XXXIV Domenica del Tempo Ordinario

Dal vangelo di Giovanni 18,33-37

Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: “Tu sei il re dei Giudei?”. Gesù rispose: “Dici questo da te oppure altri te l’hanno detto sul mio conto?”. Pilato rispose: “Sono io forse Giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cosa hai fatto?”. Rispose Gesù: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù”. Allora Pilato gli disse: “Dunque tu sei re?”. Rispose Gesù: “Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”.

Con questa trentaquattresima domenica si chiude l’anno liturgico. È vero che solo chi va in chiesa se ne accorge. Si tratta, infatti, di una data che non corrisponde a nessun avvenimento amministrativo, scolastico o di altro genere, che in qualche modo apre o chiude un periodo particolare. In verità l’intero anno liturgico risponde a una misurazione del tempo ch’è al di fuori delle normali consuetudini degli uomini. Ed è giusto che sia così. Il tempo liturgico, infatti, non nasce dal basso; non è originato dalle misurazioni degli uomini e dalle loro scadenze. È un tempo che viene dall’alto, da Dio; è il “Tempo” di Dio che entra nel “tempo” degli uomini; è la “Storia” che irrompe nella “storia” degli uomini. Si potrebbe dire che l’anno liturgico è Cristo stesso, contemplato di domenica in domenica. In quest’ultima domenica, che chiude il tempo liturgico, vediamo il Cristo alla fine dei tempi come “re dell’universo”. La Parola di Dio anche in questa domenica, come ha fatto sempre, ci prende per mano e ci introduce nella contemplazione della regalità di Gesù. Non si tratta di vedere da esterni questo mistero: ci siamo dentro. L’apostolo Paolo esorta ognuno di noi a ringraziare Dio “che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto” (Col 1,13). Siamo davvero dei “trasferiti”, o se volete degli “emigrati”, da questo mondo, dove regnano le tenebre, a un altro mondo, ove regna il Signore Gesù. E che questo mondo di Gesù sia “altro” dal nostro appare evidente dalla scena evangelica che oggi ci viene proposta come immagine della regalità: Gesù inchiodato sulla croce con accanto due ladri.
Qualcuno, scusandosi per la vena dissacrante nel paragone, ha detto che questa è la foto ufficiale del nostro re (è vero che l’abbiamo messa in tanti luoghi, ma l’abitudine con cui la guardiamo le ha fatto perdere il suo valore di scandalo, di pietra d’inciampo, per divenire spesso unicamente un oggetto di ornamento). Non c’è dubbio che si tratta di uno strano trono (la croce) e di una corte ancor più strana (due ladri). Eppure Gesù afferma senza mezzi termini che lui è re, e che lo è proprio in questo modo. L’apostolo Paolo raccolse questa convinzione e la trasmise alle Chiese, ben sapendo dello scandalo che avrebbe provocato. Ai cristiani di Corinto scriveva: “Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani” (l Cor 1,23). Gesù è re da crocifisso; in questo modo egli esercita il suo potere regale. Gesù, del resto, l’aveva detto più volte ai discepoli nei tre anni che era stato con loro. Poco prima di morire disse loro: “I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così” (Lc 22,25-26). E Gesù lo mostra per primo con la sua vita e la sua morte. Mentre sta inchiodato sulla croce gli arriva un identico suggerimento da più parti: “Se tu sei il re dei giudei, salva te stesso” (23,37). Glielo dicono i capi dei sacerdoti, glielo gridano i soldati, e glielo urla anche uno dei ladri appeso accanto a lui. Le persone sono diverse, ma il ritornello è sempre lo stesso: “Salva te stesso”. In queste tre semplici parole è racchiuso uno dei dogmi che fondano più radicalmente la vita di ognuno di noi. E questa dottrina l’abbiamo appresa fin dall’infanzia. In essa è racchiusa la regola di vita, è sintetizzato il metro per giudicare ogni cosa, è simboleggiata la discriminante che ci fa accettare questo e rifiutare quello.
Ebbene, sulla croce è sconfitto questo dogma. L’amore ha annientato la convinzione più profonda che presiede alla vita degli uomini. Tutti salvano se stessi in questo mondo. L’unico che non ha salvato se stesso è stato Gesù. In tal senso il potere regale trova proprio sulla croce il suo punto più alto. E ne vediamo immediatamente l’effetto. Gesù re, non cedendo all’ultima tentazione, appunto quella di salvare se stesso, salva uno dei due ladri solo perché questi ha intravisto fin dove l’amore lo aveva condotto. La festa di Cristo, re dell’universo, è la festa di questo amore, un amore che ha dato tutto se stesso per gli uomini. Su di esso è fondata tutta la nostra speranza, il nostro oggi e il nostro domani.