Anniversario della morte di Oscar Romero

Anniversario della morte di Oscar Romero

24 marzo del 1980. Sono passati 23 anni da quel giorno. Erano circa le ore 18 e Mons. Romero, arcivescovo di San Salvador, stava celebrando la messa nella cappella dell’ospedaledaletto per i malati incurabili. Era arrivato all’offertorio: mentre stava deponendo le ostie sul corporale, dal fondo della cappella partì un solo colpo di fucile, uno solo, e gli scoppiò dentro il cuore. Romero si aggrappò istintivamente all’altare e si rovesciò addosso le ostie che teneva in mano e cadde al suolo in una pozza di sangue. Quel giorno la vittima, l’ostia, era lui, il difensore dei poveri. Il frate poeta, Davide Maria Turoldo, iniziava così una poesia scritta in memoria del vescovo ucciso: “Chi ti ricorda ancora/ fratello Romero?/ Ucciso infinite volte/ dal loro piombo e dal nostro silenzio. // Ucciso per tutti gli uccisi;/ neppure uomo,/ sacerdozio che tutte le vittime/ riassumi e consacri…” Non possiamo tacere la memoria di questo vescovo che ha dato la vita per i suoi amici, i poveri. Non posso non ricordarlo anche in queste pagine: è una di quelle preziosissime eredità che il Novecento ci affida perché fecondi questo nostro millennio appena iniziato. La sua testimonianza sostiene quegli uomini e quelle donne miti che, come lui, non si rassegnano all’ingiustizia e all’odio che stravolgono il mondo. Oggi penso al vescovo colombiano, mons. Duarte, ucciso pochi giorni fa mentre usciva da una chiesa dove aveva celebrato la Messa perché non cessava di condannare i narcotrafficanti. E si può pensare anche a Marco Biagi, ucciso davanti casa. Si badi bene: questi uomini non sono eroi. Sono semplicemente cristiani che cercano di vivere il Vangelo sino in fondo. Sono cristiani come tutti i cristiani, vescovi come tutti i vescovi. Anche loro, come noi, hanno (avuto) paura di morire. Ma non si sono fermati davanti alle minacce. Hanno continuato ad amare e quindi a parlare. E le loro parole e le loro azioni non sono impregnate di odio o di violenza. I martiri non emanano violenza. Da essi solo parole, e forza, di amore. Mons. Romero, commentando le beatitudini, affermava con estrema chiarezza: “Ci sono persone, soprattutto giovani, che credono che non con l’amore delle Beatitudini si fa un mondo migliore, ma optano per la violenza, per la guerriglia, per la rivoluzione. La Chiesa non farà mai sua questa strada, sia ben chiaro una volta di più, la Chiesa non sceglie queste strade di violenza, e tutto quello che si dice in questo senso è una calunnia”. Sì, per mons. Romero, solo i miti – come recitano le Beatitudini – “erediteranno la terra”. Ce lo ricorda anche la memoria dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme che celebriamo in questa domenica. Il profeta di Nazareth entra in città a cavallo di un puledro, come un uomo mite ed umile, ma certo non rassegnato ad un mondo ingiusto e violento. Entra come un pastore buono ch’è pronto a dare la sua stessa vita per amare di tutti. Romero, Duarte e, perchè no, anche Biagi, hanno seguito Gesù: non sono rimasti fuori della “città”. Essi sono entrati dentro di essa, assieme a Gesù, si sono immersi dentro la complessità e la pericolosità della vita della società di oggi, e hanno portato il loro contributo perché si realizzasse una convivenza più umana e più bella per tutti, a partire dai più deboli. E lo hanno fatto pur sapendo i pericoli che correvano. Appunto come Gesù, che ebbe a dire: “Non è buono che un profeta muoia fuori da Gerusalemme”. Dopo l’11 settembre abbiamo bisogno di uomini e di donne, di cristiani e di vescovi, come questi. Essi sono veri martiri. Non possiamo dimenticarli, e soprattutto non dobbiamo ignorare il loro insegnamento fatto di parole e di vita. Non possiamo vivere scarichi d’amore e di passione, forti semmai solo del nostro egocentrismo. Mi chiedo: è possibile, oggi, vivere, senza essere “martiri”, ossia testimoni d’amore? Dopo l’assassinio di un suo prete, Romero disse: “Non tutti avranno l’onore di dare il loro sangue fisico, di essere uccisi per la fede, però Dio chiede a tutti coloro che credono in lui lo spirito del martirio, cioè tutti dobbiamo essere disposti a morire per la nostra fede, anche se il Signore non ci concede questo onore; noi, sì, siamo disponibili, in modo che, quando arriva la nostra ora di render conto, possiamo dire “Signore, io ero disposto a dare la mia vita per te. E l’ ho data”. Perché dare la vita non significa solo essere uccisi; dare la vita, avere spirito di martirio è dare nel dovere, nel silenzio, nella preghiera, nel compimento onesto del dovere; in quel silenzio della vita quotidiana; dare la vita a poco a poco? Come la dà la madre,che senza timore, con la semplicità del martirio materno, dà alla luce, allatta, fa crescere e accudisce con affetto suo figlio. E’ dare la vita…”