Religione, economia e politica

Religione, economia e politica

L’Europa e il fatto religioso:


la diversità delle credenze e delle appartenenze


 


La diversità delle credenze (delle fedi) e delle appartenenze non è un fatto nuovo nella storia dell’Europa. Le sue stesse radici sono al plurale. C’è chi parla di un’Europa prodotta da un grande “métissage” tra romani, greci e barbari, tra popolazioni e culture mediterranee di origine pagana e giudeo-cristiana, senza dimenticare l’apporto dell’islam. Il cristianesimo stesso, che non si identifica né con l’Europa né con l’Occidente, è comunque plurale al suo interno con le tradizioni cattolica, ortodossa, protestante e anglicana, per ricordarne le principali. Riflessioni analoghe possono essere fatte per le altre religioni, penso ad esempio, all’islam, ma anche per il multiforme mondo dei “laici”.


Ovviamente, le mutate condizioni storiche pongono in modo nuovo la questione del rapporto tra le diversità delle fedi e delle appartenenze e la prospettiva unitaria che abbiamo davanti. Il problema si fa ancor più urgente se si vuole un’Europa unita e forte nel quadro geopolitico mondiale con il predominio di una sola potenza. L’euro non basta a unire l’Europa e tanto meno a renderla protagonista nella storia di questo nuovo millennio. Non si può non concordare con Jacques Delors quando, da capo dell’amministrazione comunitaria europea, diceva: “Se nei dieci anni che vengono non saremo riusciti a dare un’anima, un significato, una spiritualità all’Europa, avremo perso la partita…Manca un soffio, un élan, alla nostra visione”. I dieci anni stanno per scadere. E le numerose frontiere sulle quali l’Europa deve vivere richiedono un consenso delle diverse parti attorno a valori etici, culturali e giuridici comuni.


 


Se ci si interroga su come coniugare diversità e unità organica, un primo problema sta forse nel riconoscere le diversità e lo specifico contributo che possono offrire. Faccio solo l’esempio del cristianesimo che tanta parte ha avuto nel processo di formazione dell’identità europea. Non mancano in questi ultimi tempi riflessioni critiche rispetto ad un eventuale processo che non tenga conto della prospettiva culturale e religiosa dell’ortodossia. Il metropolita Kirill, responsabile del Dipartimento per le relazioni estere della Chiesa Ortodossa russa, in una recente relazione all’Università di Perugia, ha richiamato con decisione la necessità di guardare anche all’apporto che l’Ortodossia può e deve offrire per la costruzione dell’Europa: “E’ indispensabile comprendere – diceva riferendosi agli occidentali – che l’Oriente dell’Europa non vuole seguire ciecamente regole elaborate un giorno da qualcuno, senza la sua partecipazione e senza tenere conto della peculiarità della concezione del mondo dei suoi abitanti, soltanto perché queste regole, in una fase storica,assicurano la prosperità di una determinata parte degli abitanti della terra”. E continuava dicendo: “Io non vorrei cercare vie di adattamento della civiltà cristiano-orientale al progetto occidentale di un’Europa unita. Io desidero parlare di ciò a cui il mondo cristiano-orientale non rinuncerà mai, ma che può e vuole condividere con l’Europa occidentale”. Anche il Patriarcato Ecumenico ha presentato un apposito memorandum per contribuire all’elaborazione della Costituzione Europea ricordando alcuni principi generali con i conseguenti aspetti etici, culturali e sociali. Ed è significativo notare il numero crescente di rappresentanti ortodossi che si stabiliscono a Bruxelles presso l’Unione Europea. E ha ragione Giovanni Paolo II quando afferma che “La Chiesa e l’Europa sono due realtà intimamente legate nel loro essere e nel loro destino. Hanno fatto insieme un percorso di secoli, e rimangono marcate dalla stessa storia”. Anche solo la complessità della presenza cristiana obbliga a tenere in conto il contributo che le diverse confessioni possono offrire in vista di un orizzonte spirituale, etico e culturale comune. Riflessione analoga va fatta per le altre religioni presenti in Europa.


 


L’apporto delle religioni può qualificare il processo di integrazione europea, senza pensare che questo comporti un ritorno indietro della storia europea. Se qualcuno, anche solo qualche decennio fa, poteva pensare che le religioni sarebbero state spazzate via dalla modernità, oggi deve ricredersi visto che spesso vengono chiamate in campo. Non di rado esse vengono spinte in modo distorto per sacralizzare conflitti e santificare aneliti identitari. Al contrario, possono aiutare a superare quelle passioni autoreferenziali che spingono a rinchiudersi in se stessi, e assieme suscitare energie di pace e di solidarietà. Ricordo ancora il primo ministro albanese, Fatos Nano, il quale subito dopo le prime elezioni libere del marzo 1991 mi diceva che il danno maggiore provocato dal regime totalitario di Enver Oxa con l’annullamento di ogni religione era dato dal fatto che nell’avvio del processo democratico non sapeva più su quali valori comuni poteva basarsi per domandare al popolo sacrificio e solidarietà per il bene della nazione. E aggiungeva: “Lo dico da non credente ma con la responsabilità di presidente del Consiglio dei Ministri”. Sembrerebbe venire in aiuto a Fatos Nano anche un noto filosofo italiano, caro al mondo laico, Norberto Bobbio, il quale in una recente pubblicazione giunge a proporre la necessità della religione per la stessa sopravvivenza della democrazia. “A meno che – scrive – non esista un’altra forza capace di toccare le motivazioni interiori all’azione, bisogna accettare l’idea della necessità della religione”.


 


In ogni caso la convivenza tra le “diversità” è ineluttabile, ma non è automatico “governarla”. E governarla, a mio avviso, significa che è obbligata la via dell’incontro e del dialogo. In passato era possibile vivere separati, come lo fu qualche secolo fa quando l’Europa cristiana inventò per sopravvivere il “cuius regio, eius religio”, una sorta di pulizia etnico-religiosa. Ma l’ordine del mondo uscito dalla secondo conflitto mondiale non è più proponibile, anche se lo volessimo. Si parla oggi di multiculturalità per indicare non solo la diversità, il carattere plurale delle appartenenze originarie, ma anche il loro intrecciarsi, l’abbondanza, la mobilità e le molteplicità che ne risultano. C’è chi parla di un meticciato al passato; ma può anche immaginarsi per il futuro dell’Europa. In ogni caso la strada per incamminarsi verso un’Europa unita mi pare sia quella in cui i diversi siano riconosciuti e nello stesso tempo sappiano incontrarsi apprendendo a convivere tra loro. Un’Europa unita e forte potrà realizzarsi se le “diversità”, pur conservando la propria identità, riescono a ritrovarsi attorno a valori condivisi. Ma tale consenso non credo si possa ottenere attutendo o, peggio ancora, annullando le “diversità” alla ricerca di un vacuo e neppure auspicabile minimo denominatore comune.


 


Mi sono fermato soprattutto ad accennare alla diversità religiosa, ma non vanno  dimenticate le minoranze etniche e culturali. Questa prospettiva diviene ancor più pressante se si pensa ai dieci paesi dell’Europa centrale che stanno per fare il loro ingresso nell’Unione. Sappiamo che i confini tracciati dopo il primo conflitto mondiale in questa area, quando hanno privilegiato il criterio della maggioranza hanno creato una miriade di minoranze compresse, e quando, come in Cecoslovacchia e in Jugoslavia, hanno messo insieme in misura uguale i vari popoli, ma con elementi storici, linguistici e religiosi che non sono stati adeguatamente amalgamati, sono succedute poi separazioni a volte a prezzo di sangue. Nella ex-Jugoslavia, per fare un solo esempio, ci siamo impegnati in due conflitti contraddittori: in Bosnia per unire le diverse etnie, e in Kossovo per dividerle. E comunque le questioni sono rimaste immutate, come stanno dimostrando i processi elettorali che continuano a sottolineare le divisioni etniche. Ma la via che resta, dopo aver sperimentato la tragedia conseguita dalle espulsioni e dall’epurazioni etniche, è quella di una democrazia che tenga conto di tutte le culture, dando loro uguali diritti. Non è certo un percorso facile, anzi è senza dubbio rischioso perché costretto a passare tra chiusura e scambio, tra distruzione e sopravvivenza. Ma credo sia l’unica via possibile.


 


L’apporto delle diverse tradizioni religiose non contraddice la laicità. Mi chiedo però se non sia opportuno rivisitare il senso della religiosità e della laicità. Questi due termini, o meglio queste due dimensioni della vita non sono “fisse” e immobili. Essi hanno una loro storia e seguono un loro processo. Richiedono pertanto una rinnovata comprensione e forse anche una purificazione dai rispettivi eccessi. Può esserci infatti una patologia della religione come della laicità. Il fondamentalismo può essere caratterizzato come una degenerazione delle due dimensioni. E senza alcun dubbio si deve operare in ogni modo per evitare la deriva fondamentalista sia delle religioni che della laicità. In questo caso la semplificazione dei processi sarebbe pericolosissima. Mi riferisco, ad esempio, alla teoria del cosiddetto “conflitto di civiltà”, una tesi che l’Europa e il Mediterraneo smentiscono nella loro storia e nella loro geografia, se così posso dire. Non mi dilungo su questo,  a accenno alla necessità di evitare il rischio di un fondamentalismo laico, che in Albania trovò una deriva estrema con l’abolizione per Costituzione di ogni religione. La laicità non significa esclusione di ogni credo o riduzione della dimensione religiosa al privato individuale. Io stesso ho avuto modo di colloquiare con Arrigo Levi, un laico italiano, a proposito di fede laica e fede religiosa, con l’insistenza di Levi nel sottolineare il monoteismo come fonte dell’umanesimo europeo. E’ un dibattito che potrebbe collocarsi all’interno dell’interessante scambio di prospettive che in Francia è avvenuto, ad esempio, tra Luc Ferry e André Comte-Sponville, ambedue laici, i quali affermano di restare in una prospettiva intramondana, ma Ferry prende in prestito l’impalcatura spirituale cristiana per offrire, a suo dire, una solida e indispensabile dimensione etica e l’altro, invece, che resta saldamente ancorato in una prospettiva materialista. Non entro nel dibattito accesosi in Francia dopo il testo del Vertice di Nizza a proposito della Carta dei Diritti Fondamentali (7 dicembre 2000). Jaques Delors, seguito da numerosi intellettuali francesi sia credenti che laici, disse in proposito: “Lamento che abbia soppresso, per ragioni legate ad una certa idea di laicità, il riferimento all’eredità religiosa…Sarebbe come se in Francia coloro che sono contro la dittatura, o piuttosto contro il potere autoritario, decidessero di far sparire dalla storia Napoleone”. Tornando al tema del rapporto tra laicità e religiose, in Italia, Gian Enrico Rusconi  ha sostenuto la necessità per il credente di mettere tra parentesi la propria fede per essere un sincero democratico. E a sostegno della sua tesi prende in prestito la nota frase di Bonoheffer: “comportarsi come se Dio non ci fosse”. E’ una posizione che andrebbe approfondita, tanto più che, per restare al caso italiano, una sentenza della Corte Costituzionale afferma che la laicità dello Stato non implica l’esclusione delle credenze (o la loro forzata privatizzazione) semmai significa garantire il diritto di ogni confessione religiosa ad esercitare con libertà il proprio culto, ovviamente all’interno del quadro legislativo nazionale. La via aperta dal Vaticano II con la riflessione sulla libertà religiosa mi pare possa indicare quel percorso che permette un incontro dialetticamente virtuoso tra religiosità e laicità.


 


Questo porterebbe a chiedersi se la Costituzione Europea deve attuare un processo di livellamento o, peggio, di eliminazione o non piuttosto una sintesi – certamente ardua, ma certo virtuosa – che sia frutto del contributo delle diverse tradizioni religiose e culturali. E’ in ogni caso significativo che il Partito Socialista Europeo nelle proposte presentate per la scrittura della Convenzione ritenga tra l’altro che “la ricchezza e la diversità delle culture in Europa deve essere protetta mentre sviluppiamo valori condivisi e accettiamo comuni responsabilità in accordo con i diritti dei cittadini. Il contributo dei gruppi culturali, sociali e religiosi sarà di cruciale importanza per raggiungere tali obiettivi”. Tale proposta mi pare un significativo superamento della dichiarazione del Vertice di Laeken: nel testo, parlando della società civile neppure si accennava ai gruppi religiosi. Ripeto, non è semplice tale processo di “integrazione” perché richiede l’entrata in gioco di temi di ordine giuridico, politico, filosofico e religioso. Eppure è una fatica necessaria che richiede una partecipazione ampia e, in certo modo, mai compiuta in modo definitivo.


 


Mi fermo unicamente a qualche cenno relativo al dialogo tra le religioni. Tale dialogo richiede alle religioni stesse una nuova autocomprensione che mette in gioco anche il senso delle verità che esse professano nel senso inteso da Giovanni XXIII il quale diceva: “Non è il Vangelo che cambia; ma che noi lo comprendiamo meglio”. Sarebbe utile approfondire il senso che il termine “verità” acquista all’interno dell’universo religioso, che non necessariamente corrisponde con quanto si intende in ambito filosofico. E, in ogni caso, che il credente viva la propria fede come “vera”, quindi come assoluta, non implica che le altre fedi siano immediatamente e totalmente “false” in quanto tali e che perciò debbano essere combattute. Non entro in tale questione (ci sono indicazioni date dal Vaticano II), ma, nel vivere gomito a gomito, le diverse religioni (anche il cristianesimo) divengono, in un certo senso, sempre più interreligiose, appunto perché la delimitazione che una identità fa di se stessa suppone il riconoscimento dei confini delle altre. L’identità – se vuole salvare se stessa – non può esimersi dall’incontro e dal dialogo con le altre identità. Ogni religione pertanto è come costretta ad essere in certo modo interreligiosa, e la stessa verità acquisisce come un nuovo statuto per il suo rapporto con la pluralità, e la libertà dell’individuo viene immediatamente connotata dal suo rapporto ravvicinato con l’altro. Ciò significa che la conoscenza reciproca, la cordialità nei rapporti tra i credenti di diverse fedi e l’esclusione di concepire l’altro come un nemico da combattere diventano parte importante del proprio credere. Insomma la fede impegna “con” e non “contro” le altre tradizioni religiose. E’ l’esperienza più che decennale che la Comunità di Sant’Egidio vive negli incontri internazionali di preghiera per la pace. Tale nuova condizione delle religioni comporta che esse possano anche apprendere le une dalle altre, come con coraggio Giovanni Paolo II disse in India a proposito di Gahndi. E’ chiaro che è totalmente esclusa la realizzazione di una sorta di democrazia delle religioni, o di una intesa a ribasso verso un comune denominatore. Giovanni Paolo II parla, ad esempio, della capacità del cristianesimo di “armonizzare, consolidare e promuovere”, quindi non di annullare, quei valori consegnati all’Europa dallo spirito della Grecia, della romanità, dei diversi popoli, della cultura ebraica e di quella islamica. Non è questo un impegno peculiare dell’Europa che essa deve riscoprire per se stessa e per il mondo? 


Questa attitudine a me pare strettamente legata al dialogo tra i credenti, e tra questi e i laici. Va riscoperta senza dubbio quell’ispirazione, semplice e profonda, indicata da Giovanni XXIII: cercare anzitutto quel che unisce e mettere da parte quel che divide. Questo atteggiamento, ancor prima che una questione di contenuti, significa uno stile di vita, un metodo di rapportarsi che, senza sopprimere le differenze, fa però evitare lo scontro. E’ un modo di porsi di fronte alla storia, oggi. La discordia non significa inimicizia e l’altro non è necessariamente un nemico da sconfiggere e abbattere. Al contrario, il dialogo significa un’opportunità per accomunare tutti, laici e credenti delle varie fedi, di fronte alle sfide poste dall’etica, dalla giustizia, dalla globalizzazione, dalla solidarietà, dall’ambiente, e così via. La domanda centrale, che è anche un compito, appare a questo punto chiara: come convivere tra persone, tra fedi e tra popoli diversi? Non si tratta di perdere la propria identità per scivolare verso una omogeneizzazione generale. Il problema è come conservare le diverse identità senza che esse si pongano l’una contro l’altra, l’una nemica dell’altra. E’ ciò che potremmo chiamare l’arte del convivere tra diversi. Ripeto: finito il mondo in cui ciascuno viveva solo con i propri correligionari, bisogna imparare a vivere insieme. Ed è qui che bisogna concentrare gli sforzi di tutti: ri-apprendere e ri-praticare l’arte del convivere (per secoli è stata possibile in Europa). E come ogni arte, anche questa richiede disciplina interiore, conoscenza e comprensione reciproca, superamento di pregiudizi e ricerca di valori condivisi. In questo l’Europa è chiamata anche ad indicare una direzione che è valida per l’intero pianeta.


Ci troviamo in una nuova e inedita stagione storica. Ed è urgente trovare nuove “vie di senso” che vedano laici e credenti impegnati assieme a prendere dalle proprie sorgenti spirituali e culturali ciò che hanno di più prezioso. Potrei dire che c’è bisogno di più fede e di più ragione: i credenti debbono essere più credenti e i laici più laici. Questo comporta un processo di approfondimento, un ritorno appunto alle proprie sorgenti spirituali, praticando nello stesso tempo quel che Paul Ricoeur chiamava la “ospitalità delle convinzioni”. Se si scende al fondo delle proprie fedi, o delle proprie convinzioni laiche, è più facile anche per l’Europa vivere e proporsi come terra di libertà, di democrazia, di pace e di giustizia, rispettosa della cultura e dei diritti dei popoli, fattiva protagonista di una “globalizzazione della solidarietà” senza marginalizzazioni né esclusioni.