Giubieo del lavoro

Giubieo del lavoro

 


Care sorelle e cari fratelli,


 


al termine di questa settimana, che abbiamo aperto con il pellegrinaggio a Roma per il primo maggio con il Papa, ci ritroviamo di nuovo assieme attorno alla mensa del Signore come a concludere un piccolo itinerario che ci ha visti raccolti per due incontri a riflettere sui temi del lavoro. Mi verrebbe da applicare anche a questi nostri incontri quanto scrive Luca. Egli nota che “mentre essi (i discepoli) parlavano di queste cose, Gesù in persona apparve in mezzo a loro”. Sì, potremmo somigliare questa liturgia all’apparizione di Gesù in mezzo a noi mentre continuiamo a dibattere e a riflettere sui grandi e complessi temi del lavoro. E credo che dobbiamo augurarci che il Signore appaia in quel “cenacolo” che è il mondo del lavoro, laddove non di rado siamo presi da preoccupazioni per il presente e per il futuro, quando non da paura e da spavento. Questo “cenacolo” del mondo del lavoro ha bisogno di una presenza concreta del Signore, ha bisogno che Gesù “in persona”, venga. “In persona”, lo dico tra virgolette non per sminuirne la portata ma per intendere questa presenza come una forza spirituale che genera nuova linfa vitale. Tante volte purtroppo sentiamo Gesù come fosse un fantasma, ossia come una persona non esistente nella realtà, una persona del passato, che ha fatto certamente bene ogni cosa, ma che oggi non può fare più nulla. Eppure il mondo del lavoro ha bisogno più che mai della concretezza del Vangelo o, secondo le parole stesse del Papa: “il mondo contemporaneo, sempre più interdipendente, dopo secoli di accese tensioni sociali e ideologiche, ha bisogno del vangelo del lavoro, perché l’attività umana possa promuovere l’autentico sviluppo delle persone e dell’intera umanità”. Sappiamo bene che non possiamo dedurre direttamente dal Vangelo nuove teorie sul lavoro, sul mercato o sull’impresa. Ma certo la frequentazione delle pagine evangeliche porta i cuori e le menti di chi le ascolta a mettersi nella giusta via di quelle scelte che di volta in volta debbono essere prese in rapporto alle diverse circostanze storiche. Il Vangelo resta un lievito che, se lasciato operare, è capace di liberare nuove prospettive perché sollecita l’uomo e la donna a inserirsi con coraggio nella dinamica non solo della creazione ma in quella della stessa risurrezione.


Vorrei intendere in questa prospettiva le parole che Gesù disse ai discepoli appena entrato nel cenacolo: “Pace a voi!” Sono le prime parole del risorto. E la parola “pace” ha un senso pieno nel linguaggio biblico: non vuol dire assenza di guerra, e neppure un’avara tranquillità; vuol significare, invece, pienezza di vita, pienezza di salute, vuol indicare il possesso stabile della terra e dei suoi frutti. Pace è stabilità del benessere sociale del popolo. In tal senso possiamo legarla alla dimensione del lavoro ch’è una dimensione centrale della vita dell’uomo e della sua stabilità. Che pace può esserci in una casa, in un paese, se non c’è lavoro? Pace e lavoro sono inscindibilmente legati, così come lo sono pace e sviluppo, pace e solidarietà. Fin dalle prime pagine della Scrittura appare questa dimensione. All’uomo, infatti, viene affidata tutta la creazione perché la domini e la soggiochi. Dio disse ad Adamo ed Eva: “riempite la terra, soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente” (Gn 1,28). L’uomo è al culmine del creato, ed è lui che dà il nome a tutte le realtà terrestri. E il dominio si esercita con il lavoro, con tutto il lavoro. Gesù stesso, a sua volta, ha speso la gran parte della sua vita come lavoratore. Nella enciclica Laborem Exercens Giovanni Paolo II nota: “L’eloquenza della vita di Cristo è inequivoca: egli appartiene al mondo del lavoro, ha per il lavoro umano riconoscimento e rispetto; si può dire di più: egli guarda con amore questo lavoro, le sue diverse manifestazioni, vedendo in ciascuna una linea particolare della somiglianza dell’uomo con Dio, Creatore e Padre”(26). Sì, Creatore e Padre, due dimensioni che sento particolarmente significative per qualificare il lavoro. L’uomo è “creatore” nel lavoro; è lui infatti la principale risorsa che il mondo ha. Abbiamo parlato in questi giorni della particolare importanza che ha la dimensione intellettiva, spirituale, e quindi culturale e formativa, nel lavoro contemporaneo. Ma l’uomo è anche “padre”; egli cioè non può dimenticare, anche nell’organizzazione del lavoro, gli altri suoi simili, non può assoggettarli a sé o peggio ancora all’impresa, al profitto o alle macchine. L’uomo deve restare al vertice del creato; egli è il fine di ogni cosa, mai uno strumento o un mezzo. Solo l’uomo è fatto ad immagine di Dio e come tale deve essere rispettato.


Gesù, dopo aver pronunciato il saluto di pace, mostra le sue mani ai discepoli. Quelle mani che hanno sollevato e guarito tanti malati, quelle mani che hanno moltiplicato il pane per migliaia di persone, quelle mani che hanno spezzato il pane ai due discepoli di Emmaus e che ora sono segnate, non a caso, dalle ferite dei chiodi, per molto tempo hanno sentito la pesantezza ma anche la dignità e l’altezza del lavoro. E forse anche per questa pratica decennale di lavoro, quelle mani hanno potuto incontrare e capire i tanti bisogni e le tante domande della gente. Abituate alla fatica e al lavoro hanno sentito vicine quelle folle sbandate e bisognose di sollievo. E sento il dovere di rivolgere il nostro sguardo a Giunio Tinarelli, lavoratore qui a Terni, le cui mani fin da bambino dovettero affrontare il lavoro e ben presto furono segnate dal male. Un lavoratore onesto, bravo, diligente. E una volta costretto a letto ha continuato in altro modo il lavoro, un po’ come Gesù in croce. Egli è qui, in cattedrale, tra noi, come esempio della forza del “Vangelo del lavoro”, di cui parla il Papa. Non ne possiamo tracciare qui le linee portanti, ma certo la presenza di Gesù in questo “cenacolo” del mondo lavoro porta a farci considerare ancora una volta la centralità dell’uomo, di ogni uomo, particolarmente dei più deboli. E sento attualissime le parole che il Papa ha rivolto a questo “cenacolo”: “Cari lavoratori, imprenditori, cooperatori, operatori della finanza, commercianti, unite le vostre braccia, le vostre menti, i vostri cuori per contribuire a costruire una società che rispetti l’uomo e il suo lavoro. L’uomo vale più per quel che è che per quel che ha. Quanto si realizza al servizio di una giustizia più grande, di una fraternità più vasta e di un ordine più umano nei rapporti sociali conta di più di ogni progresso in campo tecnico”. 


Ed è in questo orizzonte che si può affrontare con fondata speranza il problema della globalizzazione che ci ha tenuti pensosi in questi giorni. Abbiamo tutti sottolineato che si tratta di un fenomeno nuovo che occorre conoscere e valutare con attenzione per i caratteri di ambivalenza che esso comporta. Il processo di globalizzazione deve essere posto al servizio dell’uomo, di ogni uomo, e non di uno sviluppo svincolato dai principi di solidarietà. Con lungimiranza lo stesso Giovanni Paolo II ricordava “che più il mercato è globale, più deve essere equilibrato da una cultura globale della solidarietà, attenta ai bisogni dei più deboli”. Si tratta infatti di tener presente un’armonica costruzione della società in tutte le sue dimensioni, di cui quella economica è certamente importante. E’ necessaria anche in questo campo una nuova cultura, oltre che nuove regole. E’ una via aperta che deve esser percorsa con coraggio e con creatività a tutti i livelli, compreso quello della nostra realtà.


E’ un orizzonte che può forse creare qualche spavento. Ma il Signore non fa mancare il suo aiuto. Ai discepoli impauriti donò il coraggio e la forza per testimoniare al mondo la novità del Vangelo. Care sorelle e cari fratelli, lasciamoci aprire la mente all’intelligenza delle Scritture e comprenderemo anche le vie del mondo, di questo mondo d’inizio secolo, e del mondo del lavoro. Egli ci sarà vicino e ci sosterrà con il suo Spirito perché anche noi operiamo alla costruzione di un mondo più umano e più giusto.