Intervento al Convegno su Oscar Romero

Intervento al Convegno su Oscar Romero

La Chiesa e l’America centrale del suo tempo.


Questa tavola rotonda giunge al termine di un convegno storico su Oscar Arnulfo Romero. Se non vado errato, è il primo di tale natura che studia la figura di questo arcivescovo. Qualcuno potrebbe anche dire che è passato troppo poco tempo dai fatti per formulare un giudizio storico scevro da precomprensioni. C’è da dire comunque che il mondo è cambiato per ben due volte, nell’89 prima e nell’11 settembre scorso poi, e la memoria di Romero continua a suscitare sentimenti forti e talora contrastanti. La simbolicità della sua morte lo ha reso un testimone particolarmente eloquente. La Chiesa anglicana – per fare un esempio – lo ha posto tra le dieci personalità religiose del Novecento che campeggiano nella facciata della cattedrale di Westmister. Ed è stato personalmente Giovanni Paolo II ad inserire il nome di Romero nel testo della celebrazione dei Nuovi Martiri, tenutasi nell’anno giubilare, dopo una singolare assenza, riprendendo quasi alla lettera quanto aveva scritto nel giorno stesso dell’uccisione dell’arcivescovo alla Conferenza Episcopale salvadoregna. Disse, allora, il Papa che il “servizio sacerdotale della Chiesa (di Monsignor Romero) ha avuto il sigillo immolando la sua vita mentre offriva la vittima eucaristica”. E due giorni dopo, nell’udienza generale, ai fedeli riuniti affermò: “lo hanno ucciso proprio nel momento più sacro, durante l’atto più alto e più divino…E’ stato assassinato un vescovo della Chiesa di Dio mentre esercitava la propria missione santificatrice offrendo l’Eucarestia”. Così pure, nonostante le forti pressioni del governo salvadoregno perché non si recasse sulla tomba, il Papa vi andò ugualmente. Romero, un pastore Questa immagine “finale” di Romero è, a mio avviso, quella che lo qualifica: Romero è un vescovo che resta tra la sua gente anche a costo della vita. Potremmo dire perciò che Romero fu anzitutto un vescovo, un pastore. Non era certo un teologo sistematico o un uomo dal pensiero organico, sì che è possibile rilevare nei suoi scritti imprecisioni e slabbrature, soprattutto quando la passione oratoria lo faceva entrare nel mondo polarizzato del Salvador degli anni Settanta. Egli rimase essenzialmente un pastore, un uomo di intensa preghiera, un sacerdote nelle fibre più intime, un mistico segnato dagli Esercizi ignaziani, un devoto di Maria e del Sacro Cuore di Gesù, amante del rosario e della visita al Santissimo, frequente alla confessione, uno spirituale più a suo agio nel ragionamento purificatore interiore che nella leadership e nell’organizzazione attivistica. E la Chiesa che Romero, arcivescovo secondo il Concilio, voleva era una Chiesa vicina ai poveri. Lascio la parola a mons. Rivera y Damas, suo successore come arcivescovo di San Salvador. Rivera afferma: “La Chiesa che Monsignor Romero desiderava è quella che si fa vicina al povero, non per motivi politici o per interessi meschini, ma perché ama e vuole servire…Monsignor Romero ha vissuto il proprio motto ‘Sentire con la Chiesa’, una Chiesa che è comunità e che è istituzione. (‘Orientacion’, 8 aprile 1984) E’ stato un vescovo che ha vissuto in un difficilissimo momento di transizione del suo paese, un momento di grande polarizzazione politica, di radicalizzazione della violenza, di profondi contrasti ecclesiali. Ancora Mons. Rivera Damas: “Non sono d’accordo con coloro che presentano Romero come un uomo in talare passato alla rivoluzione, anche se faccio mia l’affermazione che egli incarnò pienamente, in quella realtà ingiusta di El Salvador, e in modo coraggioso, e quindi cristiano, l’opzione preferenziale per i poveri che la Chiesa del Concilio Vaticano II ci chiede.(Prefazione a J.Delgado, Monsignor,3-8). Il motto che si era scelto per il suo episcopato, “Sentire cum ecclesia”, riassume bene la sua preoccupazione di fondo. L’immagine di Romero come uomo politico è lontana dalla sua storia e estranea dalla sua formazione spirituale e culturale avvenuta nella Roma di Pio XI negli anni 1937-1942 all’Università Gregoriana. Se Romero, in quel frangente difficilissimo di guerra civile, entra nel campo della politica, lo fa perché costretto e solo per difendere la Chiesa e il popolo, perseguitati da un regime e da uomini spietati. In una omelia (17 febbraio del 1980) dice: “quello che cerco di fare non è politica. E se per necessità del momento sto illuminando la politica della mia patria, è perché sono pastore, è a partire dal Vangelo, è una luce che deve illuminare le strade del paese e dare il suo contributo, come Chiesa; quel contributo che, proprio perché Chiesa, deve dare”. E’ noto che viene scelto come arcivescovo di San Salvador perché ritenuto un moderato, rispetto all’altro candidato Mons. Rivera Damas, salesiano, legato al predecessore di Romero, Mons. Chavez, pastore di larghe vedute e sostenitore di un cristianesimo sociale. Mons.Romero, in effetti, non era schierato pienamente su questa linea, sebbene ne accettasse le indicazioni di fondo. Il suo ingresso nell’arcidiocesi di San Salvador il 22 febbraio 1977 avvenne, però, tra la freddezza del clero. Passano però appena diciotto giorni e viene assassinato uno dei suoi sacerdoti, il padre Rutilio Grande. In quella occasione il clero si raccoglie tutto attorno al suo arcivescovo, con il noto episodio dell’unica Messa celebrata nell’arcidiocesi per il funerale di p.Rutilio a cui parteciparono almeno centomila persone. Questo fatto, che pure causò a Romero qualche problema con il Nunzio, gli valse il superamento non solo della diffidenza del clero verso di lui, ma un insperato movimento di unità del clero attorno alla sua figura. Vengono poi trucidati altri cinque sacerdoti, alcuni giovanissimi, ordinati dallo stesso Romero. La tecnica assassina è quella tipica di non uccidere soltanto, ma di torturare o sfigurare, mutilare, insomma di mostrare una violenza enorme sui corpi, per terrorizzare e stroncare ogni aspirazione sul nascere. Il padre Octavio Ortiz, ucciso con quattro giovani durante un ritiro spirituale, ha la testa schiacciata, “sommamente sfigurata”, nota Romero nel suo Diario. Farà vedere le foto anche a Giovanni Paolo II che restò non poco colpito. Molti altri preti vengono espulsi dal paese o maltrattati: dopo due anni di arcivescovado a San Salvador, Romero conta 30 preti perduti, tra uccisi, espulsi o richiamati per sfuggire alla morte. Si tratta di circa un quarto del suo presbiterio. Gli squadroni della morte uccidono decine e decine di catechisti delle comunità di base, e molti fedeli di queste comunità scompaiono. A tutto questo si aggiungevano le profanazioni delle chiese e del Santissimo Sacramento. Insomma, con un clima di terrore si voleva scoraggiare anche il più piccolo desiderio di cambiamento della situazione. La Chiesa era la principale imputata perché si preoccupava dei diritti umani e della promozione sociale, e quindi era maggiormente colpita. Romero, di fronte a questo clima di persecuzione, reagisce da vescovo e chiede con veemenza giustizia alle autorità del paese. Queste ultime, che sono dietro i fatti di sangue, promettono inchieste a Romero, ma prontamente le insabbiano. L’arcivescovo, dopo aver chiesto più volte giustizia senza ottenere nulla, si vede costretto ad attuare una nuova strategia: inizia a denunciare pubblicamente le menzogne, le violenze, le ingiustizie perpetrate. E Romero diventa l’unica voce che può parlare nel paese. Durante la sua Messa della domenica in cattedrale, gremita di contadini, dopo la spiegazione delle Scritture, Romero inizia a denunciare pubblicamente le ingiustizie e le atrocità compiute nella settimana precedente dagli squadroni della morte e dai militari, ma anche da altri. C’erano infatti due tipi di violenza nel paese: la violenza repressiva e la violenza eversiva dei primi gruppi di guerriglia rivoluzionaria. Questa celebrazione veniva seguita da tutto il paese attraverso la radio cattolica. Si poteva uscire dalla cattedrale e continuare ad ascoltare la Messa lungo tutte le strade attraverso le radio accese ad alto volume. Il cambiamento di Romero, di cui tanto si parla, non avviene sul piano della conversione religiosa o su quello dell’amore per i poveri, bensì sul piano dei rapporti con le autorità civili. Credo sia utile sottolineare questo punto perché in genere si dice che Romero si “convertì” davanti alla morte di Rutilio Grande. Romero stesso ha sempre negato di essersi “convertito”. Piuttosto ha cambiato opinione sulle autorità del paese e sul loro modo di gestire il potere. Già da quando era vescovo di Santiago de Maria, per fare un esempio, aveva parlato contro la violenza vile verso i contadini, ma non l’aveva fatto pubblicamente. Divenendo arcivescovo di San Salvador, la capitale del paese, Romero sente come una responsabilità pubblica nuova e la vive con la sua passione e la sua ferma volontà di fare tutto nel modo più serio possibile. Egli divenne, de facto, il leader della Chiesa salvadoregna, un paese che anche nel nome si richiamava al Salvatore, e Romero non ebbe paura di caricarsi i problemi di tutti. La morte di Rutilio Grande non c’è dubbio che sconvolse Romero, anche perché verso questo gesuita salvadoregno nutriva una profonda amicizia. Il p. Grande non apparteneva al gruppo di gesuiti intellettuali, fini accademici, che teorizzavano il cambiamento culturale e politico del paese, anzi dissentiva fraternamente dalla loro cultura del progetto organico. Invece di riferirsi idealmente alla classe istruita, p. Grande viveva di una passione pastorale per i contadini, identificava in qualche modo il Regno di Dio con la fede del popolo rurale del suo paese. Romero aveva fiducia e intimità con Rutilio Grande, benché non sempre i suoi rapporti con i gesuiti del Salvador fossero buoni. Quando si rende conto che il presidente Molina, con cui pure aveva tenuto buone relazioni, non intende fare luce sull’assassinio di p. Grande, Romero ritiene di non potere restare passivo e assume un atteggiamento critico verso il governo. Rifiuta anche di apparire in pubblico accanto alle autorità civili, per non avallare in alcun modo coloro che appaiono, se non mandanti, quantomeno complici dell’assassinio di Rutilio Grande. In privato, Romero cercherà sempre di lasciare aperta ogni possibilità di chiarificazione e conciliazione con lo Stato, non lesinando incontri e messaggi alle autorità, sempre chiedendo però che si facesse giustizia sull’uccisione di preti e catechisti, che la persecuzione della Chiesa cessasse, e che si agisse contro la violenza. Romero e la scelta preferenziale dei poveri Per quanto concerne il rapporto con i poveri, esso è presente da tempo nella sua vita. Sin dai primi anni di sacerdozio aveva mostrato un notevole sensibilità verso di loro. Giovanissimo sacerdote a San Miguel veniva accusato di comunismo perché chiedeva ai ricchi di dare il giusto salario ai contadini coltivatori di caffè. Diceva loro che, agendo in quel modo, non solo andavano contro la giustizia, ma erano essi stessi ad aprire le porte al comunismo. Tutti coloro che lo hanno conosciuto ancora semplice sacerdote ricordano la sua commozione e la sua tenerezza verso i poveri che incontrava. Particolare impressione fece il suo interessamento per i bambini lustrascarpe di San Miguel che lo portò ad organizzare anche una mensa per loro. Notoria poi era la generosità verso i poveri. C’è da dire, però, che i poveri per Romero, man mano aumentava la sua responsabilità ecclesiale, prima come vescovo a Santiago de Maria e poi come arcivescovo di San Salvador, crescevano in importanza e centralità nella sua pastorale. E il fatto che la grande maggioranza dei salvadoregni fosse costituita dai contadini lo portava ad identificare di fatto la povertà con la condizione concreta del suo popolo, con qualche imprecisa identificazione tra popolo di Dio e masse dei poveri. La presa diretta con i gravissimi problemi di ingiustizia lo portò alla riflessione anche sulle cause della povertà, senza che questo significasse il superamento della carità o dell’aiuto individuale da offrire ai poveri. Non condivise mai la tendenza di quei cristiani che “scoprivano” inutile la carità, ed utile solo la lotta alle cause strutturali della povertà. Questo induceva, in un paese in preda a una forte ideologizzazione, alla sostituzione della carità con la politica tout court. Romero, senza sostituire la politica alla carità, ricercò la giustizia per la maggioranza povera del popolo salvadoregno. Non disprezzò mai l’elemosina, né ritenne superflua la misericordia individuale; sentì tuttavia sulle sue spalle di pastore il peso di una moltitudine di poveri che cercò di aiutare, in aggiunta a quanto sempre praticato, con nuove soluzioni collettive. Si potrebbe dire che divenne una sorta di defensor pauperum, o di defensor civitatis, se è consentito riprendere l’espressione che alcuni grandi vescovi della storia hanno meritato. Bisogna anche dire che Romero non ideologizzava i poveri. Sapeva bene – e lo diceva – che anche loro dovevano ascoltare il Vangelo, convertire il cuore e chiedere perdono al Signore per le colpe commesse. Insomma, i poveri avevano bisogno, come tutti, di essere evangelizzati, anzi erano i primi a cui la Chiesa doveva porre attenzione. Era estraneo alla mentalità di Romero ritenere che i poveri fossero portatori esclusivi di salvezza, come da qualche parte si sentiva ripetere. Tutti ricordano la sua passione per la predicazione ai contadini. Era proverbiale la sua macchina con l’altoparlante sopra quando si recava nei villaggi. Romero, pur non avendo partecipato all’assemblea di Medellin, ne accettò la scelta circa l’amore preferenziale per i poveri, rifiutandone però una interpretazione ideologica e politica. Mai Romero ha pensato che i poveri fossero esenti dal peccato, o che l’unico peccato fosse quello strutturale, sociale, collettivo, come era di moda pensare in quegli anni in molti ambienti. Romero riconosceva l’esistenza di un male strutturale, secondo il magistero dello stesso Paolo VI, ma non era per lui l’unica manifestazione del peccato. Nell’omelia tenuta il giorno prima della morte, diceva: “Com’è facile denunciare l’ingiustizia strutturale, la violenza istituzionalizzata,il peccato sociale! Ed è tutto vero, ma da dove nasce questo peccato sociale? Nel cuore di ogni uomo. La società attuale è come una specie di società anonima in cui nessuno vuole essere responsabile e tutti sono responsabili…Tutti siamo peccatori e tutti abbiamo portato il nostro granello di sabbia in questa montagna di delitti e di violenza nella nostra patria. Per questo la salvezza comincia dall’uomo, dallo strappare dal peccato ogni uomo. Nella quaresima questo è l’invito di Dio: convertiti personalmente. Non ci sono qui, tra tutti i presenti, due peccatori uguali. Ognuno ha commesso le proprie sozzure e vogliamo incolpare gli altri e nascondere le nostre. E’ necessario che mi tolga la maschera, anch’io sono uno di questi e devo chiedere perdono a Dio perché ho offeso Dio e la società” (Omelia 23 marzo 1980). E aggiungeva: “Non lanciamo soltanto slogan di cambiamenti di strutture, diceva, perché non servono a nulla le strutture nuove, se non ci sono uomini nuovi che usino e vivano queste strutture di cui le persone hanno bisogno”( omelia del 17 febbraio 1980). E se le organizzazioni popolari, da lui guardate benevolmente con la speranza che migliorassero la situazione politica di ingiustizia, usavano violenza, le condannava pubblicamente: non si può raggiungere un fine buono, diceva, con mezzi cattivi. Quando più acuto si fa lo scontro tra il governo e la guerriglia insorgente, nel maggio 1979, pubblica un appello contro la violenza e commenta: “Nei giornali è stato pubblicato il mio appello a fare uno sforzo per terminare questo conflitto, dichiarando che non è l’ora di dimostrare chi sia il più forte, il vincitore, ma di dimostrare chi è più umano e chi è capace di cedere e perdonare, affinché non si debbano continuare a lamentare tragedie nei diversi settori del paese”. (Diario, p. 231). Un anno prima, il 26 marzo 1979, Romero registrava per il suo Diario: “Nel pomeriggio ho avuto un colloquio con due elementi della guerriglia con i quali ho cercato di mantenere ferma l’idea cristiana della non-violenza; però questa gente è convintissima che non sarà la forza dell’amore ad aggiustare la situazione, ma la forza della violenza, poiché non si vogliono sentir ragioni e tanto meno esercitare l’amore cristiano. Ho sentito profondamente quanta diversità c’è fra il modo di pensare di numerosi settori della nostra patria, rappresentati da questi interlocutori, e l’atteggiamento cristiano”. La Scrittura e il Magistero furono tra le fonti più importanti che provocarono i cambiamenti nell’atteggiamento di Romero. Egli sapeva di essere il pastore di tutti, nessuno escluso, ma aveva compreso che l’universalità del ministero pastorale si attuava partendo dall’attenzione verso i poveri. Mettere i poveri al centro delle preoccupazioni pastorali della Chiesa e quindi anche di tutti i cristiani, compresi i ricchi, era la via nuova della pastorale. L’amore preferenziale per i poveri non solo non attutiva l’amore di Romero per il suo paese, al contrario lo sosteneva. In tal senso Romero non era un uomo di parte, anche se ad alcuni poteva apparire tale, bensì un pastore che voleva il bene comune di tutti, ma a partire, appunto, dai poveri. Non ha mai cessato di cercare le vie per la pacificazione del paese. Negli ultimi mesi di vita, alcuni settori progressisti della Chiesa, che prima lo esaltavano, lo criticarono duramente per avere sostenuto una nuova Giunta di governo, con militari riformisti e democristiani. Romero sapeva che il paese stava precipitando nella guerra civile. E voleva evitarla in ogni modo. Molti, invece, avevano categorie mentali di rivoluzione o massimaliste per cui qualsiasi potere costituito doveva essere rifiutato. Le riforme erano stimolate da Romero, ma la sinistra le riteneva un inganno perché esse avrebbero abbassato la tensione rivoluzionaria. Romero pensava diversamente. Vedendo le sofferenze del popolo si preoccupava di lenirle in ogni modo, anche con la carità individuale, con la elemosina, oppure raccomandando le persone per il lavoro e aiutando materialmente i bisognosi…Altri cattolici pensavano, invece, che questo tipo di carità non solo non serviva, ma era addirittura nociva perché sosteneva di fatto un sistema politico ingiusto. Romero, uomo di Dio Romero era un uomo di preghiera, di obbedienza e di amore per le anime. Pregava molto: si arrabbiava se nelle prime ore del mattino, mentre pregava, lo interrompevano. Ed era severo con se stesso, legato ad una spiritualità antica fatta di sacrifici, di cilicio, di penitenza, di privazioni. Ebbe una vita spirituale “lineare”, pur con un carattere non facile, rigoroso con se stesso, intransigente, tormentato. Ma nella preghiera trovava riposo e pace. E forza. Quando doveva prendere decisioni complicate, difficili, si ritirava in preghiera. Anche da arcivescovo, accadeva a volte che lasciava le riunioni, persino quelle con i politici, per andare a pregare davanti al Santissimo Sacramento, e poi tornava sereno con la decisione presa. Spesso si sente dire che erano altri a preparare le omelie di Romero. In verità, era ben nota la passione di Romero per la predicazione, come pure la facilità nel prendere la parola. Un testimone racconta come Romero preparava le omelie della domenica. Sabato pomeriggio si riuniva con alcuni amici e consiglieri, che cambiavano di volta in volta, e si e si discuteva parlava della situazione del paese. C’erano parroci, biblisti, esperti di teologia, sociologi, giuristi, o semplicemente persone competenti per una questione specifica. Non mancava qualche volta la presenza, ma avveniva di rado, di gesuiti della UCA. Si terminava la discussione con la cena, verso le 18, e poi c’era la recita del rosario. Quindi Romero si ritirava a leggere, in genere per un paio d’ore, i commentari biblici o patristici. Terminata la lettura scriveva qualche appunto e poi si recava davanti al Santissimo Sacramento e restava lì in meditazione per ore, talvolta sino a tarda notte. E’ quindi da escludere che Romero si facesse scrivere le omelie dai gesuiti. A tale proposito, un francescano che ha conosciuto bene Romero, alla mia precisa domanda ha risposto: “Romero era sufficientemente superbo per non farsi scrivere da altri le sue omelie”. Romero fu altresì un pastore fedelissimo al magistero della Chiesa, pur avendo avuto problemi con Roma. Ho già accennato alla sua familiarità con i documenti del Vaticano II, di Medellin, di Puebla, della dottrina sociale della Chiesa e in genere gli altri testi pontifici. Ho potuto fare l’elenco delle opere della sua biblioteca: molte consistono in testi del Magistero. Anzi ho notato che fra i circa 200 libri che Romero teneva con sé nella sua modesta abitazione presso l’Ospedaletto della Divina Provvidenza i più letti erano quelli con le encicliche pontificie, i documenti del Concilio Vaticano II, il breviario e pagine varie di preghiera e devozione, gli scritti francescani, testi patristici, lavori esegetici e biblici di tipo classico, documentazione varia del CELAM, testi di Puebla, qualche scritto del cardinale Pironio, il Codice di Diritto Canonico, vite di Santi come Giovanni Bosco, opere mariane. In questa biblioteca si trovano i libri più diversi, che spesso Romero riceveva in omaggio, ma raramente apriva e leggeva, in quanto appaiono per lo più intonsi. Nelle carte dell’archivio personale, che si identifica con quello arcidiocesano, più di 50.000 mila testi e documenti, sono conservati anche gli appunti chiesti a Romero da due nunzi apostolici che dovevano spiegare i testi conciliari. Il cardinale Cassidy racconta che nel 1966 con Romero e qualche altro sacerdote facevano spesso giornate di approfondimento sui testi del Vaticano II. Romero si era costruito uno schedario con migliaia di citazioni per predicare, tratte soprattutto dal Magistero. Anche la mattina del 24 marzo 1980, giorno della morte, era andato in una casa al mare con altri preti per studiare un documento di Giovanni Paolo II sul celibato sacerdotale. Basti scorrere le sue numerose omelie piene di citazioni del magistero. Venti giorni prima di morire, il 2 marzo 1980, in una omelia domenicale afferma: “Fratelli, la gloria più grande di un pastore è vivere in comunione con il papa. Per me il segreto della verità e della efficacia della mia predicazione è stare in comunione con il papa. E quando vedo nel suo magistero pensieri e gesti simili a quelli di cui ha bisogno la nostra Chiesa, mi riempio di gioia”. Romero non era il superuomo descritto da qualche biografia o rappresentato in qualche film. E si possono trovare nella sua biografia atteggiamenti non sempre chiari e lineari, soprattutto quando era posto sotto pressione dalle situazioni o dalle persone. In tale contesto, sono piuttosto tortuosi i suoi rapporti con alcuni ambienti romani. Era, oltretutto, di carattere incerto, insicuro, introverso. Andava molto dai medici perché obiettivamente non stava bene, anche in conseguenza della fortissima tensione sopportata. Soffriva particolarmente di insonnia. Il suo confessore degli ultimi anni, un anziano parroco gesuita, il p. Azcue, gli consigliò per questo una terapia psicologica distensiva. Suo malgrado si trovò a vivere in una situazione terribile, estremizzata, polarizzata, ideologizzata, lui che era anzitutto un sacerdote e un amico dei poveri, lui che amava una dimensione pastorale e paterna della vita. In Romero mai troviamo parole di odio verso gli assassini. Ai funerali di un prete assassinato proclama: “Se la Chiesa ripudia la violenza, se la Chiesa non approverà mai un crimine come quelli commessi questa settimana, non lo fa con odio verso chi ha sparato, ucciso, sequestrato, ma con amore dice: Convertiti, convertitevi, non siate più pieni di odio, non uccidete più persone, …Fratelli convertitevi”. La morte Mentre vedeva aumentare la sua responsabilità di pastore, Romero nello stesso tempo sentiva crescere le minacce di morte. Ne era lacerato. Negli ultimi mesi passava non di rado dalla gioia al pianto, dalla depressione più nera alla pace profonda nella preghiera. Quando dormiva si svegliava di soprassalto terrorizzato: qualche frutto dell’albero di avocado che cadeva sul tetto della dimora dell’ospedaletto dove alloggiava, lo scambiava per uno sparo o una bomba contro di lui. Non cercava il martirio anche se sentiva la morte avvicinarsi. Pochi giorni prima dell’assassinio vennero scoperte 72 cariche di dinamite nella chiesa dove doveva andare a celebrare. Gli fu offerta una scorta: la rifiutò per non mettere in pericolo la vita di altre persone. “Il pastore, diceva Romero, non cerca la sua sicurezza, ma quella del suo gregge”. E ancora: “il dovere mi obbliga a comminare con il mio popolo, non sarebbe giusto mostrare paura. Se devo morire, morirò secondo la volontà di Dio”. E: “Il buon pastore non abbandona le sue pecore, non me ne vado”. Romero visse il suo servizio di arcivescovo di san Salvador in un equilibrio sempre più difficile. Lo lacerava profondamente una forte divisione all’interno dell’episcopato salvadoregno, dovuta a questioni ideologiche, ma forse anche personali, di competenze, di rivalità, di prestigio, per il grande rilievo assunto dalla arcidiocesi metropolitana retta da Romero. La divisione tra i vescovi, in effetti, non giunse con Romero; era presente già al tempo del suo predecessore, e fu proprio questa tensione a far cadere la scelta su Romero. E’ vero che non appena Romero divenne arcivescovo la situazione politica precipitò verso un’aspra tensione tra il governo militare e l’opposizione e Romero ne fu come travolto. La violenza dilagava, tra repressione indiscriminata, scontri di piazza, sequestri e atti terroristici, omicidi politici. Era estremamente difficile mantenere l’equilibrio. Giovanni Paolo II, nell’udienza del 7 maggio 1979 e successivamente nel gennaio 1980, manifestò a Romero la sua preoccupazione per questo: si trattava di difendere certo la giustizia, ma anche di evitare che un’affermazione rivoluzionaria mettesse in difficoltà la Chiesa. La risposta dell’arcivescovo fu la seguente: “Santo padre, questo è proprio l’equilibrio che cerco di conservare, perché da un lato difendo la giustizia sociale, i diritti umani, l’amore per il povero, e dall’altro mi preoccupo sempre del ruolo della Chiesa e di evitare che, per difendere questi diritti umani, cadiamo poi in braccio a ideologie che distruggono sentimenti e valori umani”. Romero restò quasi stritolato, per così dire, da una polarizzazione e da una estremizzazione che sembrava non lasciare spazio alla dimensione pastorale e caritativa della sua Chiesa. La sua scelta per i poveri e la difesa dei diritti umani non lo portava a condividere le posizioni rivoluzionarie. Era d’altra parte sempre più distante dal mondo del potere salvadoregno. Intanto si moltiplicavano gli assassini intorno a lui e lui stesso era minacciato. Le sue ultime parole, prima dello sparo fatale, il 24 marzo 1980 furono: “Questa santa Messa, questa eucaristia, è un atto di fede: con la fede cristiana sembra che la voce della diatriba si converta nel corpo del Signore che si offre per la redenzione del mondo e che in questo calice, il vino si trasforma nel sangue che fu il prezzo della salvezza. Che questo corpo immolato e questo sangue versato per gli uomini, ci alimenti per dare il nostro corpo e il nostro sangue assieme a Gesù, non per noi stessi bensì per la giustizia e la pace al nostro popolo”. Fu questo l’Amen di Romero. L’omelia era conclusa. Appena pochi secondi dopo, si sentì lo sparo. E Romero cadde al suolo ai piedi del crocifisso accanto all’altare. Il 14 febbraio 1943 aveva scritto: “Così voglio morire, abbandonato in te e con le mie braccia e la mia fronte chini sulle tue ginocchia;…che io possa morire sotto la tua protezione” Permettetemi di concludere con le prime due strofe di una poesia di p. Davide Maria Turoldo:


“Chi ti ricorda ancora,
Fratello Romero?
Ucciso infinite volte
Dal loro piombo e dal nostro silenzio.


Ucciso per tutti gli uccisi;
neppure uomo,
sacerdozio che tutte le vittime
riassumi e consacri”.