Inaugurazione anno Accademico Istituto teologico di Assisi

Inaugurazione anno Accademico Istituto teologico di Assisi


Sono lieto oggi di prendere la parola nel salone papale del Sacro Convento di Assisi, un luogo evocativo e importante in occasione dell’apertura solenne dell’anno accademico dell’Istituto teologico di Assisi, che con acume e lungimiranza scientifica ha attivato una specializzazione in teologia fondamentale con preciso riferimento allo “spirito di Assisi”. Ringrazio il preside, don Vittorio Peri, e saluto il vescovo di Assisi, Mons. Goretti, e tutti voi. Prima di tutto desidero anzitutto sottolineare il debito verso l’intuizione che condusse Giovanni Paolo II, dopo la metà degli anni Ottanta, a convocare i rappresentanti delle Chiese cristiane e delle grandi religioni mondiali, per una grande invocazione per la pace. Era il 27 ottobre. Quella giornata rappresenta un’intuizione che farà riflettere gli studiosi del pontificato di Karol Wojtyla.


Il quadro storico in cui è maturata si colloca sul crinale di cambiamenti epocali, la cui portata e i cui effetti stiamo valutando ancora oggi. Le vicende del mondo contemporaneo hanno subito da allora un’accelerazione incredibile, con esiti imprevedibili come è stata la fine dell’impero sovietico, lo sfaldamento del Terzo Mondo, l’avanzata del processo di globalizzazione. Ma allora era ancora tempo di guerra fredda e non era facile prevedere lo sfaldamento dell’impero sovietico. Alla metà degli anni Ottanta, -bisogna ricordarselo-ancora prevaleva la tipica visione novecentesca per cui le religioni erano una realtà residuale che la modernità avrebbe spazzato via con la secolarizzazione. Perché convocarle insieme a pregare per la pace? Il quadro internazionale, dopo l’il settembre, mostra invece come il rapporto tra le religioni sia un elemento di vitale importanza geopolitica in un mondo in cui si parla di guerra di religione o di civiltà. Tra il 27 ottobre 1986 e l’il settembre 2001 la storia è corsa veloce. Oggi lo sconcerto e lo spaesamento sono forti con la globalizzazione e i conflitti: cresce l’esigenza di rifondare saldamente le ragioni della coabitazione fra i popoli, le culture, le religioni….


L’intuizione di Assisi è ancora attuale? O rappresenta un’utopia del passato da archiviare? La giornata del 27 ottobre 1986 Che cosa è stata quella giornata? Il 27 ottobre 1986, Giovanni Paolo II invitò allora i leaders delle Chiese cristiane e delle grandi religioni a pregare per la pace. Si trattò di una giornata di preghiera gli uni accanto agli altri, non più -come disse il papa- gli uni contro gli altri. Si riunirono allora attorno al Papa, 124 fra rappresentanti delle confessioni cristiani e delle grandi religioni mondiali, in questa città, “luogo che la figura serafica di Francesco ha trasformato in Centro di fraternità universale”. Non ci furono discussioni tra i leader religiosi, ma fu una giornata vissuta assieme nella preghiera, conclusa da una cena in comune nel Sacro Convento. Ciascuna comunità pregò per suo conto: ma la vicinanza tra i diversi luoghi di preghiera era eloquente. Infine tutti, con un cammino in comune, giunsero sino alla piazza antistante la basilica per un gesto comune di attenzione a ogni comunità religiosa. Il papa, che fu l’unico a parlare per il saluto iniziale a Santa Maria degli Angeli e per il commiato, stette in mezzo ai leader come colui che aveva preso l’iniziativa e che ospitava l’incontro. Chi ha vissuto quella giornata sa che non la può misurare con il tempo e con le parole. E’ intrisa di un profondo linguaggio simbolico, che fu colto dall’opinione pubblica: infatti fu seguita con grande attenzione e emozione da molti. Assisi 1986 è un libro da leggere con molta attenzione. A riguardo, Alberto Mellone ha notato come questa iniziativa sia stata vista come “una svolta dell’atteggiamento del cattolicesimo contemporaneo verso le religioni”. Ma allo stesso tempo, ha rappresentato una svolta per la ‘ Alberto MELLONI, « La rencontre d’Assise et ses développements dans la dynamique du Concile Vatican II », in Joseph DORÈ (dir.), Le christìanisme vis a vis des religions, Paris, Arbel, 1997, pp. 99-130. Vedi pure Pietro POSSANO, « I Papi, la Chiesa e il mondo delle religioni », in Chiesa e Papato nel mondo contemporaneo. Roma-Bari, Latenza, 1990, pp. 487-534. visione clic le religioni non cristiane hanno del cristianesimo. In Giappone, ad esempio, quell’evento ha avuto una forte ricaduta nel modo di incontrarsi degli uomini e delle donne di religione. Ma Assisi veniva da lontano. Era un frutto del Novecento: un secolo gravido di speranze, ma anche di sofferenze. Secondo recenti stime ben 180 milioni di esseri umani sono morti per la guerra (quasi un decimo della popolazione mondiale nel 1990). Lungo il XX secolo è maturata -lo si vede anche nelle parole dei papi da Benedetto XV con r”inutile strage” a Giovanni Paolo II con “la guerra è un’avventura senza ritorno”- una coscienza dei danni irreversibili della guerra. Due guerre mondiali, l’uso dell’arma atomica, la Shoaà, la minaccia nuclerare, il terrorismo… I popoli hanno maggiormente capito e apprezzato il valore della pace. Le Chiese hanno sentito forte il problema della pace. Lo ha sentito il buddismo, specie giapponese; gli ebrei hanno sentito il problema della sicurezza nella pace.


Il problema della pace si è annodato a quello del dialogo: il dialogo come strumento per raggiungere la pace, ma anche il dialogo tra i mondi religiosi. Nella seconda metà del Novecento gente di religione diversa si è parlata e si è incontrata come non mai nella storia. Non penso a una vana ricerca di confuse unificazioni in laboratori fuori dalla storia, quanto piuttosto a incontri che partono dalla realtà di identità differenti. Sono i percorsi dell’ecumenismo cristiano che hanno segnato tutto il Novecento. Ma vorrei ricordare come entrambe le guerre mondiali hanno dato impulso alla ricerca di dialogo tra i cristiani. Ma non si tratta solo di quell’ecumenismo, che ha registrato tali progressi in qualche decennio, da consentire anche che difficoltà e battute d’arresto non debbano nutrire il nostro pessimismo. Ma c’è anche il dialogo interreligioso, ben più complesso è difficile. Qui ci sarebbero da ripercorrere tanti percorsi: quello del rapporto tra cristiani e ebrei, che parte dal mutuo riconoscimento, dalla cancellazione dell’insegnamento del disprezzo. Ma anche quello tra cristianesimo è isiam, clic Luois Massignon, il grande islamista francese morto nel 1962, voleva vedere nella comunanza abramitica (comprendente anche l’ebraismo). Ed infine quello con le religioni orientali, che i pionieri del dialogo e i missionari avevano cominciato a considerare in maniera nuova.


Il genio di Assisi è riunire insieme, in una pregante signficatività, tutti questi percorsi (ecumenici, bilaterali, interreligiosi). Assisi è la realizzazione plastica e creativa della Nostra Aetate, dove si legge l’invito a “promuovere l’unità e carità fra gli uomini, ed anzi tra i popoli”. I leaders religiosi insieme davanti al mondo, insieme in preghiera, insieme come cercatori di pace. Quale mondo? Quello della guerra fredda, quello in cui c’era scarsa considerazione delle religioni considerate dalla cultura corrente ancora come una sopravvivenza del passato… Eppure, a mio avviso, Giovanni Paolo II, come pochi altri, aveva colto che sotto una lettura molto ideologica del mondo (anche di quelloc comunista), si muovevano altre realtà profonde che determinavano la vita internazionale: le nazioni e le religioni. Lo stava sperimentando nella Polonia comunista. Ma nel 1979 c’era stata la rivoluzione di Khomemi in Iran in nome dell’isiam. E potrei continuare. C’è inoltre un elemento importante, seppure contingente. Il papa intendeva riprendere il discorso sulla pace in quadro che aveva visto i cristiani e i credenti esercitarvi un ruolo piuttosto marginale.


Ma c’è una lettura più profonda. Assisi non è stato un dialogo o un negoziato. Ma si è tratatto della manifestazione comune della fiducia nelle energie spirituali e nella forza debole della preghiera: una preghiera senza commistioni sincretistiche, ma rispettosa delle diversità, fiduciosa della sua forza disarmata. Da allora utilizzo questa espressione, ripresa con libertà dal linguaggio di Paolo: “forza debole”. E non ne ho trovata una più rispondente. Diceva Giovanni Paolo II nel suo discorso conclusivo sulla piazza di S. Francesco:


“Forse mai come ora nella storia dell’umanità è divenuto a tutti evidente il legame intrinseco tra un atteggiamento autenticamente religioso e il grande bene della pace… la preghiera è già in se stessa azione, ma ciò non ci esime dalle azioni al servizio della pace”. E proseguiva: “insieme abbiamo riempito i nostri occhi di visioni di pace: esse sprigionano energie per un nuovo linguaggio di pace, per nuovi gesti di pace, gesti che spezzeranno le catene fatali delle divisioni ereditate dalla storia o generate dalle moderne ideologie. La pace attende i suoi artefici…”. Lo spirito di Assisi e la Comunità di Sant’Egidio. Fin da allora, proprio ascoltando queste parole, mi sono posto il problema di come continuare. Infatti mi ero reso conto, in mezzo agli ospiti di Assisi nel 1986, che si era creato un clima che era qualcosa di più di quello di un meeting. Mi era reso conto di quanto fosse stato liberante, per taluni uomini di religione, incontrare gli altri e di come rischiassero di restare prigionieri di un quadro nazionalistico o solo interno al proprio mondo. C’era però anche la tesi che Assisi doveva restare un fatto isolato anche per la presenza del papa. Ma era stato troppo una proposta e un’immagine suggestiva, perché potesse ossero così. Per questo, nel 1987, convocammo per il primo anniversario di Assisi un nuovo incontro a Roma Trastevere, a cui parteciparono tanti rappresentanti religiosi avvertiti appena tre settimane prima del convegno. Ci rendemmo conto che c’era una grande domanda di continuare. Mi sembrava che uomini di differenti religioni si fossero riconosciuti nella struttura fondamentale del “pacifico”, identificando nella preghiera il momento privilegiato di questa scoperta. La pregheira alla radice della Pace fu il titolo del primo incontro, che fu praticamente solo un momento di incontro personale e di preghiera.


Presentarsi e conoscersi, nel rispetto delle diversità, assumeva anche il significato di abbreviare le distanze e di favorire l’impegno ad estirpare, nelle diverse culture, le radici di incomprensione. Lo sforzo era quello -per usare le parole di Giovanni XXIII- di cercare “ciò clae unisce più di quello che divide”, e di desolidarizzare le tradizioni religiose dalla fatale attrazione della guerra e della violenza. I nostri incontri sono stati come degli indicatori di volontà “altre”, rispetto all’evoluzione storica di questi ultima quindici anni, che ha visto rinascere con accresciuta forza processi identitari. In un mondo globalizzato, quello degli anni Novanta, popoli e gruppi spaesati hanno coltivato con forza la rinascita della propria identità, spesso facendo appello alle religioni, talvolta nel culto della contrapposizione all’altro se non nel conflitto. E’ la storia della ex lugoslavia: le religioni tornano da protagoniste nella vita politica e nei conflitti.


A Roma nel 1987 e nel 1988 si solidificava un movimento di uomini e donne di religioni che si ritrovavano nello spirito di Assisi. Intanto i francescani di Assisi e la Chiesa locale coltivavano sempre più questo richiamo al 1986, facendo della città del santo un luogo di pace e di invocazione di pace. I nostri incontri venivano a stabilire quasi un appunatemnto che raccoglieva nuovi e vecchi interlcouori: non erano i teologi di avanguardia o quelli più vicini, ma personalità che, per la loro autorità o per la loro storia, rappresentavano le comunità. Nel 1989, il primo settembre, ci raccogliemmo a Varsavia su invito del primate Glemp: era una città trepidante di un cambiamento che si sentiva imminente, ma anche trepidante del ricordo dell’inizio della seconda guerra mondiale. Varsavia era la prima capitale europea colpita dall’occupazione nazista. Migliaia di polacchi accoglievano nella piazza del Castello, i numerosi rappresentanti religiosi uniti nel riaffermare con forza: Ww never again^ mai più la guerra. I polacchi portavano ancora il segno della guerra non solo nella memoria, ma anche nell’appartenenza al blocco sovietico e nella democrazia negata.


Ma in quella guerra terribile c’erano le radici dello spirito di Assisi. La seconda guerra mondiale è stata come una scuola di dolore che ha insegnato a molti credenti a non disprezzare gli altri, anche se diversi da sé. I lager sono stati anche scuole di dialogo ecumenico. La guerra è stata rivelatrice della forza del male nell’uomo e nella storia: una domanda a tutti i credenti che partiva da Auschwitz e dai campi della guerra. In particolare era la domanda della fine del disprezzo che Jules Isaak andò a portare a papa Giovanni alla vigilia del Vaticano II. Ad Auschwitz, ci recammo in pellegrinaggio e fu un momento alto. Era la prima volta che rappresentanti di diverse religioni si erano raccolti insieme in un campo di sterminio: ebrei, cristiani, musulmani, buddisti, induisti. Nel campo di Birkenau ripercorrevaiio quel tragitto della morte fino al luogo dei ‘ forni crematori e si univano in un gesto comune, deponendo corone di fiori e pregando silenziosamente in memoria delle vittime dello Schoà e dei milioni di prigionieri sterminati dal nazismo. Ricordo l’impressione di tutti, e l’occasione che ne trassero alcuni capi religiosi musulmani perché si diffondesse mei loro ambienti culturali e religiosi, e tra le giovani generazioni, la memoria dell’Olocausto. Ricordo la corona di fiori deposta insieme dal leaders delle Chiese cristiane tedesche, allora divise nelle due Repubbliche. E’ cresciuta in noi una consapevolezza: lì dove ciascuna comunità religiosa ha affrontato da sola il male rappresentato dalla guerra totale, è stata spesso la sconfitta di tutti, anzi dell’umanità intera. I mondi religiosi, ed è stata l’esperienza tragica della seconda guerra mondiale, si sono accorti di come sia facile lasciarsi beffare dal male, da quel male assoluto rappresentato dai campi di sterminio. Da queste lezioni si è appreso, ad esempio, che cristiani e ebrei non possono vivere prigionieri dell’insegnamento del disprezzo. E’ questa una ferma convinzione della Comunità di Sant’Egidio che a Roma ha uno dei suoi appuntamenti maggiori nella memoria di quel 16 ottobre 1943, data della razzia nazista degli ebrei di Roma. Ed Assisi ha una grande tradizioni di ospitalità agli ebrei durante il secondo conflitto mondiale.


Le religioni, dopo il 1989, hanno subito una spinta prepotente a legittimare e benedire conflitti, mobilitare popoli, giustificare l’odio. Le comunità religiose si sono trovate davanti ad un bivio, tra la manipolazione dei sentimenti religiosi per dividere e opporre e, d’altra parte, 1′ antica e nuova tensione universalistica e unitiva per cui l’uomo, creatura di Dio, è fratello del proprio simile. In questi nostri incontri ho sentito tale bivio: l’isolamento dei credenti che crea o consolida abissi e distanze. Così avvenne nel settembre 1990, a Bari, tra Oriente e Occidente, mentre si era aperta la crisi che portò alla guerra del Golfo. L’autocoscienza delle comunità religiose innanzi ai nouvi scenari appena profilatesi ci condusse a Malta, l’anno successivo, nella consapevolezza che nel nuovo e più confuso assetto internazionale molti potevano provocare un conflitto armato, ma che -allo stesso tempo- molti potevano dare un contributo alla pace. Di fronte al sorgere della crisi nell’ex-Jugoslavia, individuammo con chiarezza insieme a nuove possibilità di impegno per la pace anche gravi responsabilità. Nei giorni di studio, che videro la presenza fra gli altri anche del Presidente della Repubblica del Mozambico, Chissano, fu condotta da varie angolature una serrata critica alla “guerra di religione” la cui eco si coglie nelle due risoluzioni per la pace in Terra Santa (firmata da ebrei, cristiani arabi e musulmani) e in quello per la pace in Jugoslavia. “L’attuale crisi della Jugoslavia non è solo un problema politico -dichiara la seconda risoluzione-. E’ di più, una sfida spirituale per tutta l’umanità… Oggi ci appelliamo in particolar modo alle comunità religiose locali affinchè siano strumenti di pace e di riconciliazione ed inizino l’agognato processo di guarigione all’interno della società così divisa””. La stessa preoccupazione attraversa l’appello finale, firmato da circa 300 rappresentanti. Allo stesso modo, mentre il dibattito sul processo di unificazione europea si approfondiva, nel settembre 1992 ci riunimmo a Lovanio per confrontarci sul tema L’Europa, le religioni, la pace. La manifestazione conclusiva avvenne nella Grande Piace di Bruxelles fu occasione per riaffermare come non si poteva costruire l’Europa distaccata dal resto del mondo. “Nel Sud del mondo cominciano ad allargarsi delle terrae mcognitae – dicevo nella mia relazione introduttiva- intere regioni tagliate fuori dal contatto con lo Stato e con il resto del mondo. Dominate dalla legge della guerra… La tentazione del Nord (e dell’Europa) è quella di ritirarsi, alzando un grande muro che lo protegga dall’insicurezza e dall’instabilità che vengono dal Sud…”.


L’intenso confronto su questi temi ha dato voce alle domande che provengono dai paesi del Sud del mondo raccolte neirappello finale e in un appello speciale, Per non dimenticare l’Africa, formulato dai rappresentanti di quel continente. Intanto, a Roma, si stava svolgendo l’ultima sessione delle trattative per la pacificazione del Mozambico, promosse dalla Comunità di S. Egidio, concluse a pochi giorni di distanza, il 4 ottobre 1992, con la firma dell’accordo generale di pace tra il governo e la guerriglia. Una pietra in più nell’edificio della pace, fondamentale per l’assetto futuro di tutta l’Africa australe, che dimostra quanto può essere rilevante la forza debole dei credenti, pur essendo sprovvista di strumenti politici e diplomatici e quanto sia decisivo il contributo dei credenti alla pace. Nel 1993 ci recammo a Milano, su invito del Card. Martini: qui un particolare significato ecumenico ha acquistato la partecipazione al meeting del patriarca siro-ortodosso Zakka Iwas. Tra le numerose e autorevoli presenze, ricordo quella di Mikhail Gorbaciov, protagonista dei grandi mutamenti nell’Europa orientale, e del rabbino capo d’Israele Lau, che accolse con entusiasmo con gli altri rappresentanti religiosi, la proposta di un successivo incontro a Gerusalemme, avanzata nell’assemblea inaugurale. Era passata appena una settimana dall’accordo tra israeliani e palestinesi. Mi sembra importante ricordare anche l’incontro svoltosi alla fine di agosto del 1995, a Gerusalemme. Non un meeting come gli altri, ma un colloquio su Gerusalemme tra qualificate delegazioni di ebrei, cristiani e musulmani. Per


la prima volta nella storia autorevoli esponenti delle tré religioni monoteistiche si sono incontrati all’interno delle antiche mura della città santa. Si interrogarono sul futuro di Gerusalemme. Un evento storico, vissuto con sobrietà nelle due giornate di confronto e di dialogo, che è sfociato in gesto di pace, significativo nella sua semplicità: furono piantati tré ulivi dentro la città vecchia, nel giardino del patriarcato armeno, a un passo dal Santo Sepolcro, dal muro del pianto e dalla Moschea El Aqsa. Viene da chiedersi in queste ore, mentre la guerra sembra aver sconfitto il processo di pace, se le tré religioni nionoteistiche non abbiano una parola da dire oltre quanto fanno e dicono i politici che perseguono, a loro modo, gli interessi nazionali. E’ un interrogativo che ci inquieta. Ma che anche domanda una nuova audacia, non irrealistica, ma capace di speranza. Nello “spirito di Assisi”, questi incontri hanno rappresentato anche tappe importanti del riavvicinamento fra i cristiani: oltre alla partecipazione di numerosi capi di Chiese e comunioni ecclesiali, vorrei ricordare particolarmente rincontro del 1998 a Bucarest in Romania, cosi significativo specie tra ortodossi e cattolici, e che ha aperto la strada al primo viaggio del papa, in un paese a maggioranza ortodossa. Qui pendeva un grave conflitto tra cattolici orientali e ortodossi. Nell’incontro si dette dignità ai primi e si mostrò rispetto dell’ecumenismo: “niente sarà più come prima” -disse il patriarca Teoctist salutandomi alla fine. L’incontro e la preghiera vogliono tracciare un itinerario di pensoso ritorno dentro di sé. Si legge in un appello finale, quello del * ,non solo l’invinto alla promozione della pace, ma alla conversione alla pace: “La mitezza del cuore, la via della comprensione, l’uso del dialogo per la soluzione dei conflitti e delle contrapposizioni, sono le risorse dei credenti del mondo. Innanzitutto però dobbiamo riformare noi stessi. Nessun odio, nessun conflitto, nessuna guerra trovi nelle religioni un incentivo”. Infatti il messaggio del dialogo non si vuole rivolgere solo all’esterno, ma riguarda se stessi. Assisi: apertura ai mondo. Dall’inizio degli anni Novanta, accanto alla giornata dedicata alla preghiera, i nostri incontri divenivavano come una agorà sui problemi del mondo, sulla vita delle religioni, sul messaggio della fede. La preghiera aveva sviluppato importanti energie di dialogo. La presenza di esponenti del mondo politico agli incontri ha rappresentato un confronto tra visioni differenti della realtà, quella degli uomini di religione e quella dei responsabili civili. Che cosa chiedono questi ultimi alle religioni? Ma anche: quale messaggio i capi religiosi trasmettono ai politici? Numerosi i temi affrontati nelle tavole rotonde: i conflitti nei Balcani, il Libano, il fondamentalismo, il rapporto Nord-Sud, religioni e diritti umani in Asia, ma anche la preghiera, l’ecumenismo, il dialogo tra le religioni… per citare solo alcune delle occasioni di confronto. Non mancarono momenti intensi, come quello dell’abbraccio tra i rappresentanti di Sarajevo, il muftì Selimoski, l’arcivescovo cattolico Pulijc e il vescovo serbo-ortodosso Trifunovic. Ormai al cammino dei religiosi si erano uniti anche i laici: il presidente portoghese Soares, Arrigo Levi, Jaen Daniel… proprio in quella prospettiva di dialogo tra credenti e non credenti proposta dal Vaticano II (e in realtà sviluppata negli anni immediatamente successivi quasi solo con i marxisti). Come non ricordare le parole “francescane” ad Assisi nel 1994 del laico presidente Soares? “Ci troviamo in un periodo di svolta -diceva Soares- e di transizione delle società tecnocratiche e burocratizzate, società del denaro e del potere, verso società del dialogo, nella pluralità delle culture e nella tolleranza… Le religioni hanno un ruolo fondamentale… debbono continuare a promuovere gli incontri tra gli uomini, unite nella dignità della loro condizione e dell’immenso mistero che e il vivere . E’ stato un colloquio tra credenti e laici sul destino dell’uomo, in cui è echeggiata la domanda posta da Camus mezzo secolo fa: “si può essere un santo senza Dio”? Lo spirito di Assisi interroga anche i laici. Mons. Paglia, autore di un importante libro nato nel clima di questo dialogo, Lettera a un amico che non cmte, ha affermato che la via del dialogo è una via amoris’. “in questa via amorìs tutti possiamo ritrovarci, credenti in Dio e credenti solo religiosi, credenti laici e non credenti affatto. Ovviamente, non ci ritroviamo per caso, ma per scelta…”. L’allargamento degli interlocutori del dialogo si è svolto anche in un altro senso: lo spirito d’Assisi ha toccato l’Africa, non solo per una preghiera interreligiosa tenuta a Maputo dopo la firma dell’accordo di pace del 1992. L’Africa è stata spesso al centro della nostra attenzione: ne è stata segno la presenza a Barcellona del Presidente della Costa d’Avorio, Laurent Gbagbo, di autorevoli uomini di cultura, di personalità religiose musulmane e cristiane, cattoliche e ortodosse, del continente, tra cui ben quattro cardinali, il patriarca d’Etiopia, il presidente dei vescovi nigeriani, o dello scrittore Ahmadou Kourouma, che ha gettato uno sguardo acuto e libero sul mondo africano, ben al di là di un terzomondismo obsoleto e di una ancora più vecchia visione eurocentrica. Gli africani, religiosi e politici, hanno sentito che bisognava insistere sulla coesistenza tra le religioni e che Assisi era una risposta. L’Africa ha subito processi di occidentalizzazione e di globalizzazione, che hanno fatto dolorosamente e concretamente la sua storia. Ma oggi rischia di essere ai margini. Ebbene proprio l’Africa rappresenta un banco di prova per le attuali politiche internazionali: è un appuntamento decisivo per una politica che vuole essere saggia. Ma lo è pure per le grandi comunità religiose. Per noi europei l’Africa rappresenta una parte irriiiunciabile del nostro passato, con cui fare i conti per il nostro futuro. Infatti -ed è qualcosa che sentiamo su queste rive del Mediterraneo che è una cerniera- Europa e Africa non sono lontane. Non fanno parte di quello stesso mondo e di quella stessa civiltà? C’è da rinegoziare un nuovo patto tra Europa e Africa, sulla soglia del nuovo Secolo. Non è solo una grande domanda africana. Non solo dall’Africa, sale una domanda dei diseredati di questo nostro mondo, ma anche -paradossalmente-dei popoli più ricchi. Una domanda di un pensiero, di una politica, di una solidarietà. Assisi ancora attuale? Dopo Barcellona, conclusasi il 2 settembre, ci siamo scontarti con l’evento dell’11 settembre. A che serve tutto questo? E’ una domanda sciocca forse, naa istintiva. Si può parlare ancora di pace e di dialogo nel mondo di oggi o è il bei sogno del papa? Vorrei provare a dire come gli eventi dell’11 settembre rendano ancora più necessario proseguire nella vita di Assisi… Il mostro è un periodo di cui Jean Daniel ha scritto: “la scomparsa degli imperi, cioè del cemento federativo o imperiale, la fine delle ideologie unificatrici, la soppressione delle distanze, ma anche l’immensa pressione di coloro che non hanno niente e bussano alla porta o varcano la soglia di coloro che hanno qualcosa, portano a un’accellerazione del cosmopolitismo nella babelizzazione delle lingue, nella sovrapposizione delle culture e nell’aggressività urbana”. E’ quella globalizzazione di cui tanto si discute e che è la nostra realtà. Il nostro è un tempo in cui genti di religione o di etnia diversa vivono più insieme. A quanti mondi diversi appartenevano i morti nelle Due Torri di New York? Sempre meno i mondi sono omogenei. E’ l’esperienza dell’Europa di fronte all’immigrazione, ma anche di una nuova comunanza tra Est e Ovest. E’ la sfida del mondo africano dove, specie in questa stagione difficile, ci si confronta con le fragilità degli Stati nazionali che le differenze etniche, religiose o d’altro genere possono mettere in discussione. E’ la sfida – lo abbiamo detto -della rinascita delle nazioni, dei rapporti tra religioni e nazioni, dei processi di pulizia etnica in alcune regioni del mondo. Ma è anche la sfida del mondo virtuale in cui si entra sempre più a contatto con tutti: nel virtuale si vive sempre più assieme e siamo destinati a incrociarci con chi è diverso da noi. E’, infine, la sfida di un mondo in cui si vede tutto e si vede sempre più la ricchezza di pochi e la miseria di tanti. La condizione umana sta diventando il convivere. Nel mondo contemporaneo, lo straniero si fa vicino. Oppure, drammaticamente, si scopre che il vicino diventa straniero. Oggi, in un mondo globalizzato, gente di fede, etnia, cultura diversa, convive nelle stesse città, sugli stessi scenari, negli stessi orizzonti nazionali. Mentre ancora si perseguono disegni di omogeneità attraverso la pulizia etnica, gente diversa vive insieme senza distruggere le identità nazionali, ma ponendo nuovi problemi. Convivere è la realtà di molti popoli, di molte religioni, di tanti gruppi. Non sempre è facile. Una convivenza con troppe differenze, orizzonti troppo ampi quali quelli della mondializzazione, inducono fenomeni preoccupanti che sono sotto i nostri occhi: individualismi irresponsabili, tribalismi difensivi, nuovi fondamentalismi. C’è gente che si sente aggredita e spaesata di fronte a nuovi vicini e a un mondo troppo grande. Donne e uomini spaesati hanno paura del presente e del futuro; chiedono alle religioni di proteggere la loro paura, magari con le mura della diffidenza. Ne nascono fondamentalismi di generi diversi che, come fantasmi, pullulano e inquietano. Crescono anche fondamentalismi di carattere etnico o nazionalista, che giungono sino al terrorismo. I fondamentalismi sono semplificazioni che possono affascinare giovani, disperati, gente spaesata per cui questo mondo è troppo complesso, inospitale, ma che possono interessare politici spregiudicati alla ricerca di scorciatoie per il potere. E i fondamentalismi hanno il marchio dell’odio e della lotta al diverso. Il mondo, in cui si vede tutto, si è fatto complesso: l’opinione pubblica passa dai problemi interni a quelli di paesi lontani su cui ignora tutto. E* allora il tempo delle semplificazioni: amici-nemici, noi-loro. Dice Sami, il protagonista libanese del libro di Antonio Ferrari: “in guerra sai sempre da che parte stare… scopri in fretta chi sono gli amici, chi sono i menici, chi sono i traditori”. Terribili semplificazioni. La vicenda contemporanea è assai complessa. Le comunità religiose e le nazioni non agiscono solo in base alla loro teologia e alle loro fonti. C’è il peso della storia, più di quanto crediamo! E’ sorprendente come, proprio negli ultimi decenni del Novecento, un secolo che appare il più secolarizzato della storia, anzi un secolo in cui si è teorizzata la scomparsa delle religioni, le religioni, in alcune regioni del mondo, sono state proiettate in uno spazio pubblico. E’ uno spazio talvolta legato alla rinascita delle nazioni, altre volte connesso alla protesta degli esclusi, altre volte al confronto con i conflitti o al ridisegnarsi delle identità. Oggi ci troviamo, con l’il settembre, di fronte a un tentativo mediatico e terrorista allo stesso tempo di marca islamica, che intende aggregare il mondo musulmano contro l’Occidente. Le religioni hanno una responsabilità decisiva nell’evitare i conflitti e nella costruzione della convivenza: il loro dialogo tesse una trama pacifica, respinge le tentazioni a lacerare il tessuto civile, a strumentalizzare le differenze religiose a fini politici. Ma questo richiede audacia e fede agli uomini e alla donne di religione. Richiede coraggio. Richiede di abbattere con la forza morale, con la pietà, con il dialogo, i muri. Grande può essere il compito delle religioni nell’educare all’amore dell’arte del convivere. Grande è anche il compito delle religioni nel ricordare che il destino dell’uomo va al di là dei propri beni terreni -come molte insegnano-, che si inquadra in un orizzonte universale, nel senso che tutti gli uomini sono creature di Dio. Le religioni hanno risposte diverse. Ma il dialogo tra di loro è già un segno di speranza: che gli uomini non si uccideranno più in nome di Dio e non chiameranno Dio per santificare i loro odi, che guarderanno al di là dei propri confini. Ma, scoprendo il volto di Dio, scopriranno il valore della pace m un mondo come il nostro. Per questo c’è bisogno di un avvicinamento amichevole dei diversi mondi religiosi, per fare emergere il messaggio di pace nelle grandi tradizioni religiose. Bisogna guardarsi dentro per trovare il primo messaggio di pace. Anno dopo anno abbiamo seguito lo sviluppo di questo scenario. I nostri incontri sono stati un’immagine viva della convivenza tra religioni differenti. Forse in passato i mondi religiosi si potevano ignorare. In un mondo di grandi distanze e di reazioni lente, quale era quello del passato, ignorarsi era, forse non meno dannoso, ma più facile. La mutua ignoranza oggi conduce rapidamente all’inasprimento. Responsabili religiosi isolati si trovano talvolta intrappolati in orizzonti troppo nazionalisti. L’incontro fa emergere l’universalità, che è propria delle diverse tradizioni religiose. Quindici anni di serrato confronto hanno messo in rilievo ciò che unisce, ma anche ciò che differenzia e divide. Non siamo dei simulatori di unanimismo. Ma non siamo nemmeno impazienti e presuntuosi che vogliono impacchettare in facili processi di omologazione. II dialogo non è perdita di identità: ma senza identità non c’è dialogo. Perché è l’arte paziente di ascoltarsi, di capirsi, di riconoscere il profilo umano e spirituale dell’altro. Dal seno delle tradizioni religiose, capaci di dialogo, emerge l’arte del convivere così necessaria in una società plurale come la nostra. E’ arte della maturità delle culture, delle personalità, dei gruppi. E’ l’arte di cui oggi c’è necessità in tante parti del mondo, mentre crescono le passioni conflittuali e identitarie. Un grande uomo di incontro con le religioni, mons. Pietro Possano, morto dieci anni fa, che gioii il giorno di Assisi, insisteva sempre sul fatto che la via delle religioni è trasformare l’uomo dal di dentro, invitandolo a distaccarsi dal male, guidandolo verso un atteggiamento di pace del cuore. Ogni religione ha la sua strada. Niente è uguale. Negli uomini e nelle donne di fede c’è la convinzione della forza morale. Tutti, non sempre, ne sono all’altezza. Ma ogni comunità religiosa, composta di uomini e donne peccatori, mostra un volto umano e misericordioso, che dovrebbe distanziarsi dalla terribile utopia delle società perfette, che le ideologie e il settarismo hanno voluto edificare con la violenza. La forza morale si connette profondamente all’insegnamento di pietà e di misericordia di tante religioni. La pietà, la spiritualità sono vissute in comunità religiose concrete e locali: ma aprono sempre una finestra all’universale. Dopo VII settembre Si può aggiungere che il dialogo è da cercare e non si può imporre. IL. mondo musulmano sembra non volere il dialogo, almeno maggioritariamente, almeno per la sua simpatia tendenziale con le tesi estreme. La storia del dialogo islamo-cristiano è tutta particolare e non è mai stata facile. Ci troviamo di fronte a più di un miliardo di credenti (come attribuire loro un atteggiamento unitario?); di fronte a un mondo che sente l’umiliazione della sua marginalità rispetto a un Occidente vincente; di fronte a una religione che si sente l’ultima rivelazione; ma anche di fronte a una religione che ha convissuto con ebrei e cristiani, non solo lottato con questi ultimi. Siamo di fronte a uno scontro di civiltà e di religione, cioè del mondo cristiano-occidentale con l’isiam o, più semplicemente, dell’isiam e del cristianesimo? In questo senso, dallo “spirito di Assisi” è scaturita un’iniziativa, che ha visto musulmani e cristiani, raccolti in un summit, che significativamente si apriva il 3 ottobre, e si concludeva il giorno successivo, festa memoriale di S.Francesco. Ad esso hanno preso parte autorevoli esponenti dell’Isiam arabo, ma anche sciita. Fra essi un autorità riconosciuta universalmente dal mondo islamico, quale lo sceich Qaradawi, ha unitamente affermato, insieme agli altri musulmani, ed ai rappresentanti cattolici, ortodossi e protestanti, il proprio diniego deciso al terrorismo e alle forze oscure, sprezzanti della vita umana, quasi espressioiii del nichilismo per cui ogni uomo, ogni religione, ogni valore, può essere strumentalizzato. Aprendo la sessione pubblica, alla quale hanno preso parte i cardinali Martini, Etchegaray, Kasper, come pure il Segretario Generale della Federazione Luterana Mondiale Ishmael Noko, e il Primate Ortodosso di Albania Anastasio, abbiamo fatto nostre le parole che Giovanni Paolo II rivolse a Dio, di fronte ai tanti giovani musulmani a Casablanca in Marocco: “Non permettere che, invocando il tuo nome, noi arriviamo a giustificare i disordini umani”. E’ stata questa un’occasione cruciale per esprimere la solidarietà alle vittime degli attacchi terroristici e allo stesso tempo ribadire e di nuovo mettere in luce come all’interno delle religioni monoteistiche esista un precipuo legame tra fede e pace. Non si è postulata un’alleanza tra due religioni contro qualcosa. Le religioni non si alleano. E’ stato ribadito infatti come per noi cristiani -ad esempio- sia molto importante il dialogo con il mondo laico e con quello ebraico. Piuttosto si è voluto continuare la comune ricerca per non far sì che due mondi si considerino nemici. Niente è scontato nella storia di domani e di sempre. Niente è determinato dalle proprie origini. Bisogna vigilare nel presente per non regalare un intero mondo a rappresentazioni conflittuali. Molto dipende dall’altro. Ma non poco dipende anche dalle nostre parole, dal contatto diretto, dair evitare di cadere nel gioco delle facili rappresentazioni dei media. Nel Novecento, i credenti hanno fatto l’esperienza amara dell’impotenza di fronte al conflitto, il travolgimento degli stessi valori religiosi nella guerra. Sta avvenendo qualcosa di egualmente tragico? Le religioni vengono sconfitte dalla guerra? Sono convinto di come nell’icona rappresentata dalla storica giornata mondiale di preghiera per la Pace di Assisi, e nello spirito che ne è scaturito, si trovino le indicazioni per ritrovare la misteriosa unità del genere umano, e le risorse per decidere della coabitazione pacifica dei popoli e dei gruppi. A partire da essa si è annodato un dialogo tra uomini di religione, troppo abituati a vivere nei confini del loro mondo, a rischio del catturamento in identità nazionalistiche o conflittuali. Tanti e tanti incontri. Amicizia, conoscenza, stima reciproca, resistenza al demone del conflitto. C’è una cultura di Assisi da far rifiorire nello studio, nella pratica, nell’ospitalità, in questi luoghi che hanno sempre tenuto alto lo spirito dell’ottobre 1986. Sono convinto che nuovamente la via della pace e del dialogo passeranno da Assisi. Infatti, se non è possibile determinare le scelte dell’altro, a noi resta la fiducia nella forza della preghiera che si sviluppa in un clima di perdono e di concordia. E’ l’insegnamento del Vangelo, quello di Francesco di Assisi, quello dell’86. In conclusione, vorrei citare un caro amico, Sirat, gran rabbino di Francia. Intervenendo ad uno dei nostri incontri, affermava: v “E necessario proseguire e affinare ancora il processo cominciato ad Assisi. E a supporto di questa volontà, richiamava un insegnamento rabbinico: ‘Rabbi Hama, figlio di Rabbi Hanina, insegnava: Se un uomo che ha formulato la sua preghiera davanti a Dio si rende conto che non è stato esaudito, che ricominci a pregare come è scritto (Sai XXVII, 14): Spera nel Signore, sii forte, si rinfranchi il tuo cuore e spera in Dio’. Cosa significa questa ridondanza? Essa incoraggia l’orante a riprendere forza e coraggio e a pregare di nuovo e ancora il Dio di misericordia finché non venga esaudito…” Ci troviamo, anche noi, in questa situazione vissuta da Rabbi Hama, figlio di Rabbi Hanina. Per questo, dobbiamo riprendere coraggio e forza, e nonostante tutte le inquietudini che ci sono proprie in questo inizio di millennio, dobbiamo conservare intatta la mostra speranza in Dio, Signore della Pace e della Misericordia. Non abbiamo pregato invano ad Assisi nel 1986. Non lo abbiamo fatto successivamente. Il mondo è cambiato. E, mentre pregavamo per la pace, cari amici, siamo diventati tutti più uomini e donne di pace: si compiva in noi la misteriosa trasformazione del dono della preghiera. Sì, perché Assisi vuoi dire che la preghiera è alla radice della pace: da questa radice cresce anche l’albero di una cultura e di comportamenti di pace. Assisi noi» è l’utopia di un papa sognatore, ma forse una realtà che dobbiamo comprendere e esplorare meglio. Noi crediamo che la cultura e la pratica del dialogo trovano nello spirito di Assisi, all’inizio del nuovo secolo così ferito da tanti conflitti, una via e una indicazione. A Barcellona ci siamo interrogati pochi giorni prima dell* 11 settembre, riflettendo su “Le frontiere del dialogo: religioni e civiltà nel nuovo secolo”. Possono le diverse tradizioni religiose far maturare l’umanità? Ricordo quel che Edgar Morin diceva sul perdono, cosi valido in un mondo troppo giustizialista e con poca giustizia: “Soltanto il perdono può far progredire l’umanità”. Questa arte del dialogo è nuova, ma annodata a fili antichi: agisce come lo scriba saggio del Vangelo, che trae dal suo tesoro cose antiche e cose nuove. E’ arte della profondità spirituale, del confronto con i problemi odierni, ma è anche arte dell’incontro umano. Come diceva un poeta brasiliano, Vinicius de Moraes, che esprime bene il sentire di quel paese di convivenza tra culture che è il Brasile: “la vita, amico, è l’arte dell’incontro”. L’arte dell’incontro è la vita! Oggi, tanti credenti hanno compreso quello che molti anni fa, nel 1961, diceva Martin Luther King: “Ho cercato la mia anima, ma l’anima non l’ho vista, ho cercato il mio Dio, ma mi è sfuggito, ho cercato mio fratello, e ho trovato tutti e tré.” L’anima, Dio e il fratello, sono tappe della ricerca decisiva di ogni religione, anche di questo nostro incontro, vissuto come arte di incontrarsi.