglia si rivela dotata di una incredibile vivacità  e solidità inter-culturale, a livello sociologico le cose sembrano andare ben diversamente: la famiglia, come dinamica sociale, appare sempre più sfocata e, per dir così, appannata. Si osservi: non è l’idea della famiglia che entra in crisi, ma l’idea della sua necessarietà sociale. E’ passato il tempo in cui la famiglia veniva messa sul banco degli imputati e in cui si ipotizzava una rivoluzione capace di scuotere, oltre che l’assetto economico e pubblico, anche quello privato del vivere umano. La famiglia non viene più oggi né confutata, né negata: la scandalosa (un tempo) esclamazione di André Gide, contenuta nelle Nourritures Terrestres (del lontano 1897), Familles, je vous hais! appare incredibilmente lontana dalla nostra sensibilità. La contemporaneità, quella che si è venuta cristallizzando negli ultimi decenni, ci obbliga a percepire un fenomeno nuovo e diverso: senza che la famiglia venga negata, e nemmeno confutata, si accetta che accanto ad essa emergano forme di vita e di esperienza relazionale che sono apparentemente compatibili con essa, ma che nella realtà delle cose la scardinano. Uno degli atteggiamenti più tipici del tempo in cui viviamo, quello non solo della tolleranza, ma del riconoscimento della legittimità di ogni stile di vita, ci sta portando a modellare il vivere sociale secondo paradigmi caratterizzati da un individualismo che non ha solo natura psicologica (fenomeno questo proprio di ogni tempo e ordinariamente designato col termine di egoismo), ma ha inedite ricadute socio-relazionali. Ciò che si sta appannando è la percezione che nella logica della durata, che qualifica in modo così forte l’esperienza umana, i vincoli familiari non sono riducibili al prodotto di una scelta di vita, ma costituiscono al contrario il presupposto di ogni scelta dotata di senso.

Se rileggiamo la Carta dei diritti della famiglia sotto questa angolatura, essa, sottolineando verità di principio a cui non corrispondono più (se non in parte) pratiche ad esse coerenti, ci fornisce un aiuto prezioso a capire i paradossi che caratterizzano il mondo di oggi. Il Preambolo della Carta da questo punto di vista è particolarmente prezioso: ad ogni suo punto sembra corrispondere, nella prassi, un punto simmetricamente alternativo. Il punto A rileva come i diritti dell’individuo abbiano una fondamentale dimensione sociale: l’individualismo contemporaneo, però, non riesce più a cogliere questo punto, perché non riuscendo a riconoscere oggettività alle dimensioni sociali in cui si manifesta l’umanità dell’uomo (come appunto è il caso della famiglia), le vede come il prodotto artificiale di scelte private, eventuali e insindacabili.  La nitida affermazione del punto B, che vede nel matrimonio un’unione intima di vita nella complementarietà tra un uomo e una donna, appare oggi sfocata, a seguito della martellante riproposizione delle diverse forme dell’ideologia del gender, che sostengono (contro ogni buon senso) il primato della scelta soggettiva del genere nei confronti dell’oggettività della sessualità biologica. Che il matrimonio (punto C del Preambolo) costituisca l’istituzione naturale alla quale è affidata in maniera esclusiva la missione di trasmettere la vita è diventata anch’essa un’osservazione problematica, non perché gli Stati e gli ordinamenti abbiano deciso di degiuridicizzare i vincoli coniugali, ma perché essi si sono rivelati assolutamente disposti a riconoscere un valore assolutamente pari alla generatività coniugale e a quella extra-coniugale (senza considerare come la migliore tutela dei diritti dei figli esiga invece il riconoscimento dei primato della prima sulla seconda). Potremmo continuare, analizzando in maniera similare tutti gli ulteriori punti del Preambolo, fino alla fine, fino alla lettera M.

Dobbiamo comprendere che quello della famiglia, oggi, non può essere posto come un problema dottrinale, né tanto meno come un problema accademico. Non è la teoria della famiglia quella che oggi merita di essere oggetto di dibattito; anzi, è percezione abbastanza diffusa quella per la quale discutere oggi di famiglia è divenuto pressoché impossibile, a fronte del vuoto argomentativo che occupa ogni riferimento ad essa. Ciò che è in gioco non è il pensato e nemmeno il pensabile in tema di famiglia: è piuttosto il vissuto o, per meglio dire, il vivibile: è la stessa esperienza che rende umana la nostra vita quotidiana. Dominata dalla logica della funzionalità, in particolare tecnologica (che in sé e per sé non è affatto da condannare, perché è anzi il frutto dell’uso ottimale della ragione umana) l’esperienza contemporanea si sta assuefacendo all’idea che quello della vita privata, quello degli affetti, quello delle convivenze, l’ordine in una sola espressione riassuntiva della nuda vita, come è stato efficacemente definito, non sia un ordine oggettivo, ma il mero frutto di scelte occasionali, singole, che possono essere esibite, ma non possono essere giustificate e a cui non ha senso attribuire vincoli o responsabilità. E’ per questo che le alternative alla famiglia non vengono presentate come conflittuali rispetto ad essa, ma come semplicemente addizionali o integrative. Esse pretendono di rappresentare un di più, non un altro. Ma, comunque si vogliano vedere le cose, è un di più corrosivo: corrosivo a livello di senso comune, di psicologia sociale e della stessa auto interpretazione dell’uomo. Una corrosività della quale stiamo in questi ultimi tempi prendendo forzosamente atto, grazie ai dibattiti e alle polemiche in merito all’ omoparentalità e alla stessa impossibilità linguistica di denominare queste nuove forme di genitorialità omosessuale e multipla che stanno facendo pressione, in molti paesi, per accedere a un pieno riconoscimento legale. Un riconoscimento che viene sempre più di frequente concesso (senza parlare della vecchia Europa, ormai un decimo degli stati degli USA riconoscono i matrimoni omosessuali) nella piena inconsapevolezza che la posta in gioco non è il dilatarsi dei diritti umani (come si continua a ripetere), ma il fondamento della titolarità dei diritti umani, cioè quella stessa identità della persona, che solo nella famiglia trova le sue radici.

L’uomo è un animale familiare: è solo nella famiglia che egli costruisce la sua identità psicologica, linguistica, morale, culturale, relazionale, sociale. Per assolvere a questo suo compito costitutivo, di formazione delle singole identità personali nel contesto delle generazioni, la famiglia ha bisogno di essere a sua volta riconosciuta nella sua identità.  La Carta, nel Preambolo, al punto E, la definisce comunità di amore e di solidarietà. Amore e solidarietà sono esperienze umane primarie, personalissime, ma non riducibili a esperienze soggettive, inafferrabili e insindacabili. Amore e solidarietà ci provocano, perché mettono in gioco la nostra responsabilità. E la responsabilità è un vincolo interpersonale, cui nessuno può arbitrariamente e unilateralmente rinunciare o abdicare. Per questo la famiglia ha diritti fondamentali e, sempre per questo, i singoli hanno nei confronti della famiglia doveri irrinunciabili. La duplice frenesia che tormenta il mondo d’oggi si illude di poter declinare amore e solidarietà in una piena polivalenza di forme; si illude di poter trasformare il politeismo etico, che secondo Max Weber sarebbe il contrassegno della modernità, in un polimorfismo familiare. Non è possibile. Un’attenta e rigorosa rilettura della Carta dei diritti della famiglia ci può aiutare a percepire nello stesso tempo lo scollamento che caratterizza la rivendicazione odierna dei diritti umani tra vincolo e arbitrio e la profonda esigenza di superare tale scollamento, attraverso una riflessione onesta ed austera. Lasciamoci provocare e lasciamoci inquietare da questa Carta: il beneficio che possiamo trarre dalla sua lettura ci darà un adeguato compenso psicologico, morale,  culturale e religioso.