Celebrazione dei protomartiri e erezione a santuario della chiesa di Sant’Antonio

Care sorelle e cari fratelli,
questo anno la festa di sant’Antonio la ricordiamo in maniera del tutto particolare. Abbiamo voluto che le reliquie dei primi martiri francescani tornassero qui a Terni e fossero collocate in un apposito altare nella Chiesa di sant’Antonio che, per tale motivo, eleviamo a santuario.
Questi cinque frati erano originari tutti della bassa Umbria, della nostra diocesi di Terni-Narni-Amelia. Berardo, Pietro, Accursio, Adiuto e Ottone, provenienti da Calvi, Stroncone, Sangemini e Narni, attratti dalla predicazione di Francesco di Assisi, ne raccolsero il sogno di predicare il Vangelo tra i musulmani. Sappiamo bene quanto Francesco si diversificasse dall’atteggiamento della maggioranza di allora, compresa quella ecclesiastica. Egli per andare incontro ai musulmani non volle usare la spada, ma solo la parola del Vangelo. Questi cinque frati si misero a predicare il Vangelo senza timore. Dopo essere stati più volte invitati a desistere dalla loro predicazione, furono imprigionati, a Marrachesh, in Marocco, flagellati e, infine, decapitati. Era il 16 gennaio del 1220. I loro corpi vennero riportati a Coimbra, in Portogallo, e lì furono sepolti. Le Fonti raccontano che Francesco, quando seppe della loro morte, esclamò: “Ora, in verità, posso dire di avere cinque veri frati minori”. Il sogno di quei cinque frati, era il suo sogno: il martirio, ossia dare tutta la vita per il Vangelo. Il desiderio del martirio, ossia di dare la vita per Gesù, lo ebbe anche santa Chiara. Sì, anche lei voleva partire in missione per ricevere il dono del martirio. Molti sono gli studiosi che studiano cosa volesse dire quel desiderio di martirio che in quegli anni coinvolgeva molti credenti che volevano seguire il Vangelo. Il senso più evidente era quello di imitare Gesù sino alla fine, sino alla sua morte. Francesco rimase colpito dalla vicenda di questi cinque frati che trovarono la morte nell’annuncio del Vangelo. E se scrisse che la loro imitazione doveva sgorgare dall’ispirazione stessa di Dio, a tutti però era chiesto di dare la propria vita per il Signore. E a lui fu concesso di essere come Gesù sull’Averna quando ricevette le stigmate.
In molte chiese e conventi della nostra Umbria è dipinto il loro martirio. Mi è parso doveroso, care sorelle e cari fratelli, farne memoria in maniera speciale. Ringrazio il vescovo di Coimbra che ci ha consesso in dono parte delle reliquie di questi nostri santi martiri concittadini e di porle in questa Chiesa in un apposito altare perché noi potessimo non solo venerarle ma prendere esempio da loro per seguire il Vangelo con il loro stesso slancio, con la loro stessa passione. Il primo che guardò questi nostri fratelli con grande attenzione fu proprio sant’Antonio di Padova. Egli – si chiamava Fernando – quando vide i loro corpi martoriati tornare dal Marocco a Coimbra, decise di farsi francescano. Fernando cambiò il nome in Antonio per indicare il cambiamento della vita. Volle andare anche lui in Marocco, ma una tempesta deviò la nave sino in Sicilia. E di lì volle venire sino allo Speco di Narni per incontrare san Francesco e per vedere – così disse -“la terra che aveva dato i natali a quegli eroi”. Antonio aveva compreso la lezione evangelica di quei frati, e abbracciò il loro ideale.
Scrive il Vangelo: “Chi vuol salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà”. Antonio comprese che non valeva la pena continuare a vivere la sua vita cristiana in modo abitudinario e scialbo. Sì, facendo magari tutte le pratiche di pietà, osservando le regole, ma vivendo chiuso in se stesso, cercando di “salvare” la propria tranquillità, le proprie piccole tradizioni, il proprio egoismo. Quei cinque martiri mostrarono ad Antonio il senso di queste parole evangeliche che anche noi abbiamo ascoltato: essi dedicando la loro vita per il Vangelo, lasciando persino la loro terra, questa terra di Terni, l’hanno moltiplicata. Dal loro martirio in tanti hanno cambiato il cuore e la vita, a partire da Sant’Antonio, che è divenuto uno dei santi più noti nel mondo.
Care sorelle e cari fratelli, oggi questi santi martiri tornano in mezzo a noi. Imitiamo il loro amore, imitiamo la loro passione per il Vangelo, imitiamo la loro radicalità nel donare la propria vita agli altri. La loro testimonianza è un tesoro per noi. Accogliamoli, custodiamo le loro reliquie, imitiamoli! L’altare dei santi protomartiri diviene una memoria importante. E’ un altare che abbiamo voluto arricchire anche con un nuovo dipinto perché richiami la nostra attenzione e soprattutto perché ci sostenga nella nostra vita cristiana. Essi sono davanti a noi come testimoni del Vangelo: sono i veri forti, i veri credenti, i veri uomini felici. Sì, in loro vediamo quanto scrive Paolo ai Romani: neppure la morte ci separerà dall’amore di Dio. La loro vicenda è tutta iscritta nell’amore. E oggi, il mondo ha sete di amore e di misericordia, di perdono e di bontà. E ha bisogno di uomini e di donne forti, non nell’egoismo e nella violenza, ma nell’amore. E il martirio è il culmine dell’amore. Così ha vissuto Gesù.
Questi cinque frati ci esortano, con il loro esempio, ad camminare per la via dell’amore, a percorrerla fino in fondo. E’ una via che permette di abbracciare tutti. Noi che tante volte ci evitiamo gli uni gli altri, noi che così facilmente cadiamo nell’inimicizia anche con quelli che ci sono vicini, oggi veniamo come scandalizzati dall’amore senza confini di questi cinque fratelli nati in questa nostra terra. Essi avevano seguito il loro padre Francesco il quale, sull’esempio di Cristo, non aveva nemici e tutti considerava amici: “Amici nostri sono tutti coloro che ci causano tristezza e difficoltà, ingiurie e dispiaceri, martirio e morte; questi, li dobbiamo amare teneramente, perché con ciò che essi ci fanno, noi acquistiamo la vita eterna” (Regola non bollata, cap XXII). Care sorelle e cari fratelli, non dimentichiamo questi cinque frati i quali continuano ad insegnarci la via dell’amore.
Il martirio fa parte della vita secondo il Vangelo. Essere martiri infatti vuol dire donare la propria vita, spenderla non per sé ma per il Signore, non per curare se stessi ma per aiutare i più poveri, i più deboli. Mons. Romero, che subì anche lui il martirio trenta anni fa, nell’omelia ad un funerale per un suo prete assassinato, affermava: “Non tutti, dice il Concilio Vaticano II, avranno l’onore di dare il loro sangue fisico, di essere uccisi per la fede, però Dio chiede a tutti coloro che credono in lui lo spirito del martirio, cioè tutti dobbiamo essere disposti a morire per la nostra fede, anche se il Signore non ci concede questo onore; noi, sì, siamo disponibili, in modo che, quando arriva la nostra ora di render conto, possiamo dire “Signore, io ero disposto a dare la mia vita per te. E l’ ho data”. Perché dare la vita non significa solo essere uccisi; dare la vita, avere spirito di martirio è dare nel dovere, nel silenzio, nella preghiera, nel compimento onesto del dovere; in quel silenzio della vita quotidiana; dare la vita a poco a poco? Come la dà la madre,che senza timore, con la semplicità del martirio materno, dà alla luce, allatta, fa crescere e accudisce con affetto suo figlio. E’ dare la vita …”.
Care sorelle e cari fratelli, a ciascuno di noi è chiesto di dare la propria vita, di spendere le proprie giornate amando il Signore e gli altri. Questo è il cuore del Vangelo, il cuore della nostra vita. Se perdiamo l’amore uccidiamo il Vangelo. Non può esistere un cristiano violento, che odia, che trattiene per sé la propria vita. Il cristiano ha un cuore largo nell’amore e nella misericordia. Mi sono rimaste scolpite nella mente e nel cuore le parole che don Andrea Santoro scrisse, pochi giorni prima di essere ucciso in Turchia: “Il vantaggio di noi cristiani nel credere in un Dio inerme, in un Cristo che invita ad amare i nemici, a servire per essere “signori” della casa, a farsi ultimo per risultare il primo, in un vangelo che proibisce l’odio, l’ira, il giudizio, il dominio, in un Dio che si fa agnello e si lascia colpire per uccidere in sé l’orgoglio e l’odio, in un Dio che attira con l’amore e non domina con il potere, è un vantaggio da non perdere. È un “vantaggio” che può sembrare “svantaggioso” e perdente e lo è, agli occhi del mondo, ma è vittorioso agli occhi di Dio e capace di conquistare il cuore del mondo. Diceva san Giovanni Crisostomo: Cristo pasce agnelli, non lupi. Se ci faremo agnelli vinceremo, se diventeremo lupi perderemo. Non è facile, come non è facile la croce di Cristo sempre tentata dal fascino della spada…Ci sarà chi voglia essere presente in questo mondo mediorientale semplicemente come “cristiano”, “sale” nella minestra, “lievito nella pasta, “luce” nella stanza, “finestra” tra muri innalzati, “ponte” tra rive opposte, “offerta” di riconciliazione?”
Nel pronunciare queste parole la mente va subito a Mons. Luigi Padovese, ucciso alcuni giorni fa in Turchia, sgozzato come un agnello. Dieci giorni prima ero stato accanto a lui durante l’assemblea dei vescovi italiani. Cinque giorni dopo viene ucciso in maniera barbara nel giardino di casa. Era un uomo buono, benvoluto da tutti nella cittadina ove abitava. Le stesse autorità turche lo stimavano per la sua bontà, per il suo amore. E, forse, proprio per questo, è stato ucciso. Come fu per Gesù, perché l’amore non viva, perché la bontà venga eliminata. Domani saranno celebrati i funerali anche a Milano. Ci sentiamo vicini alla Chiesa milanese e ai cristiani in Turchia. Il sangue di questo pastore porti amore e non violenza.
Care sorelle e cari fratelli, la vicenda di mons. Padovese si lega a quella dei nostri cinque protomartiri francescani. E a legare questa vicenda è appunto l’amore per il Signore e il desiderio di dare la propria vita per gli altri. Pensiamoci. Le loro reliquie ce lo ricordano. La Lettera agli Ebrei, dopo aver ricordato l’esempio dei tanti cristiani che danno la loro vita per Gesù, scrive a noi: “Voi non avete resistito sino al sangue nella lotta contro il peccato”(12,4).