Bisogno di famiglia

Il coraggio della speranza – religione e culture in dialogo
Intervento al Panel  del Teatro del Collegio Urbano, lunedì 30 settembre

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Una cultura individualista

La famiglia si trova in una situazione paradossale: da una parte si attribuisce un grande valore ai legami familiari, sino a farne la chiave della felicità. In effetti, la gran parte delle persone in età da matrimonio spera di avere la stessa donna o lo stesso uomo per tutta la vita. Dall’altra vediamo che le rotture coniugali sono sempre più frequenti sino a pensare che impossibile immaginare una famiglia che continui nel tempo. In ogni caso, la cultura non sostiene la famiglia come un ideale possibile. Di qui molti dei problemi che pongono in crisi sia il matrimonio che la famiglia. L’orizzonte nel quale si iscrive questa crisi è quella che un filoso francese, Gilles Lipovetsky, chiama “seconda rivoluzione individualista”, nel senso che l’esaltazione dell’ “io” giunge a piegare anche la società. Questo processo, Giuseppe De Rita, socilogo italiano, lo chiama “egolatria”, culto dell’io. Ciascuno è spinto a vivere per sé, alla realizzazione di sé, al raggiungimento del proprio benessere individuale, a considerare l’altro (la famiglia, la società…) come uno strumento per raggiungere tale fine.

Insomma, l’io prevale sul noi e l’individuo sulla società e sulla famiglia. Si preferisce così la coabitazione al matrimonio, l’indipendenza individuale alla dipendenza reciproca. In una sorta di ribaltamento, si potrebbe dire: la famiglia più che “cellula base della società” diviene “cellula base per l’individuo”. L’altro è pensato in funzione di sé: ciascuno cerca la propria individuale realizzazione e non la creazione di un “noi”, di un “soggetto plurale” che trascende le individualità senza ovviamente annullarle, anzi rendendole più autentiche, libere e re-sponsabili.

E’ ovvio che in un contesto come questo, la famiglia così come è stata concepita per secoli, non trovi più un orizzonte nel quale iscriversi. Ma non solo la famiglia viene indebolita. Si indebolisce anche la stessa società: ovunque nel mondo quel che prevale non l’impegno a “stare insieme” ma l’evitarsi e lo stare separati. In effetti, sono in crisi le tante forme comunitarie conosciute siano ad oggi, dagli storici partiti di massa alla città intesa come communitas, alla famiglia stessa intesa come dimensione associata di esistenza.

E fa pensare che, in Europa almeno, assistiamo ad una crescita senza precedenti delle cosiddette famiglie “unipersonali”. In Italia – per fare un solo esempio – queste “famiglie” sono passate da 5,2 milioni nel 2001 a  7,2 milioni tra il 2001 e il 2011. La diminuzione dei matrimoni religiosi e di quelli civili non si è trasferita nella formazione di altre forme di convivenza, ma soprattutto nella crescita di persone che scelgono di stare da sole. Qualsiasi legame impegnativo – come quello richiesto dal matrimonio, ma non solo -, viene sentito poco sopportabile. Il rischio è una società non solo de-familiarizzata ma soprattutto individualizzata, fatta cioè di persone sole che, se si uniscono, è per il tempo che dura. E comunque il bene comune non è più l’opzione fondamentale. E’ la deriva amara di una cultura individualista.

Bisogno di comunione

Tale dittatura dell’individualismo – che fa saltare affetti, legami e responsabilità -, non fa bene a nessuno; al contrario, scava abissi di dolore in coloro che si separano, si allontanano, si combattono. Un dolore che coinvolge soprattutto i più deboli, nelle famiglie e nelle società. Quando gli studiosi parlano di “società liquida” intendono fotografare una società segnata dalla incertezza strutturale dei rapporti. Non ci si può fidare più di nessuno. I rapporti stabili sono ritenuti impossibili e quindi inutile cercarli. E se nel profondo dell’animo umano c’è quel desiderio di stabilità, viene falciato non appena esce allo scoperto. La cultura dominante non lo sostiene, anzi lo contrasta, lo ricaccia indietro.

Tuttavia, la ricerca di legami affettivi forti, che durano nel tempo e capaci di aiutare nelle vicende difficili della vita, continua a essere un’aspirazione di tutti, consapevoli, magari senza volerlo ammettere, che l’utopia dell’essere umano dignitoso in quanto autonomo non è fondata sulla realtà della vita. Del resto, nessuno di noi sarebbe qui se  avesse dovuto far conto solo sulla sua autonomia: questa è una realtà che – nel campo familiare – soprattutto le donne che crescono i bambini conoscono molto bene. Quando perciò la cultura contemporanea prospetta l’obiettivo dell’autonomia assoluta dell’individuo, inganna perché prospetta un obiettivo che è completamente irreale, e non prepara gli esseri umani ad affrontare le fatiche e i sacrifici che richiede un rapporto duraturo e vero fra esseri umani. Ovviamente non è in questione la conquista della soggettività e la valorizzazione delle scelte consapevoli che ciascuno è chiamato a fare. Ma chiunque guarda un po’ più in profondità la società individualizzata nella quale tutti viviamo si rende conto degli abissi di dolore e di solitudini. Del resto non può che essere così, visto che l’uomo e la donna sono fatti per la comunione, non per la solitudine.

Per i credenti delle tre religioni abramitiche il testo della creazione è illuminante. Nella Bibbia si trovano due racconti della creazione dell’uomo e della donna. Nel secondo (2, 18), Dio, dopo aver creato l’uomo, si rese conto che mancava qualcosa a quel capolavoro, tanto da dire: “Non è bene che l’uomo sia solo”. E Dio intervenne per creare la donna, una compagnia “che gli fosse simile”. E’ a dire che la vocazione profonda dell’uomo non è la solitudine, ma la comunione. Tanto che, si potrebbe dire in maniera paradossale, lo stesso Dio non basta all’uomo, se è solo. In altri termini possiamo dire che davanti a Dio si può stare solo dentro un “noi” e non da soli. Nel primo racconto (1, 27) si sottolinea esattamente questo: “Dio creò l’uomo a sua immagine: a immagine di Dio lo creò; maschi e femmina li creò”. La persona umana, fin  dalle origini, non è un singolo, ma un “noi”. E’ a dire che non è possibile un “io” senza l’ “altro” da me. L’io senza l’altro non è un’immagine piena di Dio, che è invece il “noi”, l’unione complementare tra l’uomo e la donna che diviene emblematica dell’esistenza. Nella creazione stessa è iscritto il bisogno di un “noi”, il bisogno di una comunione di cui la famiglia è in certo modo l’archetipo. Per questo credo sia importante affermare che, nonostante le difficili prove a cui la famiglia è sottoposta, il “noi” resta il genoma della società umana.

Se si vuole dare solidità alla società è necessario ridare dignità culturale alla famiglia e al “noi”. In un contesto di globalizzazione questo è ancor più urgente, altrimenti si corre il rischio di globalizzare l’individualismo, che tra l’altro va bene a braccetto con la dittatura del mercato. La dimensione “familiare” che si apprende in famiglia si allarga alla società, perché sia fraterna, e si estende sino alla famiglia dei popoli. C’è un continuum che deve essere tessuto. In tale azione è alto il compito delle comunità religiose: esse debbono avere in se stesse i tratti della famiglia per poter essere a loro volta fermento di fraternità tra i popoli. Mettere in forse la famiglia o comunque depotenziarla significa essere in balia dei sentimenti e dell’incertezza dei loro mutamenti. Tale incertezza, che fa male a tutti, è drammatica per i più deboli. E’ a partire da loro, dai più deboli, che si comprende fino in fondo il “bisogno di famiglia”. Basti pensare ai bambini e agli anziani, ai soli e ai malati, ai disabili e ai disagiati. In famiglia è più facile essere accolti e non rifiutati, amati e non abbandonati, abbracciati e non scartati. La civiltà di una società si basa su questo discrimine.

L’agape, amore per gli altri

C’è però un ulteriore punto su cui riflettere. La famiglia ha bisogno anch’essa di aiuto. Se è vero che “non è bene che l’uomo sia solo”, è altrettanto vero che “non è bene che la famiglia sia sola”. Vi può essere un individualismo familiare che porta all’isolamento e quindi a sostenere quella cultura individualista che piega a se stessa anche le forme associate. E’ indispensabile promuovere una cultura dell’amore come dono, come servizio per gli altri. Anche la famiglia non deve vivere solo per se stessa, ma per l’edificazione di un oltre. La famiglia ha bisogno della communitas per non restare in balia delle onde dell’individualismo. In certo senso, la roccia su cui fondare la famiglia è la comunità. Nella tradizione cristiana questo è chiarissimo. Basta leggere i vangeli per vedere la ricchezza ma anche i limiti della famiglia quando non permette l’oltre da sé. Giovanni Crisostomo aveva intuito la correlazione tra la famiglia e la comunità. Parla infatti della famiglia come “chiesa della casa” (domestica) legandola alla “chiesa della città”. L’una ha bisogno dell’altra. E ambedue sono innervate da quell’amore che porta a non chiudersi in se stessi e ad amare anche gli altri.

In conclusione potremmo affermare che, nel mondo individualizzato, il “bisogno di famiglia” è uno di quei bisogni primari a cui rispondere, sapendo che il legame tra l’ “io” e l’ “altro” e l’ “altra” sono i due fili con cui si tesse la tela del “noi”. E questa tessitura inizia – per noi cristiani – tra la chiesa e la casa.

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Le immagini dell’incontro per la pace Roma 2013