Trigesimo della morte di don Andrea Santoro
Cari amici,
abbiamo sentito il bisogno di radunarci assieme per ricordare don Andrea qui, nel Seminario Romano Maggiore, dove con lui abbiamo passato sei anni della nostra vita e dove don Andrea amava tornare. Credo che tutti noi, in questo mese, siamo tornati con la mente a ripercorrere gli anni che abbiamo vissuti assieme. E quanti ricordi ci sono tornati alla mente! Per me partono sin dalla metà degli anni Cinquanta nelle scuole medie al Seminario Romano Minore. Dopo i lunghi anni di vita comune nel seminario, le nostre strade si sono divise e quella di don Andrea è giunta sino in Turchia dove proprio un mese fa, al termine della messa, mentre pregava davanti l’altare, è stato colpito al cuore.
Nel Vangelo che abbiamo ascoltato si parla dell’apostolo Andrea che, assieme a Filippo, va da Gesù per riferirgli di alcuni greci che volevano vederlo; una iniziativa che sembra sintetizzare l’intera vita di don Andrea: portare tutti a Gesù, anche quei “greci”. Era un desiderio profondo di don Andrea: portare tutti a Gesù, anche quel pugno di fedeli di Trebisonda, e in ogni caso portare a tutti l’amore di Gesù. E lo portava, come lui stesso scrive nella sua ultima lettera, “in punta di piedi, con umiltà, ma anche con coraggio”. E, in effetti, non si è mai tirato indietro, appunto come Filippo e Andrea fecero in quel giorno. Dopo aver riferito a Gesù la richiesta i due si sentirono rispondere dal Maestro che era giunta la sua “ora”, quella di essere glorificato. Quell’ora che non era ancora giunta a Cana, quell’ora da cui i discepoli più volte volevano allontanarlo, quell’ora era finalmente giunta. Ed è giunta anche per don Andrea. Nessuno di noi lo avrebbe voluto e forse ancora oggi facciamo fatica ad accettarlo. Eppure don Andrea è venuto al mondo per quest’ora, per quel 5 febbraio scorso. Egli, vero “alter Christus”, al termine della celebrazione della Messa, mentre pregava, è stato glorificato da Dio, come sta scritto: “se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna”(Gv 12, 24-25). L’ “ora” della sua morte è stata la ragione della sua esistenza, di tutto il suo percorso di seminarista e di prete.
Sì, don Andrea è stato scelto da Dio fin dal seno materno per essere glorificato, perché fosse esempio di un amore che non consoce limiti, neppure quello della morte. Noi non lo sapevamo e tanto meno lo intuivamo, e tuttavia abbiamo avuto la grazia di vivere accanto a lui, chiamato ad essere martire. È una grazia essergli stati vicini. Ed ora che è stato “onorato” dal Padre credo dobbiamo fare tesoro della sua testimonianza. Il Papa Benedetto, più volte e fin dal primo momento ha parlato dell’esemplarità di don Andrea, una esemplarità per i preti di oggi e in particolare direi per i “preti romani”. Nell’incontro che avuto giovedì scorso con clero di Roma lo ha ricordato con queste parole: “Il luminoso esempio di don Andrea: morire per Cristo nel momento della preghiera e testimoniare da una parte l’interiorità della propria vita e, dall’altra, la propria testimonianza per gli uomini in un punto realmente panperiferico del mondo, circondato dall’odio e dal fanatismo di altri. È una testimonianza che ispira tutti a seguire Cristo, a dare la vita per gli altri e a trovare proprio così la Vita”. Il cardinale Ruini, facendosi eco di queste parole ha parlato di don Andrea come di un martire e ha promesso che sarà aperta la causa di beatificazione. Noi – penso a noi suoi compagni di seminario e al Seminario stesso – dovremmo forse essere tra i primi a raccogliere l’invito del cardinale per portare avanti questa sua proposta.
In ogni caso, il martirio di don Andrea ci interroga. Mi tornano in mente le parole della Lettera agli Ebrei quando, parlando dei martiri che ci circondano, ci ricorda che noi “non abbiamo resistito fino al sangue” (cfr. Eb 12,4). Don Andrea è il primo martire del Seminario Romano. Da compagno che era, è divenuto ora maestro, nel senso che ci mostra come amare, come vivere il nostro sacerdozio, come testimoniare la ricchezza di quell’amore che anche lui ha appreso dalle sorgenti profonde del Seminario Romano, di questa Chiesa romana chiamata a “presiedere alla carità”. Facciamo bene ad essere orgogliosi di lui. Dobbiamo anzi proporlo come esempio ai giovani di questa e di tante altre città, dicendo a tutti che è bello essere preti come don Andrea e che, soprattutto, c’è bisogno oggi di preti come lui perché solo così possiamo servire il Vangelo e cambiare il mondo. Egli ci mostra quell’eccesso di amore spesso davvero nei nostri paesi ricchi e tra noi. Eppure senza questa eroicità nell’amore lo stesso Vangelo rischia di essere come svuotato della sua forza di cambiamento.
Non è stata facile o lineare la vita di don Andrea. Chi più gli è stato più vicino ne è a conoscenza. E non sono mancate le incomprensioni. Don Andrea lo sapeva bene, ma non fuggiva dalla radicalità evangelica, pur con tutti i limiti che ciascuno di noi ha. E forse più volte forse ha applicato anche a se stesso le parole di Gesù: “Ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora! Padre glorifica il tuo nome!” Forse queste parole se le è ripetute nel gennaio scorso quando tornava in Turchia e il clima non era certo dei più tranquilli; oppure le ha meditate le tante volte che la santa inquietudine evangelica che gli bruciava dentro lo spingeva a cercare quelle vie che solo il Signore conosceva. Nell’ultima lettera, dopo un episodio di violenza che aveva subito da parte di giovani musulmani turchi, scrive: “Devo dirvi la verità: ho avuto paura e per qualche notte non ho dormito”. Ma don Andrea è rimasto lì, in quel palmo di terra periferica con meno di dieci cristiani, per continuare a offrire la sua buona testimonianza. E non sapeva che stava per “terminare la sua corsa”(cfr. At 20,24) e che era in procinto di ricevere la corona di gloria. Il Signore, anno dopo anno, passo dopo passo, per vie che forse neppure lui conosceva, lo ha guidato verso il martirio. La sua permanenza in Turchia è un mistero di amore che forse solo ora comprendiamo in tutta la sua forza profetica. Don Andrea aveva comunque compreso che in quel crocevia il Signore lo aveva posto per gettare ancora una volta il seme del Vangelo. Quel seme è caduto in terra e ha dato molto frutto. Lo nota nella sua ultima lettera: “Il regno dei cieli non è forse simile a un granellino di senape, il più piccolo tra tutti i semi? Lo getti e poi lo lasci fare…”.
Dopo che una ragazza musulmana, dentro la piccola Chiesa di Trebisonda, gli ha detto assieme ad altre amiche: “Anche noi ti vogliamo bene”, don Andrea ha scritto: “Dirsi ‘ti vogliamo bene’, dentro una chiesa, tra cristiani e musulmani mi è sembrato un raggio di luce. Basterebbe questo a giustificare la mia venuta”. Sì, don Andrea è voluto tornare là dove il cristianesimo aveva mosso i primi passi, come per coglierne la linfa vitale che, unica, può ridare speranza al mondo. Vi è andato sapendo che quella terra aveva bisogno di una rinnovata testimonianza evangelica. Ma vi è andato con il senso del debito, il debito di riconoscenza per quella terra d’Oriente che dato la fede all’Europa. Andare in Turchia perciò non era per lui una decisione privata, frutto di sue opzioni. Andrea è andato non da solo ma a nome della Chiesa di Roma. Mi raccontava il cardinale Ruini che quando, parlandone con lui, gli diceva che era una sua scelta, don Andrea ribatteva con vigore: “no, non vado a nome mio, vado a nome della Diocesi di Roma”. Dalla Chiesa dell’apostolo Pietro, don Andrea, si recava nella terra della Chiesa dell’apostolo Andrea, il primo dei chiamati, per offrire quella testimonianza di amore che sola può lenire e guarire la ferita lacerante della divisione. Sì, don Andrea aveva compreso che solo l’amore evangelico vissuto sino in fondo può sanare la divisione. Per questo don Andrea è un testimone del dialogo ecumenico. Ed è anche un martire del dialogo tra le religioni e tra i popoli. Lo diceva spesso: “La mia missione è il dialogo tra le fedi”, sapendo che nel Medio Oriente incrociava sia l’ebraismo che l’islam. E ha scelto come missione di essere un ponte, proprio mentre questo nostro mondo sembra perseguire una recrudescenza di conflittualità. Non è il conflitto tra civiltà che ci salva, ma l’incontro franco e saldo che ci suggerisce l’amore cristiano.
Fa bene rileggere queste parole della sua ultima lettera che mostrano su quale roccia fosse costruita la sua testimonianza: “Il vantaggio di noi cristiani nel credere in un Dio inerme, in un Cristo che invita ad amare i nemici, a servire per essere “signori” della casa, a farsi ultimo per risultare il primo, in un vangelo che proibisce l’odio, l’ira, il giudizio, il dominio, in un Dio che si fa agnello e si lascia colpire per uccidere in sé l’orgoglio e l’odio, in un Dio che attira con l’amore e non domina con il potere, è un vantaggio da non perdere. È un “vantaggio” che può sembrare “svantaggioso” e perdente e lo è, agli occhi del mondo, ma è vittorioso agli occhi di Dio e capace di conquistare il cuore del mondo. Diceva san Giovanni Crisostomo: Cristo pasce agnelli, non lupi. Se ci faremo agnelli vinceremo, se diventeremo lupi perderemo. Non è facile, come non è facile la croce di Cristo sempre tentata dal fascino della spada…Ci sarà chi voglia essere presente in questo mondo mediorientale semplicemente come “cristiano”, “sale” nella minestra, “lievito nella pasta, “luce” nella stanza, “finestra” tra muri innalzati, “ponte” tra rive opposte, “offerta” di riconciliazione?” Caro don Andrea queste tue parole sigillate con il sangue sono un dono per la Chiesa e per il mondo. L’eco straordinaria che ha avuto la tua morte mostra il bisogno che tutti abbiamo di queste tue parole, di questa tua testimonianza. In esse c’è l’eco di tutto il Vangelo. E dal cielo in questo mese è venuta nuovamente quella voce che diceva: “L’ho glorificato e di nuovo lo glorificherò!”
È venuta per te, caro Andrea, la glorificazione della morte che ti ha aperto il paradiso. Ma quella voce di che di nuovo ti glorificherà. Questa volta la glorificazione sarà profezia per noi e per il mondo quando salirai sugli altari. Le tue parole di amore, segnate dal sangue, sono la buona notizia che consegni anche a noi perché la portiamo al mondo. Sì, cari amici, la morte di don Andrea è una buona notizia risuonata ovunque in queste settimane perché gli uomini intraprendano il cammino della pace, dell’incontro, della comprensione reciproca, del perdono, il cammino dell’amore. Qualche tempo fa, quando qualcuno voleva che sorgesse anche tra i cristiani quel clima di violenza che sta avvelenando il mondo, don Andrea disse: “Noi siamo uomini della croce, non della spada”. E lo è stato davvero, sino in fondo, uomo della croce trafitto nel cuore da un proiettile come quello di Gesù lo fu con una lancia.
Cari amici, non a caso abbiamo vissuto accanto a lui. Il suo martirio è un dono e una responsabilità per ciascuno. E permettetemi un ricordo personale. Proprio a metà marzo di 36 anni fa, più o meno a quest’ora, in questa stessa cappella, eravamo stesi per terra mentre si cantavano le litanie dei santi per l’ordinazione diaconale sua e presbiterale mia. Ora Andrea, in piedi davanti all’altare del cielo, fa parte di quella schiera innumerevole di testimoni “che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello”(Ap 7,14). Dal cielo, accanto a Maria, Madre nostra e fiducia nostra, ci guarda e ci viene accanto per accompagnarci. Avviciniamoci a lui e, come quei greci, chiediamogli di mostrarci Gesù. Con la sua morte ci ha già mostrato la via, quella dell’amore che non conosce confini e che salva noi stessi e il mondo. E speriamo di poter contemplare con lui il volto buono e misericordioso del Padre. Don Andrea aiutaci!