Convegno dei Cristiano Sociali ad Assisi

I CRISTIANI E LA POLITICA

Il brano evangelico di Matteo (9, 35-38. 10,1) che abbiamo ascoltato ci immette dentro la dinamica stessa del Vangelo. Siamo all’inizio della vita pubblica di Gesù, ossia di quel cambiamento che significò per Gesù il distacco dalla vita di Nazaret, dalla vita di figlio e di lavoratore senza una visibile rilevanza pubblica. Non è ovviamente da confondere tout court con quella che noi chiamiamo la vita politica, ma certo inizia per Gesù una nuova missione, questa volta, appunto, pubblica, non più ristretta a Nazareth e riservata all’interno della sua casa. Da quel momento Gesù iniziò a spendere la sua vita per cambiare la vita dell’intero popolo ponendosi lui stesso alla guida come buon pastore. L’evangelista, non a caso, parla di Gesù che inizia a percorrere le strade della Galilea visitando città e villaggi annunciando a tutti coloro che incontrava il “Vangelo del regno” e guarendo ogni malattia e infermità.


La compassione


Gesù guariva e parlava mentre vedeva attorno a sé un numero crescente di poveri, di malati, di gente disperata perché non sapeva più a chi ricorrere. Erano folle anche contraddittorie, ma erano stanche e sfinite come pecore senza pastore: gente abbandonata a se stessa, senza che nessuno se ne prendesse cura. E coloro che erano deputati alla loro cura, in verità pensavano ai propri affari, ai propri interessi. Nessuno aveva compassione di quei disperati. Ascoltando queste parole come non pensare alle tante folle di oggi? A quelle povere ed escluse del nostro mondo ricco; Giovanni Paolo II, qualche giorno fa, ammoniva che molta ricchezza può anche generare molta povertà. E poi alle innumerevoli folle dei paesi poveri del mondo dimenticate e escluse da ogni processo produttivo e di reale libertà? Chi ha compassione di loro? Forse i responsabili dei paesi ricchi che a Cancun difendono i rispettivi intersi nazionali a qualsiasi costo, anche a quello di lasciare nella endemica povertà miliardi di persone? Troppo pochi sono quelli che ancora oggi, come Gesù, sentono compassione per queste folle. Ma la compassione evangelica non è una sorta di commozione sentimentale e romantica. E’ molto, molto di più. Nella Sacra Scrittura il contenuto della compassione, o della misericordia, è ricco e complesso; in ebraico sono necessarie almeno tre parole per raccoglierne il senso: “rachàm” (indica un moto che nasce dal profondo delle viscere), “chanàn” (chinarsi fisicamente per soccorrere) e “hesed” (fedeltà incrollabile nel rapporto). La compassione è un sentimento che traversa tutte le pagine del Primo e del Nuovo Testamento e può riassumere l’intera vicenda biblica che lega Dio all’uomo. Dio è un padre che ama in modo viscerale i figli. Paolo, che definisce Dio come “Padre delle compassioni e Dio di ogni consolazione”, descrive così al suo discepolo Tito la manifestazione di questa misericordia: “Quando si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati non in virtù delle opere di giustizia da noi compiute, ma per la sua misericordia (per la sua compassione) mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro” (Tit 3, 4-6).

Lo stesso atteggiamento di Gesù verso i poveri, i lebbrosi, i malati, le vedove, i peccatori, i pubblicani è descritto come una “pietà” viscerale, come una compassione, appunto, che gli sale dal profondo del cuore, dalle viscere. Queste “viscere di pietà” (è il verbo splagchnìzomai) compaiono, ad esempio, nelle tre parabole evangeliche, quella del servo spietato (Mt 18, 27), quella del figliol prodigo (Lc 15,20) e quella del buon samaritano (Lc 10, 33). In tutte e tre queste parabole Gesù descrive l’amore appassionato e senza limiti che Egli ha appreso dal Padre. E questa stessa compassione Gesù la esige dai discepoli: “Siate misericordiosi, come il vostro Padre celeste è misericordioso” (Lc 6, 36). E’ la proposta di un ideale assolutamente impossibile, eppure Gesù non ha timore di proporlo. Ed è in questa compassione che si radica il comandamento del perdono e dell’amore, persino dell’amore per i nemici (Mt 5, 43-48). La compassione del Vangelo, come si può arguire anche solo da questi testi, è ben diversa da quella del pensiero antico o della corrente nichilista contemporanea. Anzi, non ha nulla a che vedere con quella platonica, considerata una debolezza; o con quella aristotelica, che la escludeva dalle virtù; e neppure con quella degli stoici che la ritenevano una malattia dell’anima, “aegritudo animi” (Seneca). Nella nostra cultura è Nietzsche che si pone all’opposto della concezione cristiana: “Nulla è più malsano, in mezzo alla nostra malsana umanità della compassione cristiana”, perché “la compassione (misericordia) intralcia in blocco la legge dello sviluppo che è una legge della selezione. Essa conserva ciò che è maturo per il tramonto, oppone resistenza a favore dei diseredati e dei condannati dalla vita; grazie alla quantità dei malriusciti di ogni specie che essa mantiene in vita, dà alla vita stessa un aspetto fosco e problematico” (L’anticristo). Si potrebbe dire che nella diversa concezione della compassione il filosofo tedesco ha compreso la contrapposizione radicale con il cristianesimo. Attaccare il cristianesimo in questo punto significava colpirlo al cuore, e, con il cristianesimo, l’intera civiltà da esso ispirata. La compassione cristiana in effetti è l’antinichilismo. Mi chiedo, tuttavia, se nella vita concreta non abbia vinto la cultura del filosofo tedesco. La crisi della solidarietà, l’attenuarsi di quel salutare senso del debito verso i poveri che in passato caratterizzava sia la cultura cattolica che quella socialista, sta a significare l’attutimento dell’utopia cristiana, l’edulcoramento della compassione evangelica.
Come si può comprendere non stiamo parlando di una virtù e neppure di un semplice sentimento. La compassione cristiana rispecchia quella stessa di Dio che si lega inscindibilmente al suo popolo. Si scrive nel libro dell’Esodo: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese ove scorre latte e miele” (Es 3, 7-8), dice a Mosé. Da quel momento Dio non ha più abbandonato il suo popolo, perché Egli è il misericordioso, è “Colui che è”, ossia colui che rimane vicino al suo popolo per sempre. Ed è su questa compassione che il cristianesimo contemporaneo dovrebbe misurarsi. Il cristianesimo o è così o non semplicemente non è. Dice Dio a Mosé: “Quando il popolo invocherà da me l’aiuto, io ascolterò il suo grido, perché io sono misericordioso” (Es 22, 26). La misericordia appare qui come la principale qualifica di Dio. E non è senza significato che sia proprio l’oppresso a beneficiare per primo della sua misericordia.
Sarebbe lunga la riflessione sulla giustizia di Dio intesa non come correttezza distributiva, ma come attenzione sbilanciata verso i poveri. Nelle pagine della Scrittura Dio appare essenzialmente squilibrato verso i deboli. E questo fin dall’inizio. C’è un legame radicale che congiunge Dio e i poveri. E questo sin dalle origini. Sin da quando Dio, come scrive il libro della Genesi, preferì il sacrificio di Abele a quello di Caino. “Abel” vuol dire soffio, nulla, debolezza assoluta. “Abel”, più che un nome proprio indica una condizione, la debolezza, o meglio i deboli. Ebbene, Dio, il Dio dei Padri non quello dei filosofi, è un Dio che sta rivolto verso il debole, che privilegia il povero. Questo è il Dio di Gesù Cristo, un Dio che si mette, attraverso il verbo incarnato, al rango degli assassini, pur di mostrare il suo amore per gli uomini. Questo mistero della kenosi è assolutamente inimmaginabile per la ragione umana e di conseguenza dona un altro significato alla concezione dell’Essere perfettissimo. Dio è fatto così, sembra insistere la Scrittura. In ogni sua pagina la Bibbia presenta Dio come il difensore dei poveri e dei deboli, dell’orfano e della vedova. Dio non appare imparziale ed equidistante; in certo senso è “ingiusto” perché privilegia i poveri.

Tale legame privilegiato tra Dio e i poveri, con Gesù giunge sino al limite estremo, quello della identificazione. Gesù, alla fine dei giorni, dirà: “avevo fame e mi hai dato da mangiare”. Con tale affermazione egli si identifica con i poveri, e pone tale identificazione come normativa per la vita degli uomini, più delle stesse manifestazioni “religiose”. Se l’essere stesso di Dio ci è rivelato nel Verbo divenuto uomo solidale con i poveri, è perché l’essere stesso di Dio non può essere concepito come una pienezza ripiegata su se stessa. Dio da sempre è in tensione, quasi in un esodo permanente, da Sé verso l’altro. Acquista allora tutto il suo pieno senso la tradizione pressoché ininterrotta nella chiesa di conferire al povero, ben prima che al Papa, il titolo di “Vicarius Christi”. La vicenda di Dio con i poveri non è perciò una storia che corre al di fuori, quasi una aggiunta esteriore al suo essere profondo. Fa parte della sua stessa vita, del suo stesso essere. Fa parte dello stesso mistero trinitario. La storia dell’amore verso i poveri appartiene alla storia stessa di Dio che, attraverso il suo Figlio, si è fatto fratello dei deboli e dei poveri.
Tale storia appare chiara in Gesù. Ne faccio solo un cenno.


A differenza del Battista, che annunciava una salvezza escatologica, Gesù afferma invece che il regno di Dio viene sulla terra con Lui e si manifesta nella predilezione per i poveri: la liberazione ai prigionieri, la vista ai ciechi, la libertà agli oppressi, la remissione agli indebitati e l’annuncio di un anno di grazia a tutti coloro che aspettano la salvezza. La notizia non è astratta perché i prigionieri sono liberati, i ciechi sono guariti, gli storpi sono risollevati. Quando Gesù afferma: “oggi si è adempiuta questa Scrittura”, si presenta come colui che libera dall’oppressione, dalla malattia e dalla miseria. Egli infatti è attorniato da poveri e da malati. E se ne compiace. Anzi, li chiama “beati”, ossia “felici”. Poveri e malati, perciò, potevano dirsi felici, non perché erano poveri e malati, ma perché il Messia si era messo dalla loro parte, facendo così terminare la loro marginalizzazione.
La preferenza che la Chiesa e quindi i cristiani debbono mostrare per i poveri non è pertanto una scelta di oggi. E’ una scelta di sempre. Ed è totale; e quindi non può non investire anche la politica. E’ una scelta che si potrebbe definire, nella sua radice, teologica, appunto perché tocca l’essere stesso di Dio che “ha tanto amato il mondo da mandare il suo stesso Figlio”, come dice Gesù a Nicodemo. Ed infatti, l’apostolo Paolo scrive ai Filippesi che Gesù “pur essendo di condizione divina, non considerò un tesoro geloso l’essere uguale a Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini”(2, 6-7). Ecco perché la compassione è determinante nella Chiesa. Non può esistere una Chiesa senza la scelta prioritaria per i poveri, così come, nella Bibbia, non esiste Dio senza i poveri. E viceversa. I poveri non sono mai senza Dio. Sì, sono spesso senza gli uomini – pensiamo al ricco epulone che non si è accorto del povero Lazzaro -, mai però sono senza Dio che, appunto, ha ascoltato e accolto Lazzaro. Permettetemi di accennare al vostro nome “cristiano sociali”. In certo senso c’è un termine in più: sociale. Il cristiano, infatti, non può che essere sociale. Infatti, la compassione, la misericordia viscerale non è su di sé ma sugli altri, sui poveri, sulla società. E l’amore biblico non è solo sentimento o emozione, è soprattutto vicinanza, coinvolgimento, condivisione. Gesù ne è l’esempio, Egli che si china a tal punto sui poveri da identificarsi con loro, come leggiamo in Matteo: “avevo fame e mi hai dato da mangiare”. Il cardinale Martini dice che questo è il Vangelo dei laici, dei non credenti. Vorrei aggiungere che l’amore, la compassione è una via larga che supera tutti i confini anche quelli del cristianesimo. Chiunque ama, chiunque è solidale, costui viene da Dio.
 
Il potere dell’amore


La compassione che Gesù sente per le folle lo spinge ad associare alla sua missione altri, i Dodici. E perché si compia la sua stessa missione affida loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire le malattie. E’ il suo stesso potere, perché compiano la sua stessa missione. Gesù dona un “potere” ai discepoli. Non è vero perciò che i cristiani debbono fuggire il potere e allontanarlo dai loro desideri. No, è il Signore stesso che dona loro il suo potere. Ed è un potere reale, efficace, che cambia, che trasforma l’uomo, la storia e il mondo. Il termine usato nel testo evangelico (exusia) indica il potere stesso creativo di Dio che viene dato a Cristo e da lui ai discepoli. Ecco perché Gesù può dire ai suoi: “Se avete fede come un granello di senape, potete dire a questo monte spostati ed esso si sposterà”; e ancora: “Chi crede in me compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi” (Gv 14, 12). Troppo timidi sono i cristiani, troppo timorosi e spesso troppo succubi della cultura dominante. I credenti hanno un potere forte come quello di Gesù. Pertanto il problema nostro non è avere il potere. Il vero problema è non sbagliare tipo di potere. E quando i cristiani hanno sbagliato tipo di potere ne abbiamo visto le tristissime conseguenze. Forse, per evitare questi pericoli, molti sono timorosi e cauti. Sono però davanti ai nostri occhi le conseguenze positive del potere di chi segue il Vangelo. Potrei farne lunghi cenni, mi limito solo a rinviarvi alle innumerevoli testimonianze d’amore diffuse nell’intero pianeta. Certo, Gesù sapeva del possibile equivoco. Per questo, nell’intimità dell’Ultima Cena, mise in guardia i Dodici dicendo loro: “I capi delle nazioni le governano e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Però tra voi non sia così: ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve” (Luca 22, 25-26). Ed egli ha esercitato in questo modo il potere: “Non sono venuto per essere servito, ma per servire”.
Cari amici, il Vangelo ci richiama a scoprire il nostro potere, il potere dell’amore che si esercita servendo non se stessi e i propri interessi ma gli altri a partire dai più poveri. E’ questo il potere evangelico. E ditemi se oggi non ce n’è bisogno! Sappiamo bene che non si possono trarre dal Vangelo immediate indicazioni immediate politiche. Sarebbe un pericoloso cortocircuito. E tuttavia pericolosissima è la separazione tra il Vangelo e la vita, tra il potere che ci viene conferito e la nostra responsabilità verso gli uomini e le donne di questo mondo. Avete parlato in questi giorni della situazione contemporanea e dell’impegno dei cristiani, e pur notando ancora uno iato tra la società e la politica, tra la fede e l’impegno nella politica, avete però sottolineato un qualche risveglio. E c’è bisogno di un risveglio degli ideali. La preoccupante situazione contemporanea chiede a noi tutti un supplemento di attenzione e di intervento o, se volete, un supplemento di utopia e di idealità. Siamo entrati nel nuovo millennio senza sogni e senza prospettive. E quindi senza politica. E quel che purtroppo oggi sembra prevalere inesorabilmente è la forza del mercato e la forza delle armi. Ma la politica dov’è. E quando essa manca, lo vediamo in Irak o nel conflitto israelo-palestinese, non può cessare la spirale della violenza.


La fede contro la rassegnazione


Il panorama fosco e preoccupante che ci appare all’inizio di questo nuovo secolo spinge molti a non pensarci, ad abbassare la testa e a vivere rinchiusi nel proprio orizzonte. Del resto, che si può fare? E noi cristiani cosa possiamo fare? Ci sentiamo terribilmente irrilevanti e totalmente impotenti. E’ facile lasciarsi sopraffare dal pessimismo. Del resto, persino la voce del Papa, l’autorità spirituale più alta nel mondo contemporaneo, non viene presa in grande considerazione dai potenti! L’impotenza e il pessimismo spingono a rannicchiarsi in se stessi, a rinchiudersi nelle proprie comunità, nelle proprie Chiese, estraniandosi da un mondo troppo grande, troppo complesso, in cui per di più si può fare poco. E purtroppo si deve constatare che tale ripiegamento è divenuto un atteggiamento sempre più comune. Sembra tramontato per sempre il sogno di un mondo senza ingiustizie, senza guerra. Il pessimismo, l’impotenza, il ripiegamento, l’impegno ad occuparsi solo degli affari propri, delle proprie cose, dei propri soldi, dei propri interessi, hanno inesorabilmente eroso questo sogno. All’individualismo dei comportamenti personali corrisponde il ripiegamento delle istituzioni. Ed è facile che le stesse comunità cristiane si lascino prendere da un’eccessiva autoreferenzialità e quindi da un clima asettico di fronte alle tragedie del mondo.
Eppure, proprio grazie alla globalizzazione dei media, si può vedere tutto, sapere tutto, anche quello che avviene a distanza. Nessuno, quindi, può più dire “io non sapevo”, sì da giustificare gli atteggiamenti di chiusura e i persistenti individualismi. La rassegnazione porta ad abituarsi ad una vita senza grandi sogni e senza la speranza di poter costruire un futuro di pace e di solidarietà tra i popoli. E si impone sempre più un triste e rassegnato realismo. Può apparire strano, ma nel mondo della globalizzazione sembra esserci poco spazio per le visioni globali, e con incredibile facilità e leggerezza si scivola verso la rassegnazione.

In questo mondo difficile, in cui ingiustizia e guerra sembrano inevitabili, il problema della fede è decisivo. E si deve affrontare ogni giorno. “Abbiate fede in Dio! In verità vi dico: chi dicesse a questo monte: “Levati e gettati in mare, senza dubitare in cuor suo, ma credendo che quanto dice avverrà, ciò gli sarà accordato. Per questo vi dico: tutto quello che domandate nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi sarà accordato”, dice Gesù ai discepoli (Mc 10, 22). La fede dei credenti può spostare le montagne. E’ il nostro potere. Eppure, i cristiani spesso restano ai piedi delle montagne, come intimiditi dall’altezza: si rinuncia così a lottare per la giustizia e per la pace, anche di fronte alle montagne di odio e di armamenti; si rinuncia a guardare oltre le montagne massicce che sembrano chiudere l’orizzonte ad ogni sguardo di speranza.
 Tutti abbiamo più paura. Ma non è il richiamo generico al coraggio che fa superare la cultura della paura e il senso di impotenza. E’ necessario ripartire dalla fede. E’ la fede che porta al di là delle ristrette frontiere dei divieti, dei timori, delle intimidazioni. E’ la fede che fa sperare l’impossibile, e che spinge a sognare quel mondo che già Isaia sognava, ove le lance si trasformavano in falci e le spade in vomeri. La fede rende forti i credenti di fronte al male e anche alla guerra. Dietrich Bonhoeffer, un pastore protestante martirizzato dai nazisti, scriveva alcuni decenni: “Cristo fa l’uomo non soltanto buono, ma forte. Questa forza non è l’arroganza, non è l’aggressività, non è la prepotenza, non sono i giudizi, non è la forza gridata delle campagne elettorali, delle guerre, di chi fa carriera, di chi guadagna molto, di chi si impone o di chi si umilia, ma è la forza dell’amore. Più forte della morte, dell’odio, delle malattie, della povertà, delle dittature, del potere è l’amore”.


Spiritualità e politica


Il terreno su cui la società contemporanea può risorgere e quindi costruire il futuro con solidità è quello, e solo quello, che appartiene alla dimensione più profonda dell’uomo, il terreno della spiritualità. Noi cristiani dobbiamo tornare alle radici della nostra fede e trarre da esse una nuova utopia. Non possiamo guardare il futuro semplicemente con qualche aggiustamento organizzativo o con qualche correzione di rotta. La serietà delle sfide che ci stanno dinnanzi richiede una riscoperta delle motivazioni ideali, e comunque la necessità di colmare la distanza che talvolta sentiamo tra la nostra ispirazione profonda (quella religiosa, etica, morale) e la concretezza delle scelte pubbliche che quotidianamente siamo chiamati ad affrontare. La domanda che scende prepotente dentro ciascuno di noi è chiara: posso, io credente, nella mia azione pubblica prescindere dal legame con le radici che sostengono e guidano l’intera mia vita? Posso, per un presunto e spesso rassegnato realismo, mettere tra parentesi le ragioni più profonde della mia stessa esistenza? La risposta è ovvia. E credo che nessuno di noi ritenga che non ci sia rapporto tra l’azione sociale e l’ispirazione religiosa, tra l’azione politica e le scelte morali che ispirano il nostro pensare e il nostro agire. Il legame tra vita spirituale e vita politica o amministrativa, per un credente, può essere problematico, e talora persino lacerante, ma mai assente. E non parlo, ovviamente, solo di qualche scelta puntuale che ci viene richiesta, o di qualche battaglia specifica che dobbiamo perseguire all’interno degli schieramenti, intendo soprattutto il modo di concepire se stessi e il modo di organizzare la società, o se volete tutto ciò che risponde alla domanda: “quale società vogliamo costruire? quali valori vogliamo che presiedano la vita della società? La riflessione, e l’azione, su questo rapporto non sono stabilite una volta per tutte. L’uomo politico, come pure chiunque amministra la cosa pubblica, è chiamato a rischiare la parzialità delle scelte storiche, la parzialità dei giudizi pratici che possono vedere credenti nella stessa fede talora anche distinguersi nelle rispettive scelte. E, tuttavia, anche la diversità delle scelte non può prescindere da alcune prospettive di fondo. La legittima e forse auspicabile pluralità dei credenti nella vita politica richiede un rapporto ancor più profondo e saldo con la propria fede, con le radici evangeliche del proprio credo.
Non dobbiamo poi dimenticare quanto Giovanni Paolo II diceva nell’ultima assemblea ecclesiale della Chiesa italiana, a proposito della vita politica che i credenti debbono affrontare: “Ci sono valori dai quali i cristiani non possono scostarsi, se non tradendo la loro visione della vita, e ci sono pure alcuni grandi temi su cui sarebbe necessario trovare nuove convergenze”. Penso a temi come la pace, lo sviluppo dei popoli, la solidarietà, la famiglia, la vita, la giustizia sociale, il primato dell’uomo sul lavoro, l’etica pubblica, e così oltre. Si tratta di temi sui quali non possiamo non essere attenti e non portare quel ricchissimo contributo che la tradizione cristiana sino ad ora ha offerto e che è chiamata a rielaborare nelle nuove prospettive. Mi riferisco, ad esempio, alle frontiere della bioetica e della salvaguardia del creato.
C’è bisogno, a mio avviso, di riscoprire e ripensare il rapporto tra la vita religiosa e l’azione politica o amministrativa che il credente è chiamato a svolgere. LO stesso Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica “Christifideles laici”, scrive: “i fedeli laici non possono affatto abdicare alla ‘politica’, ossia alla molteplice e varia azione economica, sociale, legislativa, amministrativa e culturale destinata a promuovere organicamente e istituzionalmente il bene comune”(n.42). Di fronte alla diffidenza verso la politica che tuttavia inizia a fare passi indietro, possiamo riandare alle parole che don Luigi Sturzo, nel lontano 1942, scriveva. In un articolo intitolato: “E’ la politica è una cosa sporca?”, rispondeva: “No, la politica non è una cosa sporca. Pio XI, parlando dieci anni fa a dei giovani belgi, la definì “un atto di carità del prossimo”. Infatti, lavorare al bene di un paese, o di una provincia, o di una città, o di un partito, o di una classe (secondo il rango politico che uno assume) è fare del bene al prossimo riunito in uno Stato, o città, o provincia, o classe, o partito. Tutto sta nel modo di lavorare, nello scopo e nei mezzi. In ogni nostra attività, noi incontriamo il prossimo: chi mai può vivere isolato? E i nostri rapporti con il prossimo sono di giustizia e di carità. La politica è carità, ma non nel senso che non costituisca un dovere; il dovere c’è ed è quello che oggi si chiama dovere civico o dovere sociale. Questo dovere è generico, e tocca l’individuo quando questi si trova in condizioni pratiche di adempierlo” (E’ la politica una cosa sporca? in “Il Popolo”, 7 luglio 1942).

La politica come carità, cari amici, non è possibile senza una tensione interiore, senza un’utopia che inizia a scalzare l’egocentrismo anzitutto da se stessi. Potrei dire, concludendo, che la politica per un cristiano è impossibile senza la santità. Ma forse è vero anche per i laici, anche per loro una seria politica è impossibile senza una tensione interiore. Camus diceva che il suo problema più radicale era questo: come un ateo può diventare santo. Se lo diceva da scrittore. All’inizio di questo nuovo secolo, quei credenti e quei laici che sentono la responsabilità di aiutare un futuro nuovo per il mondo, non debbono porsi ambedue la stessa domanda, ossia “come diventare santi?” Questa stessa domanda sale dalle profondità del mondo contemporaneo: il diffuso bisogno di profezia, e quindi anche della politica.


IL FRAMMENTO E L’INSIEME
“I cristiani e la società italiana: nuovi fermenti sociali e progettualità politica”