Festa del Sacro Cuore

Festa del Sacro Cuore - Assisi

Volentieri ho accettato l’invito di don Giorgio a venire a celebrare con voi la festa del seminario, un momento che assieme a voi, cari seminaristi, vede anche altri che qui hanno vissuto la loro formazione sacerdotale. Per me è la prima visita. E sebbene siano appena due mesi dal mio ingresso nella diocesi di Terni, Narni e Amelia, sento che è passato fin troppo tempo per questa mia visita. E’ vero che alcuni di voi li ho già incontrati in occasione della ordinazione sacerdotale di don Stefano che ho avuto la gioia di celebrare all’inizio di maggio; ma attendevo questo giorno. E l’occasione della festa del seminario mi è parsa molto opportuna. Quando poi don Giorgio mi ha detto che cadeva nel giorno della festa del sacro Cuore, ho pensato che tra i tanti titoli che si danno ai seminari, questo fosse particolarmente felice. Infatti, che cosa dobbiamo apprendere per il sacerdozio se non il cuore di Gesù?  Quando Paolo esortava ad avere gli stessi sentimenti che sono in Cristo Gesù, non voleva dire null’altro di diverso da questo. Mi pare perciò che il Vangelo che abbiamo ascoltato delinei bene il compito del seminario e soprattutto il centro del nostro sacerdozio: “volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”. E’ tutta qui a mio avviso non solo la nostra formazione sacerdotale ma l’intera vita del sacerdote. Volgere e far volgere lo sguardo verso il Signore Gesù crocifisso. Guardare non se stessi ma il Signore; amare non secondo se stessi ma secondo il Signore. Non che in seminario, o nella nostra vita, dobbiamo dimenticare le nostre persone o le nostre condizioni. Tutt’altro. Per certi versi siamo stati e siete in seminario per entrare più profondamente nel nostro cuore, nella nostra psicologia, nel nostro intimo. Eppure il sacerdote è uno che ha davanti ai suoi occhi non se stesso ma il Signore. Troppe volte infatti siamo tentati di fermare il nostro sguardo su di noi, sulle nostre intenzioni, sui nostri sogni, sulle nostre aspettative, sui nostri progetti, fossero anche pastorali. Il problema è che tutti facilmente pensiamo che il nostro ideale sia quello di realizzare noi stessi.


L’evangelista ci invita a non andare in questa direzione, che non è quella evangelica e in ogni caso porta verso la tristezza, come accadde a quel giovane ricco di cui parla il vangelo, il quale se ne andò triste, appunto perché pose attenzione sulle sue cose più che su Gesù che lo aveva amato davvero. Il Vangelo ci invita ad andare contro la comune mentalità del mondo che fa consistere la felicità nella propria realizzazione. La felicità sta nell’alzare lo sguardo da sé e avvicinarsi a quel cuore squarciato dalla lancia. E’ un cuore diverso dai cuori del mondo; un cuore che non ha trattenuto nella per se stesso; potremmo dire, non solo non ha trattenuto il sangue, ma neppure l’ultima goccia d’acqua: “uno dei soldati gli colpì il costato con la lancia e subito ne uscì sangue ed acqua”. “Subito”, scrive l’evangelista, senza tanti indugi e senza tanti calcoli. Gesù si è come prosciugato totalmente per amarci. Una incredibile lezione per noi che con tanta accuratezza e determinazione ci risparmiamo, sino a centellinare con il bilancino il nostro impegno, il nostro sforzo, il nostro amore, la nostra generosità. Il Vangelo è una grande lezione di amore, di un amore straordinario che non conosce confini.


Oggi siamo chiamati nuovamente ad immergerci in questo Sacro Cuore, in questo amore senza limiti. Il profeta Osea sembra descrivere gli anni del seminario. Egli fa dire a Dio stesso: “quando Israele era giovinetto, io l’ho amato”. Sì, il Signore ci ha amati sin dalla giovinezza. E’ questo il senso più profondo del seminario, o meglio degli anni di formazione. Mi chiedo, peraltro, se la formazione possa mai terminare. Il profeta ci ripete che Dio ci ama; lo ripete a noi più adulti perché non  lo dimentichiamo, lo ripete a voi più giovani perché ne siate coscienti. Questo tempo, non solo il tempo del seminario, ma questo tempo, il tempo che da inizio al millennio, è un tempo opportuno, un tempo di una nuova chiamata. E’ il senso vero del Giubileo, se non volgiamo ridurlo a riti e a gesti. Questo tempo perciò richiede a tutti noi la disponibilità a lasciarci guidare dal Signore verso un nuovo futuro. Sì, il Signore ci “insegna a camminare tenendoci per mano”; non ci abbandona a noi stessi, non ci lascia schiavi delle nostre abitudini. In questo inizio di millennio Egli, come scrive Osea, intesse “legami di bontà e vincoli d’amore”, ci solleva sino a portarci alla sua guancia, e si china per darci da mangiare. Questo è il Giubileo, il tempo della gioia e della festa, perché scopriamo non tanto che noi vogliamo bene al Signore ma che Lui ci ama sino a dare tutto il suo sangue per noi. Il Signore ha una cuore non di pietra, come noi, ma un cuore di carne, se così si può dire. Si commuove al punto da scendere non solo sulla terra, ma nel più basso di noi. E’ questo cuore che dobbiamo scoprire noi sacerdoti. Solo se comprenderemo questo amore potremmo comprendere il nostro sacerdozio. E solo se scopriamo questo amore potremmo annunciarlo al mondo.


E’ un amore che sin dall’inizio segna le pagine della Scrittura, quando Dio passeggiava nel giardino terrestre con Adamo ed Eva nella brezza pomeridiana, parlando con loro. E? un amore che diviene angosciato quando vede il suo popolo schiavo in Egitto: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, dove scorre latte e miele” (Es 3, 7-8). Questo amore e questa preoccupazione debbono essere nostri. E nostra deve essere altresì la capacità di parlare al cuore della gente come Dio parlava ad Israele: “Perciò, ecco la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore”. Quanti di noi sacerdoti, anche perché oberati dalle attività cosiddette pastorali, non riusciamo più a parlare al cuore della nostra gente? E chi, se non siamo noi,  toccherà quelle corde che uniche possono muovere i sentimenti e i comportamenti? Potremmo continuare a lungo su questo tema. Accenno solo alla grande preoccupazione pastorale che emerge nella preghiera sacerdotale di Gesù al capitolo 17 di Giovanni, quando Egli invoca il Padre per coloro che gli ha dato, perché nessuno vada perduto, estendendo poi la sua intercessione per tutti coloro che arriveranno in seguito. C’è un’ansia nel cuore del Signore che si allarga sino a comprendere ogni uomo e ogni donna, non importa se cristiano o no, e neppure se crederà o meno. Chiunque deve trovare nel sacerdote, e nella Chiesa, una porta ove bussare, una parola buona a cui aggrapparsi, un abbraccio di perdono in cui rifugiarsi. Questa è la Chiesa di domani. Così deve essere il sacerdote di oggi: avere davanti agli occhi il Cuore trafitto del Signore Gesù e cercare in ogni modo di imitarlo. Il Cuore di Gesù resta il metro della nostra pastorale e l’ideale della nostra vita.