Sacerdote, martire della fede

Intervista di Vita Pastorale

MONSIGNOR PAGLIA RICORDA DON ANDREA SANTORO

«Sacerdote, fratello, martire della fede»


di SAVERIO GAETA


Il vescovo di Terni rievoca la figura del sacerdote ucciso il 5 febbraio scorso in Turchia. Fu suo compagno fin dagli anni di seminario a Roma. Già allora esprimeva, ci dice, «una santa inquietudine evangelica» che lo spingeva a testimoniare una fede vicina alla vita di tutti.


«Un uomo, un sacerdote, un fratello, sempre inquieto a motivo della sua passione per il Vangelo». È la “fotografia” di don Andrea Santoro, il prete sessantenne ucciso il 5 febbraio in Turchia da un giovanissimo fanatico islamico, proposta con commozione da monsignor Vincenzo Paglia, vescovo di Terni. «Trentacinque anni fa eravamo ambedue stesi dinanzi all’altare nella cattedrale di San Giovanni in Laterano, lui per l’ordinazione diaconale e io per la consacrazione sacerdotale», ricorda monsignor Paglia, «e ascoltavamo il canto della litania dei santi invocati come nostri intercessori. Oggi mi rendo conto con trepidazione che accanto a me c’era un martire della fede».


Forse non si saprà mai se a spingere il sedicenne Ouzhan Akdil a entrare nella chiesa di Trabzon (Trebisonda) per colpire a morte don Santoro sia stata la reazione alle vignette satiriche su Maometto, oppure un’azione ispirata dalla criminalità locale che non vedeva di buon occhio le iniziative del sacerdote in favore delle donne gettate sulla strada della prostituzione. Resta il fatto, come nell’omelia dei funerali ha detto a chiare lettere il cardinale vicario Camillo Ruini, a nome della Chiesa romana, «che nel sacrificio di don Andrea ricorrono tutti gli elementi costitutivi del martirio cristiano». E per il riconoscimento di tale circostanza il cardinale ha annunciato di voler aprire al più presto il processo di canonizzazione.


Monsignor Paglia, chi era don Andrea Santoro?

«È stato un compagno carissimo sin dall’adolescenza, quando ci siamo conosciuti negli anni del Seminario. Ricordo quando insieme imparavamo a suonare la chitarra, perché in prospettiva volevamo stare vicino ai più giovani. E poi rivedo le discussioni attorno ai temi conciliari, confidandoci la speranza che il Vaticano II dava a noi giovani preti di poter mostrare a Roma il volto bello e ricco della Chiesa cattolica. Quella che lui esprimeva sin da allora era una santa inquietudine evangelica, che lo spingeva a testimoniare un Vangelo non appesantito dalle strutture, bensì proposto nella sua integralità e purezza, vicino alla vita di tutti e particolarmente dei più deboli».

La polemica sulle vignette satiriche ha tenuto banco in tutto il mondo, suscitando reazioni di ogni tipo, con caratteristiche anche molto violente. Qual è la sua valutazione?

«Le riflessioni che ho fatto sono di due tipi. La prima è che certamente bisogna rilevare la leggerezza con cui i mass media spesso trattano le questioni relative alla fede, che toccano i contenuti più profondi dell’animo umano. Recuperando la consapevolezza che la saggezza popolare ha espresso nel proverbio “Scherza coi fanti, ma lascia stare i santi”, occorre adoperarsi affinché la libertà non sia utilizzata per dileggiare e vilipendere i sentimenti religiosi. Ma, nel contempo, si deve denunciare l’assoluta sproporzione delle reazioni che si sono verificate in diversi Paesi islamici, che fanno pensare a qualcosa di orchestrato. Non c’è alcuna possibile giustificazione a violenze giunte sino all’assassinio, da condannare con sdegno e da reprimere con determinazione».

In effetti nelle stesse settimane è andato in onda uno spot che sbeffeggiava Gesù, mostrato mentre cantava “Io sopravviverò” e finiva poi sotto un autobus. Ma contro questa trasmissione non si sono riscontrate le medesime proteste…

«Senza dubbio questo non fa onore all’Occidente e neppure ai cristiani, anche perché l’assenza di una reazione è fonte comunque di imbarbarimento, magari sottile, ma non per questo meno pericoloso. Allargherei però il campo della riflessione, perché non c’è dubbio che dalle nostre parti si stia acuendo una forma pervasiva di indifferenza, che rende amara la vita di tanti: penso alla noncuranza di fronte alle morti per fame, mentre dall’altra parte emerge una cura eccessiva per il proprio corpo; penso alla difesa di una presunta libertà, mentre gli aborti si moltiplicano e gli anziani vengono abbandonati. La domanda che mi sorge spontanea è se contraddizioni così laceranti e una disumanità così forte non derivino proprio da una noncuranza di fronte alla vita, espressa anche dal dileggio delle cose più sacre che gli uomini posseggono».


Anche in seguito all’omicidio di don Santoro è stata confermata per fine novembre la visita di Benedetto XVI in Turchia. Che significato potrà avere questa importante occasione di dialogo e di condivisione?

«Parto col dire che a mio parere l’unico modo per allontanare il tragico spettro del conflitto, che è ancor peggiore dell’indifferenza o dell’equidistanza, è la riscoperta reciproca delle cose più sante di ciascun popolo. In questo orizzonte mi sembra che ben si inserisca il viaggio di papa Ratzinger, che risponde sì a una logica umana, ma ancor più alla logica cristiana che scaturisce dal Vangelo: la logica dell’amore, che per questo mondo sembra una follia, come del resto era già ai tempi dell’apostolo Paolo. Non è un caso, del resto, che questo Pontefice – che ha dedicato proprio al tema dell’amore la sua prima enciclica – desideri mostrare con la sua visita l’amore che nutre per quella Chiesa di Costantinopoli che è la prima fra le Chiese d’Oriente».

Dal punto di vista politico, è in corso un dibattito sull’ingresso della Turchia in Europa. Tutte queste vicissitudini possono avervi un qualche influsso?

«A tale riguardo traggo un esempio straordinario da Benedetto XVI, che già da cardinale pose parecchia attenzione a questo tema, dando anche qualche avvertimento. Con il gesto del viaggio in Turchia egli mostra la grandiosità di un cuore e di una mente che non soltanto si adopera, ma quasi spinge per un incontro fra i popoli. Comunque, l’ingresso della Turchia in Europa non potrà non richiedere tutte le garanzie che un Paese europeo deve offrire. 
La Turchia, insomma, dovrà adeguare la propria legislazione alla Costituzione europea, seppure conservando anche le sue più profonde tradizioni».

Quale lascito sgorga dalla vita e dalla morte di don Santoro?

«Don Andrea è andato in Turchia, lasciando a Roma una parrocchia bella e importante (quella dei Santi Fabiano e Venanzio), perché ha voluto recarsi nella terra che ha dato origine al cristianesimo. La sua intuizione era che soltanto tornando alle radici si può riscoprire la forza della testimonianza apostolica. Nello stesso tempo ha voluto ripagare un debito dell’Occidente, cui l’annuncio del Vangelo è giunto da luoghi che oggi sono invece poveri della testimonianza cristiana. Il suo intento era di contribuire a una nuova semina della Parola, senza alcuna velleità di proselitismo, bensì mostrando che l’amore è più forte di tutto e che il cristiano ha il compito di effonderlo dovunque. Lui, prete della Chiesa che “presiede alla carità”, ha incarnato in tal modo l’universalità della Chiesa di Roma che sa amare senza porsi alcun confine».


(da Vita Pastorale)