“Vivere insieme è il futuro”.

Intervento al convegno di Sarajevo

Intervento al panel “Senza la Famiglia non c’è futuro”  nell’ambito dell’Incontro Internazionale di Preghiera per la Pace, promosso dalla Comunità di Sant’Egidio a Sarajevo (9-11 settembre 2012) 

È un titolo che coglie anche il tema della famiglia: cos’è infatti la famiglia se non il vivere insieme tra persone diverse e per sempre? Ed è così fin dalle origini, secondo la Scrittura. Racconta il libro della Genesi che Dio, subito dopo aver creato l’uomo, disse: “Non è bene che sia solo, gli voglio fare uno che gli sia simile”(Gn 2, 18). E nel capitolo precedente è scritto: “maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra”(Gn 1, 27-28). Nel disegno di Dio per l’intera umanità – già al momento della creazione – la famiglia resta la prima e fondamentale manifestazione della comunione, la prima cellula – se cosi possiamo dire – del  “vivere insieme” tra diversi. Ovviamente, la difficoltà a vivere insieme non appartiene solo ai popoli ma anche alle stesse famiglie. Esse tuttavia non attutiscono l’indispensabilità di questa prospettiva. Per questo tutte le religioni e le culture ritengono la famiglia un patrimonio originario del proprio bagaglio religioso. E’ vero che nel corso dei secoli le modalità di realizzazione della famiglia sono state e sono tutt’ora molteplici, ma la sostanza del contenuto è restata salda. Non è questa la sede per tracciare anche solo brevemente tale itinerario storico.

Quel che vorrei sottolineare è che negli ultimi decenni è intervenuto come uno iato. Viviamo in un momento storico che vede per la prima volta messo in discussione il matrimonio e la famiglia come tali. Non c’è una data precisa che possa fare da spartiacque. Deve farci pensare un piccolo libro del 1970 dal titolo: La morte della famiglia. Lo ha scritto David Cooper, uno psichiatra sudafricano, per il quale la famiglia è la cinghia di trasmissione in un sistema sociale che distrugge l’individuo. In un passaggio afferma: “La famiglia nelle sue metamorfosi sociali rende anonimi gli individui che lavorano o vivono insieme in una qualsiasi struttura istituzionale”. E poco più avanti, riferendosi ad uno dei compiti più alti della famiglia come quello dell’educazione, scrive: “Tirare su un bambino equivale in pratica a buttare giù una persona”. A questo testo se ne può aggiungere un altro, quello di A. Mitscherlich, uno studioso di psicologia sociale, dal titolo Verso una società senza padre.

L’autore sostiene che la società deve emanciparsi da gerarchie rigide e ingombranti per esaltare il soggetto e la sua autonoma libertà. La conclusione è la realizzazione una società fatta di individui ove l’io prevale sul noi, l’individuo sulla società, mentre la solitudine guadagna sempre più terreno rispetto alla comunione, e i diritti dell’individuo prevalgono sui diritti della famiglia. Si potrebbe dire – in una sintesi finale – che siamo tutti più liberi, ma anche tutti più soli.

In tale contesto culturale la famiglia, come è stata concepita per secoli, non trova più un orizzonte nel quale iscriversi ed essere quindi considerata nella sua effettiva forza e dignità. Ovviamente, non si deve sottovalutare la conquista dei diritti individuali che in questi ultimi decenni è stata ottenuta, ma questo non dovrebbe avvenire a scapito della dignità dei diritti della famiglia e del suo ruolo nella società. Purtroppo stiamo assistendo alla perdita delle protezioni che la famiglia aveva nel passato mentre – anche a livello legislativo – si è sempre più attenti a sostenere i diritti degli individui. Se pensiamo a quanto affermava Cicerone a proposito della famiglia: “principium urbis e quasi seminarium rei pubblicae”, vediamo sia grande la distanza rispetto alla considerazione che la cultura contemporanea ha di essa.

Di qui scaturisce il compito urgente di ridare dignità culturale alla famiglia, di riportarla nel cuore del dibattito sociale, di proporla al centro della vita politica e della stessa economia, come pure nella vita delle comunità cristiane. La preoccupazione predominante dell’io e della propria soddisfazione individuale sta, di fatto, tradendo la famiglia e quindi la stessa società. Si tratta di un tradimento teorico oltre che pratico. Anche perché la famiglia resta nei fatti la risorsa più importante della società. Nei sondaggi, ovunque sono stati realizzati, la famiglia resta al primo posto come luogo di sicurezza, di rifugio, di sostegno per la propria vita. E resta l’obiettivo della vita da parte della maggioranza. In Francia, per fare un solo esempio, i sondaggi ci dicono che il 77% dei francesi desidera costruire la propria vita di famiglia, rimanendo con la stessa persona per tutta la vita. La percentuale arriva all’84% per i giovani dai 18 a 24 anni. La stabilità coniugale resta perciò un valore importante e si tratta di un’aspirazione profonda. E tuttavia dire che si vuole stare insieme “per sempre” ha sempre meno dignità culturale, anzi si ritiene sia impossibile. Perdonatemi la battuta: perché si può dire tranquillamente il “per sempre” per la propria squadra del cuore e non per la propria moglie o per il proprio marito? Ovviamente qualcosa non funziona.

La famiglia non è un residuo del passato, non è una sopravvivenza di una realtà tramontata, non è un luogo che ostacola l’emancipazione degli individui, particolarmente della donna, per favorire magari una società più libera, più egualitaria, più felice. Al contrario – e sono molte le indagini che lo dimostrano nei fatti – la famiglia resta la risorsa più preziosa della società, il luogo ove si apprende la decisività del noi per l’edificazione e il sostegno di una società più giusta e più solidale. E’ nella famiglia – per fare un primo esempio che qualifica la famiglia nella sua sostanza – che la società trova il suo proseguimento attraverso la nascita dei figli. A tale proposito è davvero poco lungimirante la tendenza – che in Italia sembra solidificarsi – di avere un solo figlio. Andando avanti in questa prospettiva che ne sarà tra qualche anno del termine “fratello”? E non si può dimenticare che la famiglia resta il luogo ove i più deboli possono essere più facilmente aiutati: penso ai bambini, agli anziani, ai malati, ai soli. Per quest’ultimi la famiglia resta l’ambito ove possono trovare protezione.

Mi pare opportuno – all’interno di questo nostro incontro internazionale sulla pace – ricordare quanto Benedetto XVI scrive nel suo messaggio per la celebrazione della giornata della pace del 1 gennaio del 2006: “La famiglia naturale, quale intima comunione di vita e d’amore, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, costituisce «il luogo primario dell'”umanizzazione” della persona e della società», la «culla della vita e dell’amore». A ragione, pertanto, la famiglia è qualificata come la prima società naturale, « un’istituzione divina che sta a fondamento della vita delle persone, come prototipo di ogni ordinamento sociale». E aggiunge: “In effetti, in una sana vita familiare si fa esperienza di alcune componenti fondamentali della pace: la giustizia e l’amore tra fratelli e sorelle, la funzione dell’autorità espressa dai genitori, il servizio amorevole ai membri più deboli perché piccoli o malati o anziani, l’aiuto vicendevole nelle necessità della vita, la disponibilità ad accogliere l’altro e, se necessario, a perdonarlo. Per questo la famiglia è la prima e insostituibile educatrice alla pace. Non meraviglia quindi che la violenza, se perpetrata in famiglia, sia percepita come particolarmente intollerabile. Pertanto, quando si afferma che la famiglia è «la prima e vitale cellula della società», si dice qualcosa di essenziale. La famiglia è fondamento della società anche per questo: perché permette di fare determinanti esperienze di pace. Ne consegue che la comunità umana non può fare a meno del servizio che la famiglia svolge. Dove mai l’essere umano in formazione potrebbe imparare a gustare il « sapore » genuino della pace meglio che nel «nido » originario che la natura gli prepara? Il lessico familiare è un lessico di pace; lì è necessario attingere sempre per non perdere l’uso del vocabolario della pace. Nell’inflazione dei linguaggi, la società non può perdere il riferimento a quella «grammatica» che ogni bimbo apprende dai gesti e dagli sguardi della mamma e del papà, prima ancora che dalle loro parole”.

Queste parole di Benedetto XVI ci spingono a promuovere tra i credenti delle diverse religioni e gli uomini di buona volontà una convergenza di attenzione per riportare la famiglia al centro dell’attenzione della società, sia civile che politica. In tutti i credo religiosi è depositata la convinzione della centralità della famiglia per la vita sia delle persone che della società oltre che per le stesse comunità dei credenti. E in tutte le religioni la tensione verso il noi, ossia alla comunione tra gli uomini, resta una dimensione fondamentale. Per i cristiani – come per gli ebrei – resta un punto di riferimento saldo la narrazione biblica a cui ho fatto riferimento all’inizio. L’affermazione fatta da Dio stesso, ossia “Non è bene che l’uomo sia solo” è la pietra che sta a fondamento inamovibile del disegno di Dio sull’umanità. L’affermazione biblica è l’esatto opposto di quanto afferma la cultura dominante che pone l’io, l’individuo, al di sopra del noi. Potremmo dire che la tensione al noi è il filo rosso che regge la storia e la salva. Certo, non dobbiamo dimenticare che la tentazione all’egocentrismo che è il veleno che indebolisce la famiglia e ogni anelito alla comunione, è alle porte del cuore di ciascuno, anche credente. Benedetto XVI stigmatizza una concezione individualista della salvezza tra i cristiani. Si chiede come sia stato possibile che il cristiano moderno abbia potuto concepire la salvezza in maniera individuale. Il Signore – ricorda all’inizio la Costituzione conciliare sulla Chiesa, Lumen Gentium – ha voluto salvare gli uomini non singolarmente ma radunandoli in un popolo.

Ebbene, la famiglia cristiana si iscrive all’interno di questo grande disegno di amore e di comunione di Dio sul mondo. E’ la visione che le Sante Scritture ci manifestano e che il Concilio Vaticano II ha riproposto con forza all’attenzione dei credenti e di tutti gli uomini. La Bibbia apre la storia umana con la famiglia dei progenitori, Adamo ed Eva e i loro figli, e fa terminare la vicenda umana – lo hanno indicato prima i profeti e manifestato l’Apocalisse – con la famiglia dei popoli radunata attorno all’unico Padre nella celeste Gerusalemme. E’ in questa storia di comunione che si iscrive in maniera originalissima il matrimonio e la famiglia cristiana. Nella Chiesa, la famiglia viene elevata a Sacramento perché sia iscritta in maniera più robusta nel primato del noi, ossia nella realizzazione del grande disegno di Dio sul mondo. Non ne possiamo parlare in questa occasione della grandezza del matrimonio e della famiglia cristiana. Basti solo rimandare alle parole dell’apostolo Paolo che parla di un “grande mistero”, quello stesso del legame tra Cristo e la Chiesa. Così arricchita e irrobustita la famiglia cristiana non solo è aiutata a non chiudersi in se stessa – come il ricorrente virus individualista spinge a fare – ma è esortata e sostenuta nell’allargamento degli orizzonti per partecipare, come famiglia, alla missione stessa della Chiesa “segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità della famiglia umana”.