33a domenica del Tempo Ordinario

33a domenica del Tempo Ordinario

“Tutti abbiamo ricevuto dei talenti”


La parabola dei talenti (Mt 25,14-30), che ci viene narrata in questa domenica, segue immediatamente quella delle dieci vergini, continuando la predicazione di Gesù sul regno dei cieli. L’evangelista vuole sottolineare quanto sia decisiva tale predicazione. Cos’è il regno dei cieli? Come si entra in esso? Cosa bisogna fare? Sono alcuni degli interrogativi che l’evengelista Matteo vuole chiarire. Il linguaggio, tratto dalla vita quotidiana e fatto di immagini e avvenimenti che a tutti può essere capitato di vedere, è teso non solo a far comprendere cos’è il regno dei cieli, ma anche a far sgorgare dal cuore di chi ascolta la decisione per il regno.


La parabola inizia narrando di un uomo che sta per lasciare la sua casa per andare in un paese lontano. Prima della partenza, convoca i tre dipendenti e consegna loro i suoi beni. La sua fiducia in loro è assoluta, tanto che a ognuno affida una grossa somma di talenti.


Il talento era una somma enorme: corrispondeva a circa cinquanta chili d’oro (è quanto chiesero i tedeschi agli ebrei romani pochi giorni prima di quel tragico 16 ottobre 1943, quando furono deportati). La consistenza del patrimonio fa comprendere l’importanza dell’incarico dato dal padrone ai tre dipendenti. Al primo affida in gestione cinque talenti, al secondo due e al terzo uno. La consegna, come si vede, è personale. Non siamo di fronte a una piatta omologazione: il padrone rispetta che capacità di ognuno (capacità sempre notevoli, se si tiene presente l’enormità della cifra).


Tra la partenza e il ritorno del padrone, i tre dipendenti debbono far fruttare quanto è stato consegnato loro. E’ chiaro che essi non ne sono padroni, ma amministratori. Infatti, al suo ritorno il padrone chiederà loro come hanno amministrato quello che hanno ricevuto. Il primo dipendente raddoppia il capitale “operando con esso” (v.16), fa altrettanto il secondo (v.17). Il terzo,invece, fa una buca nel terreno e vi nasconde il talento ricevuto. C’è da notare che il sotterramento del talento no è poi così strano; corrisponde a un dettato della giurisprudenza rabbinica secondo la quale chi, dopo la consegna, sotterra un pegno o un deposito, è liberato da ogni responsabilità.


Al ritorno dal padrone, il primo servo si presenta e riceve la lode e la ricompensa. Il secondo di avvicina e anche lui presenta il doppio di quanto aveva ricevuto, ottenendo una ricompensa. Il terzo si accosta e riconsegna al padrone quell’unico talento che aveva ricevuto. Premette anche il motivo del suo gesto: aveva paura di un padrone cattivo e voleva quindi mettersi al sicuro secondo la più stretta consuetudine giuridica.


Quel talento, quei talenti, sono la vita, non quella astratta ma quella concreta, di tutti i giorni, fatta del rapporto tra noi e il mondo. Tutto ciò è consegnato alla responsabilità di ognuno perché lo faccia fruttare. E a ciascuno è dato secondo le sue capacità. Questo vuol dire che non c’è uguale misura di vita per tutti, ma anche che nessuno è incapace di far fruttare la vita; nessuno può avanzare scuse (la mentalità, l carattere, la stessa malattia e l’indebolimento…) per sottrarsi alla responsabilità di impiegare la propria vita facendola fruttare. Semmai è frequente che la si faccia fruttare solo per sé stessi, che la si impieghi solo per il proprio tornaconto, per la propria particolare sicurezza, per la propria tranquillità e basta.


E’ quanto ha fatto il terzo servo: ha sotterrato il talento per avere “pace e sicurezza”, come scrive l’apostolo Paolo nella prima lettera ai Tessalonicesi. Il terzo servo aveva dalla parte sua la legge che lo liberava da ogni responsabilità  e soprattutto dai rischi dell’impegno. La parabola avverte che questo servo, in realtà, ha preferito nascondere la sua vita in una buca, in una avara ed egoistica tranquillità. Forse è orario qui la paura. Paura non tanto nei riguardi del padrone quanto di perdere la sua tranquillità avara. Gesù, con questa parabola, da una parte svela l’ambiguità di colui che si contenta di come è, senza avere nessun desiderio di cambiare, senza nessuna aspirazione di trasformare la vita e, perché no, senza alcuna ambizione perché la vita di tutti sia più felice. Dall’altra mostra che il regno dei cieli inizia quando ognuno di noi, piccolo o grande che sia, forte o debole, non si chiude nell’avarizia e nella grettezza del ripiegamento su sé stessi, ma si apre alla vita, all’impegno per cambiare il proprio cuore, al desiderio operoso che la vita dei più deboli sia sollevata, che questo nostro mondo sia più vicino al vangelo.


Sarà così che la nostra vita sarà moltiplicata, la nostra debolezza sarà resa forza, la nostra povertà ricchezza,, la nostra gioia sarà piena: “Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità sul molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone” (vv.21.23).