Giornata Mondiale della Pace

Essere pacifici e vivere da pacificatori

Care sorelle e cari fratelli,


 


il profeta Isaia ci parla di un mondo in cui regna la pace, in cui tutti i popoli vanno “verso il monte del Signore”. E oggi siamo riuniti per pregare insieme per la pace in tutte le terre. La preghiera ci raccoglie e ci sostiene in una via di pace.


La nostra domanda di pace non viene dal desiderio egoista di preservare il nostro benessere: come se, succeda quello che succeda, volessimo comunque restare fuori dai problemi e dalle difficoltà di chi vive situazioni di guerra e di violenza. Non vogliamo tirarci fuori dalle responsabilità di un aiuto, di una solidarietà, di una vicinanza. La nostra domanda di pace viene dal constatare che tanti, troppi, conflitti sono ancora aperti. E non si fa niente o molto poco per chiuderli, per trasformare “le spade in vomeri” e “le lance in falci”, come dice il passaggio del profeta Isaia. Sono tanti i conflitti che continuano a insanguinare la terra.


Ed è necessario intervenire con generosità e con intelligenza, perché la vita di tanti popoli non sia ingoiata da un mostro che sembra ingovernabile o invincibile. C’è tanto lavoro per gli “uomini di buona volontà”. In tanti Paesi, nel Sud e nel Nord del mondo, si vive preoccupati per il proprio futuro, anche perché, con il passare degli anni, ci si rende conto che poco di solido è stato costruito nelle relazioni internazionali. Forse è stata sprecata quella occasione di costruire un mondo di pace che in certi momenti era stata anche offerta. Ed oggi, purtroppo, la guerra è diventata una realtà diffusa ovunque come un’oscura malattia. Il 2003 è stato l’anno della guerra in Iraq, quello del continuo terrorismo, quello del terrorismo antisemita come è avvenuto nella sinagoga di Istanbul, quello della guerra in Liberia, quello di una guerra che continua in Colombia, quello di una situazione instabile in Georgia, per non dire di tante altre difficili situazioni.


E’ vero, ogni guerra vuol portare la pace, ma la guerra sembra ormai divenuta normale. Così come, per alcuni, la violenza terrorista sino al suicidio, è divenuta una via con cui affermare le proprie visioni, spesso folli, del mondo. Questo è malsano e tradisce le grandi attese di un mondo di pace. Il mondo crede sempre meno a vie di pace, e al destino comune di fraternità tra tutti gli uomini. Com’è possibile un mondo senza guerra? Molti, affermando che bisogna essere realisti, credono che sia impossibile. E aggiungono che ci si deve abituare alla guerra. Sì, lo sappiamo: il mondo non è ideale. Ci sono minacce di guerra, c’è l’uso del terrorismo, si costruiscono arsenali di morte che finiscono in mani irresponsabili per sete di guadagno degli uni e per follia degli altri. Il mondo è pieno di covi di violenza.


Eppure, la profezia di Isaia che ci parla di un mondo di pace non è solo un sogno. Essa ci indica una strada percorribile. Ed il Signore stesso ci invita a liberarci dal pessimismo e dalla rassegnazione. Le difficoltà del nostro tempo, le minacce, il terrorismo, i regimi bellicosi, i tanti conflitti aperti non sono per noi l’ultima parola. Il profeta Isaia, in un’epoca antica, segnata anch’essa da tante guerre e conflitti di ogni genere, alzò sul mondo una parola di pace. La nostra preghiera di oggi vuole essere come quell’”alto monte” di cui parla il profeta, sul quale si costruisce “il tempio del Signore” e a cui “affluiscono tutte le genti”. Non siamo soli nella preghiera. Siamo in comunione con tanti, con l’intera Chiesa che oggi celebra la giornata mondiale di preghiera per la pace. Questo ci dà la forza e l’audacia per guardare il futuro nostro e dell’umanità. Non è un compito troppo difficile o che spetta solo ai potenti; è responsabilità di tutti. La preghiera ci chiede di allargare i confini del nostro cuore per ascoltare la voce dei molti popoli che ci invitano a salire oltre noi stessi per chiedere al Signore di indicarci le sue vie e i suoi sentieri. Ce lo chiedono le tante vittime della guerra e della violenza. Ce lo chiedono Annalena che è stata uccisa mentre compiva il suo dovere di carità; ce lo chiede il nunzio apostolico, mons. Michael Courtney, ucciso l’altro giorno in un attentato in Burundi.


L’anno scorso abbiamo celebrato il quarantesimo anniversario della prima enciclica sulla guerra da parte di un papa, quella del Beato Giovanni XXIII, la Pacem in terris, cioè “la pace in tutte le terre”. Giovanni XXIII non si rassegnò alla cultura della guerra inevitabile, nonostante che il mondo fosse carico della minaccia nucleare. La pace non è impotenza; non è egoismo pauroso: è un nuovo nome, un nome eterno, dell’impegno per l’uomo. Questa è la realtà! La pace – diceva Giovanni XXIII – è un “bene comune universale”, che appartiene al mondo intero. D’altra parte la guerra – ne siamo convinti – è un male che rischia di contagiare ben al di là di quelli che si combattono. Per questo ogni avventura di guerra ci trova pensosi, come ogni esperienza di conflitto ci trova impegnati a cercare la via d’uscita.


Ancora una volta, la nostra preghiera vuole attingere a queste parole impegnative: Pacem in terris! Pace in tutte le terre! E vogliamo unire la nostra voce a quella del Papa Giovanni Paolo II, che ha fatto sua – in tante occasioni e di fronte a tante minacce – la voce del suo predecessore. E’ la richiesta che viene certamente dal cuore della Chiesa; ma non solo. E’ una richiesta che condividono i cristiani di tutto il mondo. E sale anche da altre religioni, da tanta gente ragionevole in ogni parte del mondo. E’ la richiesta della pace in tutte le terre!


Per questo oggi alziamo la nostra preghiera e diciamo che la pace è possibile. Oggi comprendiamo meglio che la visione del profeta di un’umanità che trasforma strumenti di guerra e di morte in strumenti di lavoro e di pace non è un sogno irrealizzabile. Come credenti ci rivolgiamo con fiducia al Signore. Sappiamo che Dio ha pensieri di pace e aiuterà e sosterrà l’opera degli operatori di pace.


In tale contesto vorrei annunciare la ripresa dell’antico pellegrinaggio della nostra Diocesi al santuario della Madonna del Ponte. Lo faremo nel mese di settembre e sarà per noi come la ripresa di un cammino. Giovanni Paolo II ha ripetuto che non si debbono alzare muri tra gli uomini e tra i popoli, ma costruire ponti. Il nome del Santuario, la Madonna del Ponte, è un invito a percorrere questa via, a creare ponti di pace, di concordia, di amore. Il Papa, concludendo il suo messaggio di questo primo gennaio, afferma che “solo un’umanità nella quale regni la civiltà dell’amore potrà godere di una pace autentica e duratura”. Fin dal primo giorno di questo nuovo anno vogliamo muovere i nostri passi sulla via della pace, sapendo che l’amore è la via della pace.


 


 


Una riflessione sulla responsabilità dei cristiani per la pace


 


Le tante guerre


I cristiani debbono sentirsi impegnati nella costruzione della pace in modo del tutto particolare, ed è impegno di sempre. Infatti, non possiamo dimenticare le tante altre guerre sparse nel mondo che continuano a mietere vittime innocenti. Dalla Terra Santa a quelle del Medio Oriente, a quelle africane o asiatiche, che dividono i paesi, che tengono in ostaggio intere popolazioni, che impediscono un futuro dignitoso a tanta gente. E poi la grande minaccia del terrorismo, con la sua violenza cieca e con la sua potenza capace di colpire in maniera drammatica.


Che possono fare i cristiani? Come affermare la pace in questo tempo pieno di guerre? Sono domande che bisogna farsi, anche se la risposta non è facile. Ci si sente, infatti, terribilmente irrilevanti e impotenti di fronte alle guerre in corso. L’impotenza e il pessimismo prendono il sopravvento e spingono a ripiegarsi nelle proprie comunità, nelle proprie Chiese, estraniandosi da un mondo troppo grande, in cui si può fare poco. Il ripiegamento all’interno dei propri mondi (piccoli o grandi, parrocchie, diocesi, Chiese) è un atteggiamento che diviene sempre più comune. Ma questo denuncia una mancanza di speranza, che viene inesorabilmente erosa dal pessimismo, dall’impotenza, dal ripiegamento, dall’impegno ad occuparsi degli affari propri, del proprio denaro, di se stessi. L’individualismo dei comportamenti personali corrisponde al ripiegamento nelle istituzioni: è facile che le stesse comunità cristiane si lascino prendere da un’eccessiva autoreferenzialità. La rassegnazione porta ad abituarsi ad una vita senza grandi sogni e senza la speranza di poter costruire un futuro di pace tra i popoli, così è facile scivolare verso la rassegnazione e la guerra, per realismo.


La preghiera per la pace


Di fronte alle guerre il problema della fede è decisivo. Dice Gesù ai discepoli: “Abbiate fede in Dio! In verità vi dico: chi dicesse a questo monte: Levati e gettati in mare, senza dubitare in cuor suo, ma credendo che quanto dice avverrà, ciò gli sarà accordato. Per questo vi dico: tutto quello che domandate nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi sarà accordato” (Mc 10, 22). La fede dei credenti può spostare le montagne. Spesso i cristiani restano ai piedi delle montagne, come intimiditi dalla loro altezza e dalla propria impotenza: si rinuncia così a lottare per la pace, anche di fronte alle montagne di odio e di armamenti; si rinuncia a guardare oltre le montagne massicce che sembrano chiudere l’orizzonte ad ogni speranza.


Non è il coraggio che fa superare la cultura della paura e il senso di impotenza. E’ la fede che porta al di là delle ristrette frontiere delle impotenze, dei timori, delle intimidazioni. I cristiani che entrano in questo secolo sono chiamati a ritrovare la forza debole della preghiera. La preghiera è una grande arma nelle mani dei credenti. Ed è un segreto per i discepoli di Gesù, ma anche per tutti i credenti. E’ questo il segreto degli incontri promossi dal Papa tra i responsabili delle grandi religioni ad Assisi per pregare per la pace. Nel 1986 non era certo la prima volta che la Chiesa si impegnava nella preghiera per la pace, ma in quell’occasione si mostrava plasticamente il raccordo tra preghiera e pace. La preghiera si mostrava come la “forza debole” capace di sconfiggere il male, la guerra. Nel suo discorso conclusivo sulla piazza di Assisi, il Papa affermava: “Forse mai come ora nella storia dell’umanità è divenuto a tutti evidente il legame intrinseco tra un atteggiamento autenticamente religioso e il grande bene della pace…, la preghiera è già in se stessa azione”.


 


Il Vangelo della pace


Nella comunità cristiana c’è un’eredità di pace che il Signore ha lasciato ai suoi discepoli: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo io la do a voi” (Gv 14, 27). E’ il Vangelo della pace, quel Vangelo che spesso viene umiliato dagli stessi discepoli quando soccombono alla paura, o alla violenza, o ai disegni di guerra, o alle sapienze strategiche di questo mondo. La pace di cui parla il Vangelo, è qualcosa di profondo, perché Dio stesso è l’autore della pace: “Egli infatti è la nostra pace…” (Ef 2, 14).


La pace, per i cristiani, non è anzitutto una scelta politica, è piuttosto una dimensione personale, del proprio cuore, della vita, delle relazioni con gli altri. E’ prima di tutto la pace con Dio, che viene dal suo perdono, dalla sua presenza, della sua vicinanza, dal nostro voler bene ai suoi figli e nostri fratelli. La pace è quella che Cristo risorto dona ai suoi discepoli in un tempo di crisi, almeno per loro, all’inizio difficile del loro cammino nella storia. La pace è quel mare in tempesta che si calma, grazie alla Parola di Gesù. Per questo dono, il cristiano è, nel profondo, un uomo pacifico. Se non lo è, vuol dire che si è allontanato dallo stesso Vangelo.


Come uomo pacificato, diviene necessariamente anche pacificatore. Il Signore è mite e umile di cuore; non odia chi lo perseguita, chi congiura contro di lui, chi lo tradisce. Non accetta di essere difeso con la spada in un momento in cui la difesa sarebbe legittima. Il cristiano è chiamato ad essere un pacifico, anche in una situazione difficile, di povertà, di guerra, d’ingiustizia, di persecuzione.


La resistenza alla violenza, alla guerra, all’odio, si radicano nel profondo della stessa identità del cristiano: per questo i discepoli di Gesù, come uomini e donne, sono operatori e quindi comunicatori di pace. La custodia della pace è decisiva in questo inizio di secolo, perché tutto sembra concorrere a lasciarsi travolgere dalle passioni, dagli etnicismi, dai nazionalismi, dai bellicismi, sprecando miseramente e tragicamente il grande dono della pace. L’essere cristiani non immunizza dall’intossicazione di queste passioni. Molto spesso anche i cristiani sono prigionieri della paura, delle passioni, di ragionamenti che mettono all’ultimo posto la testimonianza di pace. Quanto i cristiani sono educati a considerare la pace come qualcosa di sostanziale per la loro vita, come qualcosa di imprescindibile nel loro comportamento, come qualcosa a cui non possono rinunciare?


La custodia della pace


Le comunità cristiane sono chiamate ad essere fraternità di uomini non anzitutto pacifisti, ma pacifici. Essi sono chiamati ad essere pacifici e a vivere da pacificatori, cioè innanzitutto ad avere un senso generoso della propria vita. In un mondo ove tutto si calcola, la generosità, l’amore, possono apparire inutili, soprattutto se non connessi ad un progetto. Essere uomini e donne di pace vuol dire vivere con amore e generosità la vita di ogni giorno, logorando quel senso di contrapposizione, di odio, di rancore, che è nei meccanismi della comune vita sociale. San Francesco, in un mondo ruvido e bellicoso nei rapporti sociali, insegnò il valore della “cortesia”. L’uomo pacifico vive in maniera generosa i rapporti con tutti, anche quelli più casuali, ed in particolare quelli verso i poveri, coloro che non hanno niente da dare in cambio. L’amicizia coi poveri è un segno di pace con quelli a cui la società fa la guerra. L’amicizia con i poveri crea e custodisce la pace, la fa crescere in società indurite nei cuori. L’amore per i poveri semina, anche misteriosamente, al di là della logica del dare e avere, una pace profonda.


 Una missione in un mondo senza pace


            I cristiani, in un mondo come questo, non debbono lasciarsi intossicare dalle passioni o dalla violenza. Per questo il Vangelo della pace non è una moda, ma si radica nel cuore di ogni discepolo e nei fondamenti della stessa comunità cristiana. La Chiesa è un luogo di pace e i suoi figli sono quei sapienti che accrescono la pace del mondo, e le comunità cristiane costituiscono uno spazio di aria pulita, non intossicata dall’odio, in questo mondo contemporaneo dove si respira un’atmosfera pesante e bellicosa. Il Vangelo custodisce il segreto della pace, e ogni volta che viene comunicato un cuore si apre alle ragioni della pace. Le comunità cristiane sono una spazio in cui non ci si può rassegnare all’inevitabilità della guerra e delle sue conseguenze.


La pace, pertanto, non è riservata ai politici. E’ una realtà troppo seria per essere riservata ai politici o ai diplomatici. La pace appartiene a tutti, particolarmente ai cristiani: è la loro missione. C’è un bisogno estremo di pace, e questo bisogno riguarda anzitutto i cristiani. Si potrebbe dire che è bisogno che l’uomo ha di Dio, sete di Dio, del suo regno e della sua giustizia. I cristiani nel mondo di oggi debbono tessere come una rete che raccoglie e custodisce il dono della pace, pregando per la pace; ingegnandosi a realizzarla tra gli uomini. In un mondo segnato da possibili scontri di civiltà, in un universo marcato dalle lotte di religione, in società intossicate dalle passioni, essere cristiani significherà sempre essere uomini pacifici e uomini pacificatori. E la pace si comunica con più forza quando i cristiani sono tra loro uniti. Il male – lo insegna la storia – ha sempre approfittato della divisione fra i cristiani per introdurre i suoi veleni di violenza e di menzogna. Non è la fede cristiana che si riduce a pacifismo; ma è la vita evangelica che, più consapevole di sè, sprigiona una forza di pace.