MATRIX

Intervista a Matrix

di Enrico Mentana

Monsignor Vincenzo Paglia mercoledì 10 maggio è stato ospite della puntata di Matrix – il programma di Enrico Mentana che va in onda in seconda serata su Canale 5 – in occasione della messa in onda della prima puntata di Karol – un papa rimasto uomo, la fiction di Giacomo Battiato che ricostruisce il pontificato di Giovanni Paolo II.

Insieme al vescovo Paglia al programma di informazione di Mentana c’erano Alessio Vinci, responsabile in Italia della Cnn, Igor Man, editorialista della Stampa, Daniele Venturi, presidente dell’associazione Papaboys e – in collegamento video – il cantautore Ron.

Monsignor Paglia, Giovanni Paolo II santo subito?

“Il processo di canonizzazione è un procedimento canonico che deve svolgersi uguale per tutti. Devo dire che qui c’è stata anche un’anticipazione. In genere dopo la morte bisogna aspettare cinque anni per iniziare il processo”.

Anni che in questo caso  sono stati “abbonati” da papa Ratzinger.

“Si deve svolgere un processo attraverso dei testimoni per verificare l’eroicità delle virtù, qualora si tratti di una persona che non è stata uccisa come martire, perché per i martiri non c’è bisogno del miracolo, mentre per coloro che sono morti non per l’uccisione contro la fede, c’è appunto la necessità di un processo che verifichi l’eroicità delle virtù e in più un miracolo che in qualche modo attesti questa eroicità. Giovanni Paolo II tutti lo consideriamo santo, il processo canonico è un’altra cosa. E’ come verificare e ufficializzare questa santità che già tutti sentiamo. Io ho avuto la grazia di conoscere papa Wojtyla sin dall’inizio del suo pontificato, appena arrivato a Roma dalla Polonia.  E’ stata un’amicizia bella, per me piena di consolazione. E’ un santo già, certamente dal cielo ci guarda e penso che stasera sia contento anche lui, non so se di vedere “Matrix”, ma sicuramente di stare qui vicino a noi!”.

Glie lo chiedo subito, monsignor Paglia. Se lei ha un ricordo che si è stagliato più forte nella memoria, quale è?

“E’ l’ultimo. Quando stava in ospedale, a febbraio. Andammo lì con un gruppo di una novantina di vescovi di tutte le confessioni cristiane per pregare per lui. Alla fine volle che io andassi nella sua stanza per salutarlo. Ricordo che mi prese per mano e mi guardò con quegli occhi che erano insieme pieni di dolore e di affetto. Non dimenticherò mai più quello sguardo mentre mi stringeva le mani come a dirmi: ti voglio bene, grazie. Era un saluto di lontananza e di presenza. Di uno che sentiva che stava per partire, ma come se volesse rimanere sempre. E’ un’amicizia che credo non terminerà mai più ed è un ricordo pieno di tanti altri messaggi: la guerra nel Kosovo, gli incontri di Assisi, le sue attenzioni per Roma, il suo impegno per i giovani. Tutta una serie di ricordi che in quello sguardo io li  ho come riassunti, e per me è un fatto indimenticabile”.

Lei è postulatore di un’altra causa di beatificazione, quella per monsignor Oscar Arnulfo Romero. Chi ha visto il film fino a pochi minuti fa ha visto anche la terribile scena dell’uccisione nella cattedrale di San Salvador nel marzo del 1980. Sono passati 27 anni e la causa per quel martire, ucciso proprio perché era un cattolico, proprio perché era un religioso, ancora la causa avanti. Ci vuole così tanto per fare un santo?

“Nel caso di Romero la questione è abbastanza complessa, per tutte le implicazioni anche di ordine politico che ci sono”.

Anche di ordine politico?

“Sì”

C’è anche la politica?

“La politica entra anche in questo contesto perché Romero visse in un momento particolarmente drammatico. Io mi ricordo quando per la prima volta parlai di questo tema con Giovanni Paolo e il Papa mi disse: Romero è della Chiesa, e va rivendicato perché era un vescovo morto sull’altare, come san Stanislao. Ed è incredibile come un anno dopo quel colpo di fucile che uccise Romero, un colpo di pistola  tentò di uccidere anche Giovanni Paolo. Giovanni Paolo sopravvisse ma quella morte non l’ha mai dimenticata neanche lui”.

Lei lo chiama “Giovanni Paolo” come i Papaboys. E’ proprio per questo stesso motivo, per accorciare idealmente le distanze?

“Ma sì, io ricordo la prima volta quando, appena diventato papa, chiamò un gruppo di preti e ci disse: io voglio fare la messa con gli universitari di Roma e noi rimanemmo stupiti e dovemmo decidere  nel giro di qualche settimana, di riempire San Pietro. Non era allora facile riempire San Pietro con i giovani. Poi non bastò la basilica, non bastò la piazza, non ne bastarono due. Ci volle Tor Vergata”.

(Segue l’intervista al postulatore della beatificazione di Giovanni Paolo II)

E’ su queste testimonianze che si costruisce un processo di beatificazione? E tutti i pezzi di indumento, i santini, non sono elementi di pre-culto un po’ pericolosi?

“No, io direi che le due cose sono importanti. Innanzitutto le testimonianze su fatti come questo e su tanti altri. Io stesso dovrò andare a testimoniare”.

Ci racconta anche la sua testimonianza, se può?

“Una che voglio ricordare è la tenacia con cui Giovanni Paolo II voleva andare nelle tre capitali dei Balcani, Zagabria, Belgrado e Sarejevo, e visitare tutte e tre nello stesso momento, per dimostrare la sua vicinanza a tutti i popoli. Questo fu difficile, ma volle andare a Sarajevo e mentre tutti attorno a lui gli dicevano che era pericoloso, il Papa con un incalzante e martellante ‘voglio andare’ smontava su obiezione su obiezione. Gli dicevano ma è pericoloso! “vado lo stesso”, non funzionano gli altoparlanti! “mi porterò il megafono”, gettano le bombe! “andrò in carroarmato”. Era l’incalzare di un uomo che voleva la pace a tutti i costi, fino all’ultimo gesto, quando ancora con poco movimento fece quella battuta di pugno sul leggìo, quando non volle accettare nessuna scusa, perché non voleva la guerra in Iraq. Queste sono cose che a me fecero impressione”.

La grande tenacia del papa è stato il suo aspetto più saliente, che tutti  – anche coloro che non credono e i fedeli di altre religioni  – non possono aver dimenticato. Ma questo non è un carattere più di eccezionalità che di santità? Questi racconti disegnano un grande personaggio storico. Ma disegnano un santo?

“Sì, perché la forza di  Wojtyla, a mio avviso, si è manifestata sempre più in maniera energica, man mano che il suo corpo si indeboliva. E direi che il gesto più alto di Giovanni Paolo II, è  stato il girono del suo funerale, quando a  piazza San Pietro, si è realizzato il sogno del papa: tutti i cristiani, tutte le religioni, tutti i ceti della società, tutti i politici, anche quelli che si facevano la guerra in quei giorni, si sono raccolti insieme mostrando che è possibile la convivenza tra diversi, è possibile la pace. Questo non viene se non c’è una grande fede che viene dall’alto. Solo la fede di un santo”.

Un’altra caratteristica di Giovanni Paolo II è il feeling che ha saputo intessere non solo con le folle, ma con tutte le  persone che si è trovato di fronte.

“E questa è la testimonianza della vera santità, perché è un rapporto umano intenso che giunge fino al cuore. Questa è l’eroicità della virtù. Perché oggi non si parla più, non si arriva al cuore, e quando un papa riesce a toccare il cuore dell’altro, lì scatta l’amore, la bellezza della vita, la gioia, la felicità, nonostante tutte le difficoltà che ciascuno di noi poi vive. Lo stesso papa Giovanni Paolo soffriva da morire, e tuttavia giustamente non doveva e non poteva smettere. L’amore non conosce confini. L’amore non è salute, è follia, è passione”

E’ testimonianza.

“E’ testimonianza. Per questo è santo”.

Perché, sin dai quando era vescovo a Cracovia, aveva questo grande attaccamento alla figura di padre Pio?

“Perché papa Giovanni Paolo aveva una visione della realtà non asettica, non scientifica, ma spirituale, profonda. Per questo di fronte a queste figure, a certi eventi, lui leggeva dentro. Non aveva gli occhiali dello scienziato diffidente, asettico…”.

 …e un po’ scettico.

“Esatto. Lui era un uomo di grande fede, e questa fede interiore gli dava una sensibilità in più, che era quella di cogliere nelle persone quella scintilla di Dio o quel fuoco di dio che loro manifestavano. Per questo si appassionava con tutti, parlava con tutti. Non ha rifiutato di parlare con nessuno, ha incontrato tutti, anche quando lo criticavano.

Un po’ riduttivamente è stato considerato un “grande comunicatore”. Appena uno ha importanza e straordinariamente si impone, lo si definisce comunicatore. Comunicatore, in realtà, non vuol dire niente. E’ chiaro che con la grande fisicità di Karol Wojtyla era evidente già prima di diventare papa. Ma non c’è solo questo. E’ questo però quello che ricorda anche chi gli è stato vicino in gran parte del pontificato come Joaquin Navarro Valls”.

Non siamo giudici istruttori di nessuna causa, ma volentieri lo chiameremmo come testimone. Abbiamo riascoltato quel celeberrimo “Non abbiate paura”. Quella forse è stata la svolta di tutto il movimento cattolico?

“Io credo che quelle parole, che poi furono seguite da questo giovanissimo papa che alzò il pastorale e andò nella folla, indicavano la fine di un periodo non dico di tristezza ma di…”

Timidezza?

“Esatto. La Chiesa entrava nella storia con la robustezza non dei poteri degli uomini ma forte solo della sua parola e della croce. Ecco, questo è quello che Wojtyla ha ridato alla Chiesa di fine millennio perché entrasse nel nuovo millennio. E una delle più belle esperienze che io ho fatto con lui sono state le innumerevoli testimonianze di non credenti o di non cristiani verso Wojtyla. Io non ho mai incontrato un uomo di qualsiasi religione o di buona volontà che non sia rimasto affascinato dalla forza debole di quest’uomo che riusciva a dare un’ideale a tutti”.

La forza disarmata?

“Esatto, la forza disarmata”.

Ron: “Prima parlavamo della comunicazione di papa Wojtyla. Io credo che la sua caratteristica è stata proprio  la capacità di comunicazione. Lui ha usato il suo talento di regista e attore, di uomo divertente, con un grande senso di spirito, per poter comunicare meglio. Se ascoltiamo qualsiasi omelia, qualsiasi frase di papa Wojtyla scopriamo che ci sono dentro dei tempi perfetti, quelli che Dio gli ha  messo dentro. Ogni talento che abbiamo dentro che ha messo Dio e la sua grande forza è stato farsi piccolo, scendere in mezzo agli uomini con la forza, anche umana.

Ho visto che si è illuminato, monsignor Paglia. Credo che abbia colto quest’aspetto.

“L’ho colto anche quando sono arrivato vescovo a Terni. Le acciaierie sono state la prima fabbrica che lui visitò, nel 1981, poco prima dell’attentato. Una fabbrica colorata, molto. Ebbene, affascinò gli operai divenendo un idolo per loro. Mostrando questa capacità di rapporto umano – era stato operaio – cominciò sconvolgendo tutti i programmi, andò al consiglio di fabbrica, volle mangiare con gli operai. Tutti quelli che erano intorno erano disorientati, perché non si era mai visto un papa che facesse così. Scherzando domandò anche il vitto!

Oppure io ricordo, la prima volta che l’ho visto, quando arrivai stava con le scarpe da tennis e senza colletto.  Io che ero abituato a Paolo VI rimasi un po’ così. Lui mi disse: “Non ti preoccupare, sono io!”.

Con le scarpe da tennis e senza colletto?

“Sì, perché aveva appena finito di fare la sua passeggiata a Castel Gandolfo.  Lui voleva incontrare i giovani nelle serate, perché amava la vita, ma una vita bella e piena. Ecco, questo lo abbiamo capito tutti. Questo è il grande insegnamento, mostrando che il cristianesimo e il Vangelo non depaupera, non ruba la vita, ma al contrario la moltiplica. Che è poi, tra l’altro, quello che papa Benedetto XVI continua a ripetere. Perché questo è un insegnamento che tocca certamente nel cuore i giovani, ma anche noi che giovani non siamo più. Ma c’è questo aspetto di umanità impregnata di gioia ma anche di gioia, che è quello che ha affascinato il mondo”.

Il mondo che 25 anni fa scoprì che il papa poteva essere anche bersaglio di un assassino…

Intorno a Fatima si sono costruiti tutta una serie di storie, di simbologie  e di segreti. Come si intrecciano con la storia di papa Wojtyla e come li viveva lui?

“Lui certamente aveva questo rapporto particolarissimo con la Madonna. Un rapporto che andava avanti fin da ragazzo, anche a motivo della scomparsa della mamma. E quel Totus tuus nel suo stemma dice tutto di questo rapporto, e certamente c’è un disegno misterioso che sorprese lui ma che ha sorpreso tutti noi. Nel comprendere questo papa che veniva dall’est, che di fatto ha contribuito in maniera così determinante per il crollo del comunismo. Questo segreto di Fatima e questi tre pastorelli che non sapevano neppure che esistesse l’Unione Sovietica, eppure già in quegli anni avevano quella visione del mondo. Ecco, io credo che ci sia un disegno in tutto questo; un disegno che è misterioso, ma che si è in qualche modo svelato con Wojtyla. D’altra parte non dimentichiamoci che la storia di Wojtyla  che tutti conosciamo, non è iniziata come una favola, è iniziata con grande difficoltà. Quando ad  esempio parlava dell’Unità europea, nel  momento in cui l’Europa era divisa in due,  molti lo consideravano un illuso, un visionario, quando diceva che Jalta doveva saltare, e quando affermava che il comunismo era disumano, molti ci andavano con i piedi di piombo”.

Perché andava contro la realpolitik.

“Esattamente. Contro la realpolitik. Lui la scardinò, visse un sogno che  poi non era un sogno”.

Io credo che lei abbia avuto un ruolo nel far incontrare con il Papa quello che fu l’illusorio riformatore, l’ultimo capo popolare dell’Unione Sovietica, cioè Michail Gorbaciov. E’ così?

“Capitò che attraverso comuni amici aiutai questa prima visita di Michail Gorbaciov a Roma”.

Mi permetto di spiegare di quali amici si tratta. Lei è il padre spirituale della Comunità di Sant’Egidio che in qualche modo ha avuto un ruolo di super-Farnesina, un super ministero degli esteri che ha intrecciato rapporti internazionali permettendo di siglare paci che sembravano impossibili al termine di guerre civili e che ha fatto cose straordinarie. Per questo ha avuto la possibilità di avere questi canali di diplomazia parallela.

“Sì attraverso Zagladin, che era il consigliere di Gorbaciov. Lo incontrai a Mosca nel  momento dell’apertura. Fui uno dei primi preti che lui incontrò, poi venne a Roma e si intrecciò un’amicizia che portò poi a questo incontro che fu preparato dal papa – questo va sottolineato – con la preghiera. Si dice che il Papa sia stato anche un politico. Certo, ma solo da santo. Quella mattina del 2 dicembre quando venne Gorbaciov a Roma e incontrò il papa alle 10 o alle 11, papa Wojtyla alle 5 stava già in cappella a pregare,e ci restò fino alle 9. Una visita, un incontro preparato in ginocchio, da questo santo che viveva di visioni. Wojtyla ha sognato un mondo diverso, è entrato da papa sognando”.

E’ un immagine straordinaria. Lo dice perché lo pensa, perché lo sa, perché raccontava le sue visioni, perché le faceva diventare realtà?

“Esattamente. Perché lui aveva una visione sul mondo che non aveva nessuno, e che si è svelata anche nell’incontro con Gorbaciov, una visione che si è svelata negli incontri di Assisi. La visione secondo cui è possibile la pace, non è vero che non è possibile, la visione che la realtpolitik non è una catena. Le catene si possono rompere, purché si rompano con la passione di un uomo che è un santo e che davvero credeva nel miracolo della resurrezione dei cuori”.

Se ci vuole  un immagine per spiegare come Wojtyla ha inciso sulla storia di quel cambiamento, è la firma dell’accordo del governo comunista polacco con Lech Walensa, allora leader sindacale nei cantieri edili di Danzica. Era la  prima crepa, ma quella essenziale, per far crollare il sistema del socialismo reale. Perché da lì è partito un processo che non si è mai fermato. Mentre forse l’unico vero fallimento del papa è stata la guerra in Iraq, che non è riuscito ad evitare.

“Non è il papa che ha fallito. Abbiamo fallito tutti e soprattutto ha fallito chi ha iniziato questa guerra che ancora non termina. Il Papa aveva ragione. Ha detto mai più  la guerra, la guerra che non risolve”.

Però non si oppose alla guerra del Kosovo

“Ricordo quando lui convocò tutti i capi religiosi ad Assisi nel 1992, per bloccare questo conflitto balcanico. Allora era la guerra bosniaca, non ancora in Kosovo. E  credo che lui comprendesse come il magistero di tutti i papi del Novecento affermi che la pace vera, quella solida, non si conquista mai con la guerra, ma sempre con un accordo da trovare, e anche nei Balcani  voleva questo. Ricordo quando andò in India ed elogiò la figura di Gandhi. La forza della nonviolenza, o anche l’intervento umanitario, che non si fa con le bombe, si fa in altri modi. Questa era la grande teoria di Giovanni Paolo II per difendere i diritti di tutti, senza schiacciare o uccidere gli altri, perché la pace ottenuta con i morti, non è mai una vera pace”.

Ma forse l’ultima vera sconfitta, che non è del papa ma  è della cristianità o dell’Europa, è proprio quel mancato riferimento alle radici cristiane nella Costituzione, peraltro essa stessa non è più che un pezzo di carta, visto quello che è successo poi. Quello forse fu il fallimento che più amareggiò l’ultima stagione di vita terrena di papa  Wojtyla.

“In questo tocchi un punto che certamente ha amareggiato  non poco il papa, non perché lui volesse rivendicare per sé qualcosa, ma perché vedeva il pericolo di un Europa depotenziata, un Europa senza più sogni, ma ripiegata su sé stessa, dove alla fine la legge è il mercato, l’interesse dei gruppi, delle nazioni, dei singoli agglomerati. E lui vedeva nelle radici cristiane dell’Europa una solidarietà ampia, perché la vedeva senza nessun complesso. Non voleva rivendicare nulla, voleva che l’Europa fosse sé stessa perché era convinto, come anche papa Ratzinger è convinto, che l’Europa ha – anche per la sua storia – una missione da compiere nell’intero pianeta, perché ha un bagaglio di tradizioni culturali che non ha nessun altro continente e se non riscopre questo suo bagaglio in tutta la sua interezza, compresa la dimensione umanistico-laica, perde sé stessa e fallisce la sua missione nel mondo. Questo è il grande disegno che fa fatica ad emergere. E in questo papa Benedetto, anche nel nome, è il grande continuatore del disegno di Wojtyla. E permettimi di dire che l’enciclica di papa Benedetto l’avrebbe voluta scrivere Giovanni Paolo II, perché è l’esatto proseguimento di quel che Giovanni Paolo ha fatto. Lui lo ha vissuto in prima persona, lo ha predicato e proclamato, e papa Ratzinger  ha raccolto questo grande insegnamento e lo ha sparso per il mondo. L’amore è l’unica forza che ci salverà”.

Ci sarebbero ancora tante cose da dire. Io però non voglio perdere l’occasione di ricordare come i simboli nella chiesa contino molto. Lei al petto ha una croce che non è casuale. Le faccio un piccolo colpo basso perché non penso che sia una cosa che ama dire, ma quella  è la croce appartenuta proprio a monsignor Romero.

“Sì, è la croce di monsignor Romero che mi è stata consegnata quando sono stato incaricato  della causa di beatificazione. Per me è una reliquia. Alcuni dicono che è molto bella, per me è preziosa per il senso che ha sapendo che ad un centimetro da questa croce è passato quel colpo unico che ha colpito al cuore monsignor Romero. E per me è il segno di quell’amore di cui si parlava”.

La Chiesa nei paesi latino-americani è stata anche lacerata. E’ un dibattito teologico forte, che ha segnato gli anni ’70, ’80 e ’90 e ha fatto dividere sul pontificato di Karol Wojtyla. La Teologia della liberazione, quello che ne è emerso, come è stata messa un po’ da parte questo modo di pensare alla  Chiesa e ai valori della Chiesa. Quella ferita si è andata rimarginando?

“Io credo che la questione latino-americana è molto complessa perché non riguarda solo l’America Latina ma anche l’America del  nord; c’è come un’unità tra le due Americhe, che io pongo come in parallelo con l’Europa e l’Africa. C’è un’unità di giudizio storico e  di situazione storica da capire. Per quanto concerne il discorso sulla Teologia della liberazione, bisogna stare attenti a non semplificare. Lo hanno detto anche a Romero, lo chiesero a anche a lui: ma lei è della teologia della liberazione o no? E’ una di quelle domande a trabocchetto: se dici  stai con i rivoluzionari, se dici no stai con gli oppressori. Ma la situazione non è così semplice, ci sono molte sfumature nella stessa teologia della liberazione”.

Ron: “Al funerale di Giovanni Paolo II c’erano tanti potenti. Io penso che attraverso quel vento che sfogliava le pagine del Vangelo il Papa abbia cercato di parlarci, ancora con grande serenità ed amore. Perché non voleva vendicarsi di nulla, Wojtyla. Non era certo riuscito a risolvere il mondo e ad interrompere le guerre, certo. Però aveva amato: aveva amato queste persone potenti perché le vedeva così deboli, come le avrebbe viste il padre nostro.

Paglia ormai è conquistato dalle parole di Ron, vero?

“Perché coglie il cuore di Wojtyla. Io ricordo a Castel Gandolfo una sera, con alcune persone, come il papa amava fare, dopo l’attentato. Al telegiornale – non so se era Canale 5! – dissero che si cercano le motivazioni. Ricordo che rimanemmo tutti un po’ sorpresi. Il papa comprese questo, e disse: vorrebbero impedirmi adesso di scendere in piazza San Pietro, farmi mettere il giubbotto antiproiettile… ma il pastore deve stare tra la sua gente, anche a costo della vita. Come si fanno a dimenticare parole come queste e un uomo così? sono queste le cose che ti sconvolgono. E la gente lo sente, perché quando uno gli vuole bene, la gente lo capisce”.

Un ultima domanda: come si fa a raccogliere l’eredità di papa Wojtyla? Abbiamo parlato per quasi due ore di Giovanni  Paolo II e ci accorgiamo che non abbiamo parlato, o quasi, di Benedetto XVI. Quanto è difficile sostenere il ruolo di quello che viene dopo?

“Io credo che il banco di prova fu a Colonia, quando Benedetto XVI si trovò davanti la stessa platea di giovani che aveva acclamato Giovanni Paolo II. Ebbene io credo che in un modo molto diverso questi giovani hanno continuato a sognare Wojtyla e ad amare Benedetto. E io personalmente ricordo con quanta tenacia papa Giovanni Paolo II difendeva l’allora cardinale Ratzinger, quando qualcuno quando qualcuno faceva qualche osservazione su di lui. Era il suo cardinale, il suo uomo di fiducia. E credo che questo rapporto continui, perché papa Benedetto sa che è vero che alla finestra di San Pietro c’è lui, ma a quella del cielo c’è Giovanni Paolo II che lo  guarda e insieme guidano ancora la Chiesa”.

Canale 5 – Mercoledì 10 maggio 2006