Le traduzioni della Bibbia per la vita della Chiesa cattolica

Intervento al convegno promosso dal Patriarcato di Mosca dal 26 al 28 novembre 2013

Si può discutere all’infinito su come tradurre un testo e, in special modo, su quali criteri adottare per le traduzioni della Bibbia in lingua corrente. Tuttavia, l’interrogativo di fondo, al quale non è impossibile rispondere, pur ammettendo più di una risposta, è: “Perché tradurre”? Si tratta della domanda di senso che qui vorrei considerare a proposito delle traduzioni della Bibbia per la vita della Chiesa cattolica.

Ci conforta assai sapere che la gente ha ancora sete della Parola di Dio e che molte persone sono disposte a investire una parte del loro tempo nella meditazione e nell’approfondimento della Sacra Scrittura. Di fatti, anche se l’uomo e la donna contemporanei vivono nell’era della globalizzazione e navigano su autostrade d’informazioni, spesso si riducono a un tipo di conoscenza – o di relazione – virtuale e impersonale, ove tempo concreto da dedicare all’ascolto, al silenzio, alla meditazione, alla contemplazione del volto d’altri, non ci è dato.

Il rapporto con Dio attraverso la Sacra Scrittura ci educa a un dialogo interpersonale che ha bisogno di essere curato in tutte le sue relazioni: con il creato, con la Parola, con il mondo, con gli altri… Affinché questo dialogo si realizzi concretamente nella nostra vita abbiamo bisogno di mediazioni, quindi anche di traduzioni…

1. Dio parla il nostro linguaggio

Nel linguaggio, la Parola di Dio e la parola dell’uomo sono la medesima realtà[1]. Infatti, nel linguaggio, l’io è raggiunto dall’altro in modo autentico e reale. Che si tratti di Dio o dell’uomo o delle cose, la lingua è forma e mediazione dell’incontro fra diversi. Se è vero che il linguaggio è la rivelazione dell’essere e di quello che siamo, allora Dio si rivela attraverso la parola dei suoi profeti e dei suoi mediatori, vincolandosi ad essi (al loro mondo, al loro modo di esprimersi e di pensare) per sempre. In questo parlare le nostre parole, Dio stesso vive già una sua certa spogliazione o inizio di kenosis.

In tal senso, la fede d’Israele nella parola profetica come parola di Dio continua inalterata «anche quando quel messaggio non lo si intende più dalla viva voce dell’inviato divino, bensì viene ritrovato scritto in un libro e viene ascoltato nella proclamazione liturgica. Anche qui, come nel caso del libro della Torah divina, Israele professa e accoglie la voce di Dio, il suo giudizio, la sua volontà»[2].

2. Un principio biblico da non dimenticare: “Ascolta Israele”

Le traduzioni della Bibbia si realizzano nella convinzione che il credente si trova sempre innanzi alla Parola che è chiamato ad ascoltare. Le traduzioni, in tal senso, servono a far scorrere meglio la Parola nelle culture e nei contesti sociali e religiosi delle comunità credenti. Per la Chiesa cattolica, la Bibbia, e in modo particolare il Vangelo, è prima di tutto un «annuncio». Quindi, soprattutto nella proclamazione liturgica, la Bibbia esprime in modo più evidente e immediato la sua vera natura e finalità, e allo stesso tempo rivela il suo rapporto con il credente. Di questo rapporto tra la Scrittura e il popolo di Dio ne dà testimonianza la stessa Bibbia. Nel libro di Neemia è scritto, infatti, che «Il primo giorno del settimo mese, il sacerdote Esdra portò la legge davanti all’assemblea degli uomini, delle donne e di quanti erano capaci di intendere […] tutto il popolo porgeva l’orecchio a sentire il libro della legge» (Nee 8,2-3). Il popolo è, quindi, «davanti» al libro in atteggiamento di ascolto. Per la comunità cristiana questo atteggiamento di ascolto assume un significato ancora più profondo nella santa liturgia, come ricorda la Sacrosanctum Concilium quando afferma che Cristo: «è presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura» (n. 7). Già Origene, all’inizio del III secolo, spiegava ai suoi uditori: «Quando leggi che Gesù insegnava nelle sinagoghe, onorato da tutti, sta attento a non considerare fortunate soltanto le persone che potevano ascoltarlo, ritenendoti escluso dal suo insegnamento. Se la Scrittura è la verità, allora Dio non ha parlato soltanto una volta nelle riunioni degli ebrei, ma parla ancora oggi nella nostra assemblea»[3].

La traduzione della Bibbia in lingua corrente, anche se compito particolare degli esegeti, non è tuttavia loro monopolio poiché essa coinvolge nella Chiesa aspetti che vanno al di là dell’analisi scientifica dei testi. La Chiesa, infatti, non considera la Bibbia semplicemente un insieme di documenti storici concernenti le sue origini; l’accoglie come Parola di Dio che si rivolge ad essa, e al mondo intero nel tempo presente. Questa convinzione di fede ha come conseguenza uno sforzo di attualizzazione e di inculturazione del messaggio biblico, come pure l’elaborazione di diversi modi di uso di testi ispirati, nella liturgia, nella lectio divina, nel ministero pastorale.

3. Un largo accesso alla Scrittura

Il fenomeno moderno delle traduzioni della Sacra Scrittura rientra in quel processo di attualizzazione della Bibbia che è molto caro al Concilio Vaticano II, per il quale, come afferma Dei Verbum 22, «è necessario che i fedeli abbiano largo accesso alla Sacra Scrittura». Se è vero che tradurre è sempre un po’ tradire il testo che abbiamo di fronte – sia perché a volte appare difficile riporre in lingua corrente un idioma o riformulare un particolare uso di un verbo al passato, sia perché si corre il rischio di svilire il Mistero stesso che avvolge le Parole sante –, è altrettanto vero, però, che il processo ermeneutico per la comprensione e l’attualizzazione della Parola di Dio è intrinseco alla vita stessa della Chiesa, visto che la Parola deve essere «a disposizione di tutti in ogni tempo» (Dei Verbum 22).

A tale scopo, la Chiesa cura con materna sollecitudine affinché ci siano traduzioni appropriate e corrette nelle varie lingue, di preferenza a partire dai testi originali dei sacri libri. Se, per una ragione di opportunità e con il consenso dell’autorità della Chiesa, queste saranno fatte in collaborazione con i fratelli delle altre tradizioni cristiane, potranno essere usate da tutti i cristiani.

«La Chiesa fin dagli inizi fece sua l’antichissima traduzione greca del Vecchio Testamento detta dei Settanta, e ha sempre in onore le altre versioni orientali e le versioni latine, particolarmente quella che è detta Volgata» (Dei Verbum 22). Le traduzioni della Bibbia sono necessarie affinché tra i fedeli si raggiunga un’intelligenza sempre più profonda della Scrittura per poter nutrire di continuo il popolo di Dio. Perciò, a ragione, la Chiesa cattolica «favorisce anche lo studio dei santi Padri d’Oriente e d’Occidente e delle sacre liturgie» (Dei Verbum 23).

4. Uso pastorale e missionario della Scrittura

Il Vaticano II ha inserito il riferimento alle traduzioni della Bibbia in lingua corrente nel capitolo sesto della Dei Verbum intitolato “La sacra Scrittura nella vita della Chiesa”. Il Concilio, volendo facilitare l’accesso alla Bibbia da parte di tutti i fedeli, ritiene necessario che la Bibbia sia nelle mani di tutti i fedeli e che la Parola di Dio sia l’ispiratrice di tutta l’azione pastorale della Chiesa. Per aiutare tale prospettiva pastorale è nata, nel seno della Chiesa cattolica, la “Federazione Biblica Cattolica”, un organismo che raccoglie le diverse istituzioni di pastorale biblica per un’azione coordinata al fine di far conoscere la Bibbia tra il popolo cristiano. E in quest’ultimo tempo il Pontificio Consiglio per la Famiglia sta sviluppando la prospettiva di aiutare ogni famiglia ad avere la Bibbia come il libro da cui attingere per la preghiera e per la meditazione. In tale orizzonte il testo conciliare esorta alla collaborazione con gli altri cristiani per la traduzione della Bibbia perché tutti possano comprenderla nella propria lingua.

È per la materna sollecitudine della Chiesa (Ecclesia materna sollecitudine curat) nei confronti dei fedeli che si è proceduto alla traduzione in lingua corrente della Sacra Scrittura che resta tale pur cambiando il codice linguistico. Alla base di questa concezione c’è un motivo pastorale sostenuto dal principio teologico dell’incarnazione di Dio, della sua kenosis. In altri termini, Dio parla le parole umane: egli si rivela nella nostra storia, prendendo in tutto il nostro essere linguaggio, cioè cultura. Ha scritto Serghiej Averintsev: “Solo il cristianesimo può spiegare il carattere terreno della lingua in cui ci parla la Rivelazione, collocandolo nel contesto della Incarnazione e della Kenosis divina. Il linguaggio umano, goffo, affannoso, talvolta balbuziente, di cui si riveste la Parola di Dio, è anch’esso un aspetto della accondiscendenza kenotica, assunta dal Logos per amor per noi”.

A questo proposito, anche la Conferenza episcopale italiana, già durante il Concilio, affrontò la questione di una traduzione italiana della Bibbia, dietro sollecitazione del cardinale Giovanni Urbani (1900-1969), patriarca di Venezia[4]. Dei Verbum 22 fa riferimento alle versiones orientale et versiones latinas. La presenza di un plurale al posto di un singolare riferito alle traduzioni è il risultato di un intervento del 9 ottobre 1965 della Commissione dottrinale. In quell’occasione, Charue, Butler, Garofalo e Rahner domandarono l’uso del plurale, che la Commissione accettò senza alcuna discussione.

Conosciamo quanto è avvenuto nei passati due millenni di storia della Chiesa: prima della sua fondazione, già l’Antico Testamento ebraico-aramaico fu tradotto in greco (i LXX); furono poi fatte di tutta la Scrittura versioni nelle lingue orientali (ad esempio, la versione siriana) e in latino, tra cui la versione tutta attribuita a san Girolamo (la Vulgata). Sappiamo, inoltre, che per conoscere e amare la Sacra Scrittura dobbiamo poterla leggere nella nostra lingua materna. Tutti i popoli hanno questa esigenza che diviene anche un diritto. Il tradurre la Bibbia nelle lingue di ulteriori tribù e clan di persone è azione evangelizzatrice e, ancor prima, d’inculturazione della fede

5. Lasciarsi illuminare e interpellare dalla Parola

Il bisogno di tradurre la Bibbia risponde anche a un altro grande principio: la Scrittura è il punto di partenza e l’orizzonte permanente che illumina la vita cristiana, ogni nostro agire, pensare, credere. In questo orizzonte le traduzioni della Bibbia aiutano le tre funzioni che la parola svolge in ogni situazione. La parola è infatti informazione. Essa, infatti, informa sui fatti, sugli avvenimenti, sulle cose che accadono. E l’informazione è propria soprattutto della scienza, della didattica, della storiografia che fa uso del racconto. La parola è anche espressione. Ogni persona che parla si esprime, dice qualcosa di sé. In effetti, per comunicare la persona deve ex-primersi, mettere in moto il suo essere, rischiare l’uscita da sé, disporsi a mostrare la sua interiorità. E, infine, la parola è anche appello. La parola, per sua natura, cerca l’altro, ha la passione dell’altro, perché l’uomo è relazione. Se è così per ogni parlare umano, ancor più lo è per la Parola di Dio: essa chiama l’uomo ad entrare in comunione con lui. La funzione appellativa della parola primeggia in alcune tipiche forme letterarie, quali la chiamata, la vocazione, il comando.

Parlare pertanto di traduzioni della Scrittura significa riconoscere che la Bibbia, nata dalla Chiesa e sua espressione privilegiata, torna alla Chiesa, al popolo di Dio per edificarlo, nutrirlo, illuminarne il cammino sino alla fine dei tempi[5]. E questo accade perché la Chiesa è l’estensione dell’incarnazione, è Cristo Dio-uomo che diventa Dio-umanità e nella Chiesa continua a parlare attraverso il Libro Sacro.

6. Inculturarsi per evangelizzare

La prima tappa dell’inculturazione consiste nel tradurre in un’altra lingua la Scrittura ispirata. A tal proposito, ha affermato Benedetto XVI, nell’Esortazione apostolica post-sinodale Verbum Domini (30-9-2010), n.115: «Se l’inculturazione della Parola di Dio è parte imprescindibile della missione della Chiesa nel mondo, un momento decisivo di questo processo è la diffusione della Bibbia mediante il prezioso lavoro di traduzione nelle differenti lingue»[6]. Questa tappa ha avuto inizio fin dai tempi dell’Antico Testamento quando il testo ebraico della Bibbia fu tradotto oralmente in aramaico (cf. Nee 8,8.12) e, più tardi, per iscritto in greco. Una traduzione, infatti, è sempre qualcosa di più di una semplice trascrizione del testo originale. Il passaggio da una lingua a un’altra comporta necessariamente un cambiamento di contesto culturale: i concetti non sono identici e la portata dei simboli è differente, perché mettono in rapporto con altre tradizioni di pensiero e altri modi di vivere.

Il Nuovo Testamento, scritto in greco, è segnato tutto quanto da un dinamismo di inculturazione, perché traspone nella cultura giudaico-ellenistica il messaggio semitico di Gesù, manifestando con ciò una chiara volontà di superare i limiti di un ambiente culturale unico. Ha osservato Averintsev che al cristianesimo è estranea la concezione di una lingua sacrale in cui sola possa essere espressa la Rivelazione. “I Vangeli – ha scritto il grande studioso russo – nascono fin dall’inizio come una trasposizione dell’insegnamento di Gesù dall’aramaico al greco, come un prodotto di ‘inculturazione’, un lavoro di traduzione nel senso ampio del termine”.

La traduzione dei testi biblici, tappa fondamentale, non può però essere sufficiente ad assicurare una vera inculturazione. Questa deve costituirsi grazie a un’interpretazione che metta il messaggio biblico in rapporto più esplicito con i modi di sentire, di pensare, di vivere e di esprimersi propri della cultura locale. Dall’interpretazione si passa poi ad altre tappe dell’inculturazione, che portano alla formazione di una cultura locale cristiana, che si estende a tutte le dimensioni dell’esistenza (preghiera, lavoro, vita sociale, costumi, legislazione, scienza e arte, riflessione filosofica e teologica). La Parola di Dio è, infatti, un seme che trae dalla terra in cui si trova gli elementi utili alla sua crescita e alla sua fecondità. Di conseguenza, i cristiani devono cercare di discernere «quali ricchezze Dio nella sua munificenza ha dato ai popoli; ma nello stesso tempo devono tentare di illuminare queste  ricchezze alla luce del vangelo, di liberarle e di riferirle al dominio di Dio salvatore» (cf. AG 11).

Non si tratta, come si vede, di un processo a senso unico, ma di una «reciproca fecondazione». Da una parte le ricchezze contenute nelle diverse culture permettono alla Parola di Dio di produrre nuovi frutti e, dall’altra, la luce della Parola di Dio permette di operare una scelta in ciò che le culture apportano, per rigettare gli elementi nocivi e favorire lo sviluppo di quelli validi. La piena fedeltà alla persona di Cristo, al dinamismo del suo mistero pasquale e al suo amore per la Chiesa fa evitare due false soluzioni: quella dell’“adattamento” superficiale del messaggio e quella della confusione sincretista (cf. AG 22).

Nell’Oriente e nell’Occidente cristiano l’inculturazione della Bibbia si è effettuata fin dai primi secoli e ha manifestato una grande fecondità. Non può, tuttavia, mai essere considerata conclusa; al contrario, deve essere ripresa costantemente, in rapporto con la continua evoluzione delle culture. Nei paesi di più recente evangelizzazione il problema si pone in termini diversi. I missionari, infatti, portano inevitabilmente la Parola di Dio nella forma in cui si è inculturata nel loro paese di origine. È necessario che le nuove Chiese locali compiano sforzi enormi per passare da questa forma straniera d’inculturazione della Bibbia a un’altra forma, che corrisponda alla cultura del proprio paese, con traduzioni adatte alla lingua locale.

7. Bibbia, Liturgia, preghiera

Il Vaticano II mettendo in relazione strettissima la Sacra Scrittura con l’Eucarestia fa della Divina Liturgia il luogo per eccellenza dell’ascolto e della trasmissione della Sacra Scrittura. Nel testo conciliare sulla Santa Liturgia, si afferma: “La liturgia della parola e la liturgia eucaristica sono congiunte tra loro così strettamente da formare un solo atto di culto”(Sacr Conc 56). Si supera quella separazione che un teologo ortodosso, Aleksandr Schmemann, ha definito la rottura tra la Parola e il sacramento, causa dell’impoverimento del ruolo nella vita della Chiesa dell’una e dell’altro: «Oserei dire che il processo di graduale “decomposizione” della Scrittura, dissolta da una critica sempre più specialistica e negativa, sia dovuto al fatto che essa è stata staccata dall’eucarestia, cioè in realtà dalla Chiesa stessa come esperienza e realtà spirituale. A sua volta, questo priva il sacramento del suo contenuto evangelico, per trasformarlo in un mezzo di santificazione autonomo». Secondo il teologo russo solo grazie all’unione indivisibile di Parola e sacramento si può cogliere la portata dell’affermazione che «solo la Chiesa custodisce il verso senso della Scrittura».

Nella Dei Verbum si scrive: “La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture, come ha fatto con il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella Santa Liturgia, di nutrirsi del Pane della vita dalla mensa sia della Parola di Dio che del Corpo di Cristo, e di porgerle ai fedeli” (21). Queste parole furono un chiaro passo in avanti per riportare la Sacra Scrittura nella vita della Chiesa e nelle mani di ciascun credente: la Parola viene assimilata alla Eucarestia, sino a parlare di una “presenza reale” di Cristo nella sua Parola (Eucharisticum mysterium, 9). Del resto, già gli antichi Padri della Chiesa erano stati chiari su questo punto. Il vescovo Cesario di Arles scriveva ai suoi fedeli: “Io vi chiedo miei fratelli e mie sorelle di dirmi ora: credete più importante la Parola di Dio o il Corpo di Cristo? Se volete rispondere la verità, dovete certamente rispondermi che la Parola di Dio non è meno importante del Corpo di Cristo! Infatti, come abbiamo cura, quando viene distribuito il Corpo di Cristo, di non lasciar cadere nulla per terra, così dobbiamo avere la stessa cura per non lasciar sfuggire dal nostro cuore la Parola di Dio che ci è rivolta, parlando o pensando ad altro. Poiché chi ascolta la Parola di Dio con negligenza non sarà meno colpevole di colui che lascia cadere a terra, per negligenza, il Corpo del Signore” (Sermone 78,2).

E’ tornata ad essere centrale nella Chiesa cattolica la lectio divina, ossia l’ascolto della Sacra Scrittura come fonte della preghiera: “La lettura della Scrittura dev’essere accompagnata dalla preghiera, affinché possa svolgersi il colloquio tra Dio e l’uomo”. La lectio divina, infatti, immette in un dinamismo che porta all’incontro con Dio. Il brano della Scrittura che viene letto non porta semplicemente a sapere le cose di Dio, oppure a parlare di Dio, quanto piuttosto a parlare a Dio. L’ascolto conduce il credente alla preghiera. Sant’Agostino avverte con chiarezza che la preghiera è necessaria alla comprensione stessa del testo della Scrittura. E aggiunge: “Quando leggi la Scrittura, Dio parla a te; quando preghi, tu parli a Dio”. La lettura della Bibbia è come circondata dalla preghiera. La Sacra Scrittura si comprende pregando. Presentando i salmi, Sant’Agostino suggerisce: “Se il testo è preghiera, pregate; se è gemito, gemete; se è riconoscenza, siate nella gioia; se è un testo di speranza, sperate, se esprime il timore, temete. Perché le cose che sentite nel testo biblico sono lo specchio di voi stessi”. La preghiera è come far tornare a Dio la Parola che egli ci ha rivolto. Il tempo dell’orazione è quindi il momento del dialogo con Dio, un dialogo singolare, che si sviluppa in modi diversificati. Infatti, non si tratta semplicemente di rivolgersi a Dio per ottenere questa o quella grazia, cosa sempre possibile evidentemente, ma di un dialogo che assume tutte le caratteristiche di un colloquio a due.

8. Alcuni rilievi

Da quanto è stato detto nel corso di questa esposizione, che rimane troppo breve su molti punti, la prima conclusione che emerge è la seguente: la traduzione della Bibbia nella Chiesa cattolica adempie a un compito indispensabile: quello della comunicazione del vangelo a tutti i popoli della terra. Volerne fare a meno sarebbe un’illusione e dimostrerebbe una mancanza di rispetto per la Scrittura ispirata.

I fondamentalisti pretendendo di ridurre gli esegeti al ruolo di traduttori (ignorando che tradurre la Bibbia significa già fare opera di esegesi) e, rifiutando di seguirli più avanti nei loro studi, si rendono conto che, per un’encomiabile preoccupazione di piena fedeltà alla Parola di Dio, si incamminano in realtà su strade che li allontanano dal senso esatto dei testi biblici, come anche dalla piena accettazione delle conseguenze dell’Incarnazione. La Parola eterna si è incarnata in un momento preciso della storia, in un ambiente sociale e culturale ben determinato. Chi desidera ascoltare deve umilmente cercarla là dove essa si è resa percettibile, accettando il necessario aiuto del sapere umano. Per parlare agli uomini e alle donne, fin dal tempo dell’Antico Testamento, Dio ha sfruttato tutte le possibilità del linguaggio umano, ma nello stesso tempo ha dovuto sottomettere la sua Parola a tutti i condizionamenti di questo linguaggio. Il vero rispetto per la Scrittura esige che si compiano tutti gli sforzi necessari perché si possa cogliere bene il suo significato. Certo, non è possibile che ogni cristiano faccia personalmente le ricerche di ogni tipo che consentano di comprendere meglio i testi biblici. Questo compito è affidato agli esegeti, responsabili, in questo settore, del bene di tutti.

C’è poi una ulteriore considerazione: la natura stessa dei testi biblici esige che, per interpretarli, si continui a usare il metodo storico-critico, almeno nella sue operazioni principali. La Bibbia, infatti, non si presenta come una rivelazione diretta di verità atemporali, bensì come l’attestazione scritta di una serie di interventi attraverso i quali Dio si rivela nella storia umana. Diversamente da molte dottrine sacre di altre religioni, il messaggio biblico è solidamente radicato nella storia. Ne consegue che gli scritti biblici non possono essere compresi correttamente senza un esame del loro condizionamento storico. Le ricerche “diacroniche” saranno sempre indispensabili all’esegesi. Gli approcci “sincronici”, qualunque sia il loro interesse, non sono in grado di sostituirle. Per funzionare in modo fecondo, devono prima accettarne le conclusioni, almeno nelle loro grandi linee.

Ma, una volta adempiuta questa condizione, gli approcci sincronici (retorico, narrativo, semiotico e altri) possono rinnovare in parte l’esegesi e fornire un contributo molto utile. Il metodo storico-critico, infatti, non può pretendere di avere il monopolio, ma deve prendere coscienza dei suoi limiti, come pure dei pericoli cui può andare incontro. Preoccupato, infatti, di fissare bene il significato dei testi situandoli nel loro contesto storico di origine, questo metodo si mostra talvolta insufficientemente attento all’aspetto dinamico del significato e alle sue possibilità di sviluppo. Quando non arriva fino allo studio della redazione, ma si concentra unicamente sui problemi delle fonti e della stratificazione dei testi, esso non adempie completamente al compito esegetico.

La stessa esegesi biblica deve tener conto della dimensione liturgica e di preghiera intimamente connessa alla Sacra Scrittura. Per questo deve mantenere la sua identità di disciplina teologica, il cui scopo principale è l’approfondimento della fede. Ciò non significa diminuire l’impegno nella ricerca scientifica. E’ ovvio che ogni settore della ricerca (critica testuale, studi linguistici, analisi letterarie, ecc.) ha le sue proprie regole, che deve seguire in piena autonomia. Ma nessuna di queste specialità è fine a se stessa. Ed è indispensabile – nel tradurre i testi – fare riferimento alla grande tradizione della Chiesa e al contributo originalissimo e preziosissimo dei Padri. Per Gregorio Magno, ad esempio, la Parola di Dio è una lampada che illumina la notte nella vita presente, è un bosco che con la sua ombra offre refrigerio contro la calura di questo mondo, è la guida dei pastori che assicura l’unità della Chiesa e conduce il gregge[7].

La Sacra Scrittura è, nella tradizione cristiana d’Oriente e d’Occidente, la fonte della vita per ogni credente. Per questo è necessario tradurla. La Parola di Dio, resa nelle parole umane, è il cardine dell’agire e del conoscere del vero discepolo[8]. La Scrittura – la sua comprensione – cresce con il lettore: Scriptura crescit cum legente – scriveva Gregorio Magno[9]. Il lettore viene a trovarsi in un rapporto spirituale con il Verbo di Dio e vede cambiare la sua vita. Anzi, vede la sua vita crescere spiritualmente ed entrare in una nuova condizione dove è rinsaldato il suo legame con Dio. Tale modo dinamico, esistenziale e progressivo di accostarsi alla Parola dell’Eterno è molto frequente nella tradizione dei Padri. Per esempio, Giovanni Cassiano afferma che, «nella misura in cui attraverso lo studio il nostro spirito si rinnova, anche la visione delle Scritture comincia a innovarsi»[10]. Trovarsi innanzi alla Parola fatta carne e nascosta nella Scrittura significa ricevere una nuova rivelazione, un vero e proprio giudizio che non è contro di noi, bensì a nostro vantaggio, per noi, per la nostra salvezza.

Un nuovo entusiasmo per la Parola di Dio

Vorrei chiudere queste mie riflessioni con un brano dell’omelia pronunciata dal beato Giovanni XXIII quando prese possesso della Basilica di san Giovanni in Laterano e che mi pare debba guidare l’intera vita pastorale e presiedere anche l’impegno nel tradurre la Sacra Scrittura: «Se tutte le sollecitudini del ministero pastorale ci sono care e ne avvertiamo l’urgenza, soprattutto sentiamo di dover sollevare da per tutto e con continuità di azione l’entusiasmo per ogni manifestazione del libro divino, che è fatto per illuminare dall’infanzia alla più tarda età il cammino della vita». Questo entusiasmo per la Parola di Dio di cui parla Giovanni XXIII è ciò di cui tutti noi abbiamo bisogno all’inizio di questo nuovo millennio, dai più piccoli agli anziani.


[1] È detto in Dei Verbum 13: «Le parole di Dio, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al linguaggio degli uomini, come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le debolezze della natura umana, si fece simile agli uomini».

[2] I.A. Marangon, La Bibbia parla di sé, in C.M. MARTINI – L. PACOMIO (dirr.), I libri di Dio. Introduzione generale alla Sacra Scrittura, Genova 1975, 28.

[3] Origene, Omelia 32.

[4] Alcuni criteri che hanno ispirato e accompagnato la traduzione dei nuovi Lezionari, si possono così sintetizzare. La traduzione attuale è stata rivista in base ai testi originali (ebraici, aramaici e greci), secondo le migliori edizioni critiche oggi disponibili, dalle quali è stata tradotta anche la Nova Vulgata e secondo i principi classici della critica testuale e dell’esegesi. Nei casi di lezioni testuali dubbie o discusse, ci si è riferiti in primo luogo alla versione dei Settanta, per l’Antico Testamento, e poi alla Vulgata, tenendo conto delle scelte compiute dalla Nova Vulgata. Si è cercato di recuperare un’aderenza maggiore al tono e allo stile delle lingue originali, orientandosi verso una traduzione più letterale, senza compromettere tuttavia l’intelligibilità del testo fin dal momento della lettura o dell’ascolto. Ci si è preoccupati di rendere il testo in buona lingua italiana, con modalità espressive di immediata comprensione e comunicative in rapporto al contesto culturale odierno, evitando forme arcaiche del lessico e della sintassi.

[5] Si consideri pure Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (15-4-1993).

[6] Durante i lavori sinodali, si è dovuto constatare che varie Chiese locali non dispongono ancora di una traduzione integrale della Bibbia nelle proprie lingue. Tantissimi popoli hanno oggi fame e sete della Parola di Dio, ma purtroppo non possono ancora avere un largo accesso alla sacra Scrittura. Per questo, il Sinodo ha ritenuto importante, anzitutto, la formazione di specialisti che si dedichino a tradurre la Bibbia nelle varie lingue e, personalmente, Benedetto XVI ha incoraggiato a investire risorse in questo ambito. In particolare, ha raccomandato di sostenere l’impegno della Federazione Biblica Cattolica perché sia ulteriormente incrementato il numero delle traduzioni della sacra Scrittura e la loro capillare diffusione. È bene che, per la natura stessa di un tale lavoro, esso sia fatto, per quanto possibile, in collaborazione con le diverse Società Bibliche.

[7] Cf. Gregorio Magno, Regola pastorale 2, 11; 3,24, a cura di G. Cremascoli, Roma 2008, 83; 174; Id., Omelie su Ezechiele I,5,1, a cura di V. Recchia, E. Gandolfo, Roma 1992, I, 169;

[8] Quando Giovanni Crisostomo commenta la terza domanda dell’uomo ricco che chiede ad Abramo di inviare Lazzaro sulla terra per ammonire i suoi fratelli, osserva che il principale errore che l’uomo ricco aveva commesso in vita era quello di non rispettare la Scrittura come la vera fonte della vita. La risposta di Abramo è categorica: «Hanno Mosè e i profeti; ascoltino loro» (Lc 16,29). È questa l’opinione di Giovanni Crisostomo sul ruolo delle Scritture durante la vita: sono la fonte principale, la fonte di vita che guida il credente alla salvezza. Affinché la Scrittura sia fonte di vita, è necessario leggerla incessantemente e continuamente. Per il Crisostomo, la Bibbia deve essere letta da tutti e non solo dai monaci e principalmente in famiglia. Cf. Giovanni Crisostomo, Discorsi sul povero Lazzaro IV,1, a cura di M. Signifredi, Roma 2009, 101.

[9] Cf, Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele I,7,8: PL 76,843.

[10] Giovanni Cassiano, Conferenze spirituali II,14,11: SCh 54,197.