Intervento al convegno su Arte sacra e committenza

Intervento all'incontro su arte sacra e committenza

Eravamo nel mese di maggio con alcuni amici artisti e si discuteva dell’esperienza avvenuta a Terni. Un’esperienza singolare, allorché architetti, pittori e scultori si sono ritrovati insieme con il sottoscritto a discutere su come costruire una chiesa. Era la prima volta che lo facevano. Lo stesso Portoghesi non aveva mai discusso con pittori e scultori per edificare le tante chiese da lui progettate. Questa riflessione era una novità che si è poi concretizzata nella pubblicazione di due volumi, e questo proprio perché singolarmente in Umbria per la prima volta accadeva questo circolo virtuoso che ridava voce e attualità ad un’esperienza che ha fatto grande l’Italia.


Pensiamo a quello che ha rappresentato la committenza agli artisti per tutto il Rinascimento e dopo. Ebbene, quest’oggi vorremmo fare un passo avanti: non parleremo delle opere di cui abbiamo già ascoltato, che qui sono state realizzate. L’idea è invece quella di entrare nel processo creativo dell’artista, prima ancora che generi un’opera. Che cosa, cioè, accade nel pensiero, nel cuore dell’artista o degli artisti quando si mettono insieme per creare un contesto di opere, soprattutto se si tratta di una prospettiva sacra e cristiana?


Un giorno mentre parlavamo di queste cose, Borghi mi ha detto: “Da quando sono entrato in contatto con la dimensione religiosa per creare queste opere, la mia vena artistica si è come arricchita”. Mi ha fatto impressione questa frase e allora ci siamo detti: perché non metterci insieme per una mezza giornata a riflettere su quello che vuol dire l’ispirazione religiosa per gli artisti che devono pensare, riflettere e poi creare un’opera d’arte che non sia fine a sé stessa, ma parte di un contesto non solo astrattamente religioso, ma all’interno di una chiesa o di un edificio che deve invitare alla dimensione religiosa?


Queste riflessioni portano con sé interrogativi: può un artista che non crede realizzare un’opera d’arte cristiana?


E’ una domanda importante, che a mio avviso fa parte di quell’orizzonte culturale in cui rientra il rapporto tra fede e ragione, e tra laicità e fede. E’ un dibattito aperto, e io credo che anche quello che stiamo facendo rientri in questo orizzonte e, a mio avviso, nel pantano nella cultura contemporanea c’è bisogno di una nuova alleanza tra fede e ragione e tra fede ed arte. La separazione tra queste due dimensioni ci porta solo a scendere ancora più in basso – se si può – di quello che già viviamo. C’è bisogno, a mio avviso, di una nuova audacia. E in questo senso credo che una Chiesa senza arte è povera e triste fino al rischio di tradire sé stessa. Ma anche un’arte senza un’aspirazione religiosa è più povera. Se alla ricchezza della tradizione artistica italiana – pensiamo all’Umbria – togliamo l’ispirazione religiosa cadranno montagne di opere d’arte.


C’è bisogno di una nuova audacia tra fede e artisti, perché l’esperienza di Terni ci ha mostrato che questo sposalizio davvero produce una nuova Primavera. Questa è la sfida che vorrei potessimo raccogliere. Io sono convinto che un artista che fa parte di questa strana carovana ternana, è certamente sollecitato. Non  è lasciato solo con sé stesso in una sorta di aurea solitudine, in cui non ha nessun freno ma nemmeno nessuna sollecitazione. Quello che io vorrei proporre, è che l’artista non fosse più solo, ma scenda a confrontarsi con il pubblico. Un artista che vuole fare arte cristiana non può non tenere conto della cultura del pubblico che deve fruire della sua opera d’arte. Da questo dibattito sono nate, ad esempio, le porte della Cattedrale di Terni.


La sfida del pubblico secondo me è determinante. Come anche è determinante il contenuto della fede. Perché un artista contemporaneo, soprattutto italiano, se non si dialettizza nuovamente con il contenuto della rivelazione o della tradizione della Chiesa, rischia una cosa sola: il Codice Da Vinci, cioè la banalità e la sciocchezza. Perché conserva nella sua mente i ricordi del catechismo, e se deve rappresentare Dio lo fa con il triangolo.


C’è bisogno insomma che l’artista prenda il mano il libro santo, la Bibbia, e si scontri con esso. C’è bisogno che prenda in mano la complessità della tradizione della Chiesa, anche nella sua riflessione.


Io  ho qui un piccolo libro, “Arte e teologia: dire e fare la bellezza nella Chiesa”, un’antologia di testi che vanno dal medioevo fino a Guardini, dove si sollecita questo rapporto dell’artista con il contenuto della fede, proprio perché –  Giovanni Paolo II lo dice splendidamente nell’enciclica Fides et Ratio – se la ragione invade il campo della fede, non solo esercita una funzione positiva nell’evitare le esasperazioni della fede, ma essa stessa si arricchisce di nuovi contenuti.


Sono certo che l’iniziativa di oggi avrà eco non solo per la rivista nazionale che se ne fa portavoce, ma anche per aver posto la gemma di una nuova primavera tra l’arte e la fede, tra gli artisti e la Chiesa, per dare un nuovo slancio all’una e all’altra, e soprattutto per far capire tutti che la bellezza è davvero quella che ci salverà, perché se non c’è la bellezza tutto il resto sarà degradato, dentro e fuori, dovunque siamo. Per questo io ringrazio voi che siete qui presenti. Il mio è un saluto un po’ accalorato. D’altra parte aveva ragione il cardinale Ruini l’altro giorno, quando parlando all’assemblea dei vescovi italiani, molti dei quali preoccupati del Codice Da Vinci, diceva alla fine con una saggia proiezione: il problema è che forse noi cristiani, noi cattolici, abbiamo pochi artisti, pochi letterati, pochi uomini di cultura, che sanno prospettare arte, romanzi, letteratura, visioni, migliori di quelle che ci vengono nuovamente proiettate o prospettate.